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ilprincipenudo. Il problema degli spazi culturali (materiali) nella società digitale (virtuale)

Angelo Zaccone Teodosi

Prendiamo spunto da un episodio avvenuto ieri 7 maggio 2015 a Roma, nel popoloso e popolare quartiere San Giovanni, come stimolo per una riflessione sulla questione degli “spazi culturali” nella società digitale, così intendendo gli spazi “materiali” (ovvero materici, si userebbe dire nello slang della critica d’arte).

Si tratta di una vicenda che abbiamo ragione di ritenere sintomatica di una problema di dimensioni ben più “macro”, ovvero di livello nazionale: il caso dello sgombero del centro sociale Scup e della novella occupazione potrebbe divenire un “caso di studio” di interesse nazionale.

#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Se è vero che la grande rete internet rende accessibile in modo esponenziale e tendenzialmente infinito il sapere ed i saperi, e se è vero che chiunque può ormai aprire un blog e proporre all’universo mondo la propria soggettività, è altrettanto vero che verosimilmente mai svanirà nel consesso sociale l’esigenza di disporre di luoghi e strumenti materiali e fisici per l’organizzazione della vita culturale e, più in generale, sociale.

Crediamo vi sarà sempre necessità di un’agorà materiale, sia essa un centro culturale, un’assemblea politica, un comitato di quartiere, un parco giochi per bimbi…

La grande attenzione che la politica, e ormai anche le istituzioni, mostrano nei confronti della “società digitale” (e della sua immaterialità) sembra determinare una simmetrica disattenzione verso la fisicità dell’agire sociale e la materialità dei luoghi della “pòlis” tradizionale.

Questa premessa fenomenologica è indispensabile, perché vogliamo affrontare su queste colonne (di una testata giornalistica telematica concentrata, giustappunto, sulla società digitale: “Key4biz” si pone infatti come “Quotidiano online sulla digital economy e la cultura del futuro”), la questione – delicata e strategica – della utilizzazione sociale degli spazi pubblici (così intendendo di proprietà pubblica) in una metropoli come Roma.

Ieri, con grande dispiego di forze pubbliche (carabinieri in assetto bellicoso, camionette blindate e finanche elicottero sorvegliante dall’alto, manco fossimo nel Bronx o al G8), è stato sgomberato un centro sociale romano denominato Scup, che da tre anni si è fatto promotore di significative attività culturali, utilizzando spazi abusivamente occupati di una palazzina abbandonata in Via Nola, situata a poche decine di metri da Santa Croce in Gerusalemme (San Giovanni), peraltro sede delle Direzioni Generali del Cinema e dello Spettacolo dal Vivo del Mibact – Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo (per chi non vive o conosce la Capitale, è bene specificare che siamo in pieno centro città, entro le Mura Aureliane, a poche centinaia di metri dalla piazza in cui viene organizzato ogni anno il concertone del primo maggio).

L’immobile è stato recentemente venduto, e la forza pubblica è intervenuta perché i proprietari ne rivendicavano legittimamente l’uso. Non essendo abitato, gli occupanti si sono ritrovati ieri mattina con l’accesso bloccato, decine di carabinieri a presidiare, e con le loro cose accatastate sul marciapiede.

Gli occupanti e militanti hanno inscenato nel pomeriggio una manifestazione di protesta, che si è pacificamente svolta per le strade del quartiere, attraendo un migliaio di cittadini (non pochi, dato il carattere spontaneo dell’iniziativa), sotto il vigile sguardo di decine e decine di carabinieri ed agenti della Digos.

Il cronista che ha seguito la vicenda si è stupito del tono più lamentativo che aggressivo (certamente non offensivo, anche se qualche battuta sui celerini non poteva mancare) dei manifestanti, lontano anni-luce da quegli scontri di piazza che hanno caratterizzato per molti anni la vita politica del nostro Paese.

Mancano oggi le letture ideologiche, gli slogan scanzonati, la ritualità festosa (non sempre, certo, va ricordato) delle manifestazioni, la militanza “dura e pura” di un tempo, l’antropologia del Sessantotto e successive: per alcuni aspetti, ciò è bene, per altri no.

Mancano infatti le categorie interpretative (marxiane o post che siano), manca un pensiero forte, una ideologia solida ed aperta… Nella società liquida, anche ad un corteo di attivisti finisce per mancare… La parola, con un pensiero debole, frammentato, fragile, balbettante, che sembra sganciato da una analisi radicale, organica e strategica, dei processi in corso (dalla globalizzazione alla digitalizzazione dell’esistenza).

In verità, il corteo, in alcuni tratti, più che rassegnato e triste, pareva quasi… funebre.

Nella fase finale, però, quella che un tempo sarebbe stata definita l’“ala creativa del movimento”, ha spiazzato carabinieri e funzionari del Ministero dell’Interno (e finanche chi redige queste noterelle): ha imboccato improvvisamente una strada non concordata con la Questura, ed un centinaio di militanti scatenati hanno intrapreso una corsa verso un magazzino abbandonato in Via della Stazione Tuscolana, forzando una serranda e occupando pacificamente un grande spazio abbandonato.

C’è stato qualche momento di tensione, ma i carabinieri, saggiamente, non sono intervenuti.

Non c’è stata provocazione, da nessuna delle due parti: e quindi nessuna manganellata, né spargimento di sangue. Per quanto il corteo fosse seguito dalla compagnia di giro di alcuni fotografi, nessun cameramen, e, a fronte di nessun ferito, la notizia dello sgombro e della nuova occupazione, è stata “mediaticamente” relegata in un qualche trafiletto della cronaca romana dei maggiori quotidiani (con grande copertura fotografica nelle edizioni online).

Il Comune di Roma ha sostenuto la propria estraneità rispetto allo sgombro, trattandosi di azione di forza determinata da una decisione della magistratura rispetto alla occupazione abusiva di un immobile privato, ma ha garantito che vigilerà sulla destinazione d’uso.

Gli esponenti di Sinistra Ecologia e Libertà che sostengono la Giunta Marino, hanno manifestato sostegno agli occupanti, ma, di fatto, al di là dei bei comunicati di Sel (ed in particolare del Vice Sindaco, Luigi Nieri), la vecchia sede dello Scup è stata brutalmente sgombrata, e la nuova è peraltro tutta da attrezzare (basti pensare all’attivazione delle utenze elettriche…).

Il nuovo immobile occupato è di proprietà pubblica, essendo un magazzino in disuso appartenente al gruppo Fs ovvero Ferrovie dello Stato Italiane spa: la patata bollente, quindi, torna in mano al… “pubblico”!

Perché questo episodio è interessante da diversi punti di vista? Anzitutto, perché ripropone la totale assenza, in Italia (fatte salve rarissime eccezioni e buone pratiche) di una politica istituzionale a favore dell’utilizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per iniziative di cittadinanza attiva e di promozione socio-culturale.

A Roma, in particolare, questa vicenda riguarda numerose situazioni, dal Teatro Valle (sgombrato) al Cinema America (anch’esso sgombrato) a diversi “centri sociali” (dal futuro incerto), per non ricordare la continua moria di librerie e teatri e botteghe artigianali.

Si osservi che “Roma Capitale” (per i non romani, si precisa che è la nuova denominazione del “Comune di Roma”) è proprietaria di un patrimonio immobiliare di dimensioni impressionanti: complessivamente quasi 60mila immobili! Incredibilmente, però, non dispone di un database accurato e aggiornato, al punto tale che riemerge periodicamente lo scandalo cosiddetto di “affittopoli”.

Nel complesso, secondo dati ufficiali del Comune stesso, sono esattamente… 59.466 i beni facenti parte del patrimonio immobiliare di Roma Capitale.

La somma di 60mila va in verità in parte scremata, considerando che in questo numero sono incluse 8.967 strade ed annessi, 1.547 edifici scolastici, 811 edifici per usi istituzionali e sociali, 739 beni monumentali, 426 beni archeologici, 586 ville e parchi, 256 beni idrici e collettori, 70 mercati, e finanche 11 cimiteri…

Al netto di ciò ed altro ancora, va segnalato che, dei  43.053 beni di edilizia residenziale di Roma Capitale, 42.455 sono abitazioni di edilizia residenziale (l’elenco pubblicato sul sito del Comune è un file in formato .pdf che consta di 2.379 pagine, ma di nessun immobile è indicato il canone) e 598 sono beni ad uso non residenziale. Cifre comunque assolutamente impressionanti.

La Giunta Marino ha effettivamente avviato una ricognizione sullo stato di questo patrimonio: chi utilizza questi beni, se paga o meno un canone, qual è l’entità del canone…

Questa operazione “trasparenza” procede però con estrema lentezza, ed i maligni sostengono che, in fondo, nessuna Giunta – né di destra né di sinistra – ha veramente interesse a rendere cristallina la situazione, perché si andrebbero a scoprire tantissimi favoritismi e clientelarismi, magagne e impicci, aiuti agli amici degli amici…

Pugnace, su questo fronte, appare – senza dubbio – il Movimento Cinque Stelle, nella sua miglior tradizione. Le liste finora pubblicate sul sito web di Roma Capitale forniscono un primo set di alcune informazioni: possiamo comprendere che sia omessa l’identità dei conduttori degli immobili (prevale la privacy, secondo il Comune), ma stupisce che non sia indicata la superficie dei beni, il che rende arduo comprendere se esistono (come si teme) posizioni di privilegio e di abuso.

Va segnalato che nel tabulato relativo ai cosiddetti “spazi sociali”, tutti gli immobili recano la formula… “verifica in corso”. Appunto.

In particolare, è il quotidiano romano “Il Tempo”, con la direzione di Gian Marco Chiocci (testata di proprietà del costruttore Bonifaci, e qui si dovrebbe aprire una riflessione sul conflitto di interessi, patologia che riguarda gran parte della stampa quotidiana italiana…) ad essersi scatenato in una campagna martellante, che finisce per attribuire alla giunta di Marino responsabilità non proprie, anche se il “Sindaco marziano” non ci sembra abbia affrontato in modo realmente innovativo l’eredità di una mala gestione che ha radici lontane nel tempo (radici che albergano a destra come a sinistra).

Peraltro, il deficit informativo ostacola, e comunque rende critica, anche la procedura per la prospettata dismissione di questo patrimonio immobiliare, producendo confusione ed alimentando preoccupazione in chi abita le case del Comune, e certamente stimolando anche gli appetiti dei grossi gruppi immobiliari.

Proprio in questi giorni, Roma Capitale ha affidato ad una nuova società la “gestione” di questo patrimonio immobiliare: la cura passa dalla controversa Romeo Gestioni (il contratto è scaduto il 31 dicembre 2014) alla Prelios Integra (nei cui capitale ci sono Pirelli e Intesa Sanpaolo), che ha vinto la gara con un peraltro inquietante ribasso di oltre il 70%…

Sospetti e dubbi sorgono naturali e spontanei, su dinamiche anomale di questo tipo.

La questione non riguarda soltanto Roma, ma riguarda il patrimonio immobiliare pubblico tutto, ovvero di Stato centrale, Regioni, Province (abolite soltanto sulla carta), Comuni, enti locali e aziende partecipate e fondazioni pubbliche…

Senza dimenticare, ovviamente le proprietà nel portafoglio della statale Cassa Depositi e Prestiti. Proprio oggi un articolo de “la Repubblica” segnala che nella Capitale dovrebbe sorgere la “Città della Tim”, con investimenti rientranti in un ambizioso piano di ridefinizione della politica immobiliare di Telecom Italia, nell’ordine di ben 300 milioni di euro: il quartier generale di Telecom Italia dovrebbe essere allocato, entro un anno e mezzo, nelle Torri dell’Eur (di fronte alla famigerata “Nuvola” di Fuksas), con la benedizione di Cassa Depositi e Prestiti (alias Stato italiano), in un complesso intreccio di partecipazioni…

Scrive Valentina Conte: “Il piano, ormai messo a punto nei dettagli, è stato presentato ieri al Cda di Telecom a Milano. E dovrebbe procedere spedito, visto che la Cassa depositi e prestiti ha da poco rilevato la restante quota del 50% della società-veicolo Alfiere spa, proprietaria delle Torri (creata da Fintecna), da dieci anni in mano a un gruppo di costruttori, dai fratelli Toti a Caputi e Armellini, passando per Unipol (ex investimento dei Ligresti) e la Astrim di Alfio Marchini (che però ne è uscito quando si è candidato). Quota del 50% che ora finirebbe nel portafoglio Telecom, paritaria rispetto a quella di Cdp immobiliare”…

Nessun ministro per i beni e le attività culturali italiano ha mai affrontato la questione della utilizzazione del patrimonio immobiliare pubblico al fine di renderlo almeno in parte disponibile alla comunità, ad associazioni spontanee di cittadini, che hanno evidentemente necessità anche di spazi materiali per lo sviluppo delle proprie attività socio-culturali.

Tutti si riempiono la bocca ormai di… “agenda digitale”, allorquando la vita quotidiana, anche nella dimensione metropolitana, ha necessità di spazi materiali che si pongano come luoghi di incontro, partecipazione, socialità.

La riduzione della dimensione sociale dell’esistenza nella sfera immateriale della rete internet è una forzatura ideologica che snatura l’identità stessa dell’umano.

La socialità della vita umana non può essere circoscritta alla dimensione dei “social network”.

Perché l’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid) non mette a punto, nei propri programmi (sviluppo degli “open data” delle Pubbliche Amministrazioni), un progetto per la costruzione di un database accurato e aggiornato, ed ovviamente “open”, su tutti gli spazi di proprietà pubblica, su tutti gli immobili di Stato, Regioni, Province, Comuni (ed enti accessori), utilizzati (per comprendere al meglio da chi e come ed a quali condizioni) ed inutilizzati (o malamente utilizzati: basti pensare alle caserme)?

Quelli inutilizzati potrebbero divenire luoghi di sviluppo di una rinnovata socialità, che consenta la convergenza tra la dimensione materiale e quella immateriale.

Alcune voci ipotizzano che lo spazio sgombrato dello Scup è destinato a divenire l’ennesimo… centro commerciale: ulteriore dimostrazione della mercificazione pervasiva che sta caratterizzando questa fase storica, in Italia come in tutto il resto del mondo, ed in particolare a Roma.

La Capitale assiste passiva (almeno sul fronte delle istituzioni) ad una continua sconfortante desertificazione del proprio tessuto socio-culturale, dalle botteghe artigianali alle librerie.

Un cambio di rotta è necessario, una riflessione seria ed approfondita sul senso della “mano pubblica” nella società – nella sua dimensione materiale e nella sua dimensione immateriale – è ormai urgente.

Il Presidente Renzi ed il Sindaco Marino dovrebbero comprendere che… non si vive di solo web.

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