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ilprincipenudo. L’Arlecchino Rai non serva più i suoi padroni (politica e pubblicità)

Angelo Zaccone Teodosi

La riforma della Rai continua il suo iter, passando dalle segrete stanze di Palazzo Chigi a quelle pubbliche di Montecitorio e Palazzo Madama: il disegno di legge governativo, le cui linee-guida sono state approvate nel Consiglio dei Ministri del 27 marzo (e qui ci piace ricordare che quel che anticipavamo su “Key4biz” s’è rivelato corrispondente a quanto effettivamente deciso dal Cdm), ed il cui testo integrale è apparso venerdì santo 3 aprile, vedrà avviato l’iter nei prossimi giorni in Commissione Trasporti al Senato…

#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Abbiamo già spiegato, su queste colonne (e su quelle del mensile “Millecanali”), perché questa riforma non ci piace: non determina quel radicale cambio di rotta di cui avrebbe necessità il servizio pubblico radiotelevisivo, ovvero una ridefinizione del suo profilo identitario e delle sue funzioni nel sistema mediale digitale. Tutto questo, nella “riforma Renzi”, non c’è. In sostanza, la riforma determina semplicemente un “efficientamento” (usiamo volutamente questo orribile neologismo burocratico) del gruppo Rai in una prospettiva aziendalistica: una razionalizzazione gestionale, pur importante, che non è però il problema vero della Radiotelevisione Italiana spa. Da molti anni (ricordiamo Veltroni?!), si prospettava l’esigenza di un amministratore unico, o comunque di un “decisore” dotato di adeguate deleghe ovvero di molto potere, per superare l’infinito policentrismo di viale Mazzini. Ma – ribadiamo – non è questo il problema essenziale: la Rai deve essere necessariamente “azienda”, e quindi deve essere sottoposta alle logiche dell’impresa, inevitabilmente commerciali? Riteniamo di no.

La Rai deve essere ente pubblico che cura il servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale.

Andare nella direzione di una Rai sempre più aziendale, e quindi commerciale, non garantisce alcunché, se non una sicura omologazione alle regole del mercato (pubblicitario), con riduzione e tendenziale azzeramento di quella “diversità” semantico-ideologica che un “public service broadcaster” deve invece garantire.

Ieri 15 aprile, il quotidiano “La Stampa” pubblicava una osservazione che sembra essere sfuggita ai più, e va dato atto al collega Francesco Maesano di aver saputo leggere bene “tra le righe” (e pieghe) del disegno di legge una innovazione discretamente esplosiva: studiando attentamente il testo del ddl governativo, si nota infatti che la lettera A dell’articolo 5 prevede l’abolizione degli articoli 17 e 20 della cosiddetta “legge Gasparri”.

L’articolo 17 della Gasparri recita, in particolare, al comma 2 lettera O, “il rispetto dei limiti di affollamento pubblicitario previsti dall’articolo 8, comma 6, della legge 6 agosto 1990, n. 223”. È la cosiddetta “legge Mammì”, che sul punto prescrive: “La trasmissione di messaggi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica non può eccedere il 4% dell’orario settimanale di programmazione ed il 12% di ogni ora; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2% nel corso di un’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva”.

Ne deriva che questo passaggio del ddl determinerebbe (se il testo venisse approvato con questa formulazione, e nutriamo dubbi…) l’abolizione di questi limiti di affollamento, e quindi una sostanziale equiparazione della Rai alle emittenti commerciali. “Libero mercato”, vero?! Secondo una interpretazione (malevola?!), l’eliminazione di questo tetto sarebbe strumentalmente prodromica alla abolizione del canone. Secondo alcuni, Renzi vorrebbe infatti “vendere” buona parte della Rai, ed una ipotesi di Rai 1 e Rai 2 completamente libere di competere sul mercato pubblicitario potrebbe divenire appetibile, per operatori italiani ed anche stranieri: resterebbe soltanto la “nicchia” di Rai 3, libera da pubblicità. Una prospettiva che riteniamo devastante.

La direzione è profondamente errata.

Temiamo che Matteo Renzi e Antonello Giacomelli pensino al televisivo “modello britannico”, non guardando però alla Bbc (che non trasmette pubblicità) bensì a Channel4 (anomalo caso, in tutta Europa, di “psb” finanziato quasi esclusivamente dalla pubblicità).

Perché questa soluzione è sbagliata?!

Perché la Rai è già oggi (con i suoi “tetti” all’affollamento pubblicitario) schiava di due padroni: la pubblicità e la politica. L’Arlecchino di viale Mazzini deve essere affrancato da uno dei due padroni.

La riforma Renzi non l’affranca dalla politica, ovvero dal controllo dell’Esecutivo sulla “governance”, e tendenzialmente la rende paradossalmente più schiava della pubblicità.

La Rai deve essere altra rispetto all’offerta dei broadcaster commerciali: per addivenire a questo risultato, non v’è soluzione altra se non quella della Bbc. Ogni ipotesi alternativa (anche soltanto quella tedesca, con un “psb” che non trasmetta pubblicità in prime-time) rappresenterebbe un ibrido, sicuramente confuso e certamente degenerato, se cucinato in salsa italiana.

Se la Rai si differenzia realmente, se la Rai riesce a proporsi come autentico servizio pubblico, senza pubblicità alcuna, sicuramente il livello di evasione del canone si ridurrebbe, perché finalmente il cittadino telespettatore toccherebbe con mano – ovvero vedrebbe chiaramente – la differenza rispetto a Mediaset, La7, Sky ed al sistema tutto dell’offerta televisiva.

Nei giorni intercorsi tra l’approvazione delle linee-guida in Cdm e dell’“annuncio” (27 marzo) e la circolazione del testo del ddl (3 aprile), qualcosa sembra essere cambiato, nelle decisioni del Governo, ma si tratta di “dettagli”. Come ha notato efficacemente il 10 aprile Marco Mele nel suo blog “Media 2.0” (sul sito web del gruppo Il Sole 24 Ore): “il disegno di legge del Governo sulla Rai, alla fine, è stato in parte “migliorato”, ma non troppo. La maggioranza dei consiglieri è ora eletta dal Parlamento, rinunciando alla “seduta comune”. Il Governo ne nomina due e non più tre; l’amministratore delegato è nominato dal Cda “su proposta” dell’azionista in assemblea dei soci, ma può essere revocato dal Cda “sentita” l’assemblea. Non poco, ma è l’impianto che appartiene a un’altra epoca. Ad alcuni analisti del settore, come Sergio Bellucci, sembra un ritorno alla Rai pre-riforma, un’azienda che risponde all’esecutivo. Un passo avanti e due indietro, nella migliore tradizione dei gamberi politici italiani?!

Siamo scettici sull’esito dell’iter parlamentare, ma ci auguriamo che il dibattito possa stimolare aggiustamenti radicali di rotta.

Il dibattito

Auguriamoci anche che l’iter parlamentare possa trarre spunti dal dibattito della “società civile”: domani 17 aprile, come abbiamo già segnalato su queste colonne, l’associazione InfoCivica promuove un convegno in Senato, “Obiettivo 2016. Le nuove responsabilità del servizio pubblico nel sistema delle comunicazioni”; martedì prossimo 21 aprile, l’Istituto Luigi Sturzo promuove il convegno “Rai, la scuola, la cultura, il servizio pubblico. Non è mai troppo tardi”. Entrambe le iniziative, seppur non direttamente, stimolano – anche a partire dalla titolazione – una riflessione sulla questione che riteniamo centrale ed essenziale: una “riforma della Rai” deve essere inserita all’interno di un ragionamento complessivo su senso e modalità dell’intervento della “mano pubblica” nel settore culturale e mediale, dall’editoria alle tlc, dalla musica al web. E questa “vision” organica delle industrie culturali e creative, in Italia, continua a mancare completamente.

La chiusura di Tafter

 

 

Nel mentre il futuro della Rai resta incerto (inquietante vicenda Rai Way inclusa), assistiamo a piccoli e grandi segnali, che confermano l’assenza di un “policy making” strategico ed accurato, in materia di cultura e media: la notizia non è certo stata rilanciata dai grandi mezzi di comunicazione di massa, ma il 1° aprile ha cessato le pubblicazioni un quotidiano telematico specializzato sulla cultura, “Tafter”. Si tratta di una testata edita dal 2006 da una società specializzata nel marketing della cultura, la Monti & Taft srl, fondata da Stefano Monti (con lo slogan “la cultura a 360 gradi”). Scrive Monti nel necrologio: “Caro Lettore di Tafter, abbiamo camminato a lungo insieme e in questo cammino siamo cresciuti ogni giorno raccontando una storia fatta di persone, idee e progetti. Questa storia, però, oggi si ferma. Abbiamo creduto che in Italia fosse possibile parlare di cultura senza avere necessariamente la sponsorizzazione di un’università o una fondazione, abbiamo creduto che avere successo nel mondo della cultura non fosse solo una questione di best practice stra-finanziate ma anche di segnali deboli, di esperienze piccole ma foriere di un futuro vicino, abbiamo creduto fosse giusto raccontare con coraggio e costanza sia l’immenso patrimonio culturale italiano che il suo degrado e le troppe assenze della politica, abbiamo creduto che essere la rivista di riferimento nell’ambito culturale italiano con migliaia di lettori ogni giorno fosse il modo migliore di dare un servizio a chi cercava spirito critico e onestà intellettuale”.

Conclude tristemente l’editore e direttore della testata: “abbiamo creduto, e lo crediamo ancora, che la cultura non sia solo arte, ma altresì identità, rinnovamento, visione, coraggio, divertimento, territorio, innovazione. Ma oggi Tafter deve fermarsi di fronte ad una realtà che si scontra troppo spesso con giochi di interesse che poco hanno in comune con ciò che noi intendiamo arte”.

Da ricercatori, siamo andati a dare un’occhiata al bilancio della Monti & Taft srl, ed i numeri della crisi sono impressionanti: se il fatturato era stato di 123mila euro nel 2011, cala drammaticamente a 22mila nel 2012, che divengono 67mila nel 2013. Nel 2012, le uscite sono state di 134mila euro, con un deficit di ben 111mila euro; nel 2013, il deficit si riduce a 72mila euro, con 67mila euro di ricavi, ma ben 136mila euro di costi…

“Tafter” è riconosciuta da un decennio, nel sistema culturale italiano, come una testata qualificata, accurata, seria, indipendente. Non ha mai beneficiato di alcun sovvenzionamento pubblico, ed è evidente che non può reggere deficit di oltre 100mila euro l’anno. La scomparsa di questa piccola testata contribuisce a ridurre il pluralismo del sistema mediale italiano, in un settore sensibile qual è la critica delle politiche culturali.

Il lettore potrebbe commentare: di cosa ci si stupisce, allorquando hanno tirato le cuoia quotidiani (non telematici) come “il Riformista” e finanche “l’Unità”?  È evidente che la vicenda di “Tafter” è piccola cosa, rispetto ai grandi (…) numeri della stampa quotidiana, ed alla drammatica crisi che debbono affrontare in Italia gli editori tradizionali. Chiudono testate grosse e piccole, chiudono edicole (e librerie), cresce la disoccupazione di professionisti qualificati del sistema giornalistico e mediale. Ed il Governo Renzi, che tanto sensibile si dichiara rispetto alle tematiche della cultura e dei media, cosa sta facendo?! Studia, anche lì (editoria giornalistica), una riforma dell’intervento pubblico che temiamo finisca – in nome di una “spending review” malamente intesa – per buttare anche il bambino, insieme all’acqua sporca. E sempre ammiccando al “libero mercato” ed alle sue capacità salvifiche.

La governance di Internet

Dai “minimi” ai “massimi sistemi”: la “governance” di internet. Abbiamo osservato con stupore una strana iniziativa promossa dal Sottosegretario Antonello Giacomelli che ha promosso – con modalità quasi riservate anzi semiclandestine – un convegno, ospitato nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera, sulla governance di internet, tenutosi l’altro ieri 14 aprile: Internet governance e l’evoluzione di Icann” (ricordiamo che l’Icann è l’organizzazione non profit Usa che si occupa dell’assegnazione degli identificatori unici di Internet e che in qualche modo sovraintende alla gestione della rete).

Iniziativa senza dubbio interessante, ma impostata in modo discretamente curioso e comunicata certamente male: gran parte degli operatori della comunità mediale italiana non sono stati né invitati né coinvolti né informati; la rassegna stampa dell’iniziativa è stata quasi insignificante.

Ci domandiamo “cui prodest?”, questo modo di agire… Peraltro, in occasione del convegno, è stata enfatizzata la infinita bontà del modello “stakeholder” (se ne è fatto entusiasta promotore lo stesso Ceo di Icann, Fadi Chehadè, che ha tanto ringraziato Giacomelli) nella gestione del governo del web, ma paradossalmente, nel “panel” del convegno stesso, i rappresentanti della “società civile” (che è senza dubbio “stakeholder” non meno di governi ed imprese e comunità scientifica), spesso tanto retoricamente invocata in queste iniziative, erano di fatto… assenti!

La dinamica ci ricorda la surreale vicenda della famosa annunciata, e poi svanita, “consultazione pubblica”, anzi “popolare”, che il Sottosegretario aveva prospettato sulla riforma della Rai. In fondo, suvvia, nell’economia del decisionismo renziano, che importa della società civile! Egli ne è certamente saggio interprete, e non si deve perder tempo prezioso: il Paese lo chiede.

Piccole e grandi dimostrazioni di mal governo di tematiche delicatissime, quali la cultura, il servizio pubblico radiotelevisivo, l’editoria, internet…

Si conferma l’italico sconcertante deficit di “policy making” di cultura e media.

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