Key4biz

ilprincipenudo. I numeri (troppo) in libertà dell’industria culturale italiana

Angelo Zaccone Teodosi

Ieri, a Roma, duplice presentazione – in contemporanea – di “dataset” comunque utili per gli operatori delle industrie culturali: l’ottava edizione del rapporto SymbolaIo sono Cultura” (quest’anno con il sottotitolo “L’Italia delle qualità e della bellezza sfida la crisi”), e la terza edizione del rapporto “Il sistema audiovisivo. Evoluzione e dimensioni economiche”, curato da e-Media Institute ed Istituto Bruno Leoni (Ibl).

Quel che stupisce (o forse no?!) è che lo studio meno accurato ha registrato una buona rassegna mediale (soprattutto sul “Corriere della Sera”), mentre quello più accurato ha registrato un quasi totale silenzio-stampa (fatta salva l’eccezione di un breve articolo su “il Sole 24 Ore”)…

Va precisato che il primo studio è stato presentato in pompa magna presso la Sala “Spadolini” della storica sede del Mibact al Collegio Romano, alla presenza del titolare Alberto Bonisoli, mentre il secondo, con ovattata discrezione, nell’elegante sala della Fondazione Istituto Sturzo, alla presenza dell’ex Sottosegretario alle Comunicazioni dei Governo Renzi e Letta (febbraio 2014-giugno 2018). Antonello Giacomelli Duecento persone al Mibact, una quarantina allo Sturzo. Toni tutti positivi per Symbola, una discreta dialettica per e-Media/Ibl.

Entrambe le iniziative possono essere interpretate comunque come operazioni “ideologiche”, se non di “lobbying”: da anni, la fondazione presieduta da Ermete Realacci, non a caso denominata “per le qualità italiane”, tenta di proporre una lettura positiva ed ottimista dell’evoluzione del sistema culturale nazionale; da meno anni, ma con metodo, la Fondazione Istituto Bruno Leoni, il più evoluto “think tank” liberal-liberista d’Italia, diretto da Alberto Mingardi, cerca di dimostrare che il mercato, anche nelle industrie culturali e mediali, può ben autoregolarsi, senza necessità della “mano pubblica”.

Da ricercatori di professione, possiamo permetterci di manifestare pareri critici: la qualità metodologica delle ricerche curate da Symbola è senza dubbio più debole, rispetto all’impostazione di una struttura tecnicamente ben attrezzata qual è e-Media (senza dubbio uno dei migliori tra i centri di ricerca specializzati sull’economia dei media).

Il problema di fondo è, come spesso accade, la qualità delle fonti primarie, che, in Italia, è debole, fragile, talvolta evanescente.

In sostanza, tutte le elaborazioni di Symbola sono basate sui dati delle Camere di Commercio, ovvero di Unioncamere (struttura pubblica presieduta da Ivan Lo Bello): per esperienza diretta ed approfondita (da ricercatori specializzati), siamo in grado di dimostrare che la affidabilità dei “codici Ateco”, ovvero della classificazione Istat delle categorie di attività economico-imprenditoriali, è imprecisa e fallace.

Ne deriva che rientrano nel “calderone” delle industrie culturali e creative, ovvero di quelle che Symbola definisce “core”, così come nell’insieme più ampio, ovvero le imprese “creative driven”, una quantità di soggetti la cui identità imprenditoriale è talvolta incerta, con il rischio concreto di dover dare ragione a Trilussa ed alla sua teoria dei polli…

Perché riteniamo non si debba prestare particolare attenzione a queste simpatiche “numerologie”?

Semplicemente perché non sono metodologicamente accurate, non sono adeguatamente validate. Eppure, molti colleghi giornalisti, nonché politici di professione, le ritengono talvolta affidabili: ci ha in verità stupito l’entusiasmo con cui il neo Ministro Alberto Bonisoli ha accolto queste stime, utilizzando aggettivi come “bellissima” e “fantastica” per definire l’iniziativa di Symbola. Non staremo qui a sostenere che il “Rapporto Symbola” sia sgangherato od inutile, ma semplicemente rimarchiamo che esso non può essere ritenuto lo studio “di riferimento”: è un contributo informativo-cognitivo utile, ma non sufficiente e certo inadeguato a divenire strumento tecnico di politica governativa.

Esistono altre fonti, altrettanto interessanti ed in qualche modo stimolanti: pensiamo soltanto all’ormai storico rapporto annuale prodotto da Federculture (giunto nel 2017 alla 13ª edizione), ed al più recente studio della Siae con E&Y sulla creatività (giunto alla 2ª edizione nel 2017).

Di questi studi, molte volte abbiamo scritto su queste colonne, segnalando i deficit di ognuno, e lamentando soprattutto come manchi una integrazione sistemica, di approccio critico quali-quantitativo tra queste erratiche valutazioni delle caratteristiche strutturali dell’economia culturale e mediale nel nostro Paese. Queste ricerche non si parlano tra loro, ovvero i rispettivi committenti e consulenti operano ognuno per conto proprio, talvolta arrivando ad ignorarsi completamente l’un l’altro. Ed ognuno finisce per… “dare i numeri” a modo suo. Quando, qualche giorno fa, l’ex Ministro Francesco Rutelli ha presentato il suo ultimo libro (vedi “Key4biz” del 19 giugno, “Francesco Rutelli e la ‘diplomazia culturale’, il ‘soft power’ per il rilancio dell’Italia”), abbiamo quasi pensato avesse in fondo ragione: nelle sue “alcune proposte conclusive” scrive dell’esigenza di “Un nuovo Libro Bianco sulla Creatività. Il primo, è stato pubblicato 10 anni fa per iniziativa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È stata una mia iniziativa, coordinata dal prof. Walter Santagata, affidata ad una Commissione ministeriale di studio composta da 12 persone, con la collaborazione di altri 19 docenti ed esperti tra i più qualificati del nostro Paese. Il sottotitolo di questo prodotto (417 pagine) è “Per un modello italiano di sviluppo”. Un’elaborazione che è tempo di riformulare: essa ha consentito una prima stima del valore economico delle industrie culturali italiane; oggi si deve concretizzare in un lavoro sistematico, che si avvalga delle numerose analisi di fonte pubblica, accademica, di soggetti privati ed associativi, sviluppate ed aggiornate in Italia negli ultimi anni, e metta a fuoco le prospettive di crescita dei diversi settori, con relative ricadute economiche e occupazionali” (vedi pag. 130 de “La diplomazia culturale italiana”). Come dire?! Effettivamente, dieci anni fa il compianto Santagata aveva tentato una prima inedita avanguardistica lettura trasversale ma organica del sistema culturale italiano, e quel testo (quello sì poteva essere considerato “di riferimento”) è stato ignorato dai Ministri che si sono poi avvicendati al “governo della cultura” del nostro Paese. Ed attualmente si dispone di una pluralità di ricerche e studi, nessuno dei quali si confronta con gli altri, e quindi si producono spesso fuochi d’artificio numerologici

D’altronde, ci si potrebbe anche domandare perché lo stesso Mibact ha depotenziato, definanziato, e sostanzialmente smantellato proprie strutture interne, come l’Ufficio Studi e l’Osservatorio dello Spettacolo. Altresì dicasi per la Rai, che ha una Direzione Marketing (quasi tutta concentrata sul prodotto) e sostanzialmente non ha nemmeno più un Ufficio Studi… E che dire del continuo disinteresse della stessa Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – Agcom rispetto alle attività di studio e ricerca (fatte salve rare eccezioni)?!

Abbiamo già proposto una nostra interpretazione, anche su queste colonne: più i dati sono ondivaghi, frammentari, instabili… più è possibile, per il decisore politico, utilizzarli “pro” o “contro”, in funzione delle soggettività discrezionali, delle ondate emozionali contingenti, o delle tesi funzionali alla propria ideologia…

Il collega Paolo Conti, giornalista sempre attento ed accurato, non a caso definisce “sorprendente” il dato economico che Symbola ha proposto ieri, dedicando oggi un lungo articolo del “Corriere della Sera” alla presentazione del rapporto. Ed una collega de “il Mattino”, Maria Tiziana Lemme, ha avuto l’ardire di porre ieri, in conferenza stampa, dei quesiti – che non hanno ricevuto risposta – rispetto ad alcune bucce di banana sulle quali è caduta Symbola…

Eppure, come si segnalava, la rassegna stampa dell’iniziativa di Symbola è oggi discreta, e vengono rilanciati alcuni dati: oltre 92 miliardi di euro generati nel 2017 dell’intera “filiera culturale”, pari al 6,1% della ricchezza prodotta in Italia, con un “effetto moltiplicatore” (…), che in diversi settori dell’economia (tra cui principalmente il turismo) muove altri 163 miliardi, per un totale di 255,5 miliardi di euro. Gli occupati nella “cultura” – in senso lato – sarebbero oltre 1,5 milioni.

Emerge, secondo Symbola, l’immagine di un “Sistema Produttivo Culturale e Creativo” italiano particolarmente vivo e competitivo. Batte l’Ansa: “Il rapporto analizza tutte le attività economiche dedite alla produzione di beni e servizi culturali, ma anche il business di imprese che utilizzano la cultura come strumento per accrescere il valore dei propri prodotti: fatto 100 il mercato complessivo, i dati rivelano che il 62 % è costituito da industrie creative (architettura, comunicazione, design), industrie culturali (cinema, editoria, videogiochi, software, musica e stampa), patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici e monumenti), performing arts e arti visive, mentre il 38 % è occupato dalle cosiddette imprese “creative-driven”, quelle cioé che (come l’artigianato artistico e la manifattura evoluta) impiegano le professioni culturali e creative pur occupandosi di altro. Nel complesso, il Sistema della cultura italiano ha prodotto nel 2017 un valore aggiunto e un’occupazione superiori rispetto all’anno precedente: + 2 % e + 1,6 %)”.

In sostanza, secondo Symbola, il settore è in crescita, se analizzato a livello “macro”, sia come “valore aggiunto” sia come “forza-lavoro”.

Nutriamo perplessità, nutriamo dubbi, nutriamo scetticismo, come già in passato (vedi anche il nostro commento all’edizione precedente del report Symbola, su “Key4biz” del 30 giugno 2017, “Ma l’industria culturale italiana sta davvero così bene?”).

Temiamo che, ancora una volta, si tratti di una operazione alla fin fine… ideologica ed eterodiretta: riteniamo che un’analisi (più) seria delle caratteristiche del mercato culturale nazionale, analizzato nei suoi singoli comparti, evidenzierebbe una grande quantità di criticità.

La crisi occupazionale si tocca con mano in tutti i settori delle industrie culturali: giornalismo, editoria, musica, beni culturali, e si salva (forse, almeno in apparenza) la produzione cinematografica ed audiovisiva – almeno in parte – grazie alla piccola/grande “manna” della legge cinema Franceschini-Giacomelli…

Nessuno nutre dubbi che vi siano settori in crescita (design e moda…), ma si tratta di attività che potremmo definire – giocando con le parole – più “industriali” che “culturali”: le industrie “core” – per parafrasare Symbola – attraversano, da tempo, crisi profonde e radicali.

In Italia, le industrie culturali che producono “contenuto” nel senso classico del termine sono in/sofferenti, e forse si dovrebbe ragionare su nuove politiche pubbliche di rigenerazione…

Ha sostenuto lo stesso Ministro Alberto Bonasoli: “tra le priorità del governo sulla cultura, c’è un primo tema legato alle risorse, ma accanto c’è anche quello della qualità e del metodo, per capire quali sono le azioni da fare… I numeri di questo rapporto sono importanti perché aiutano a prendere decisioni e a capire come gira tutto il sistema della cultura. È importante considerare che nelle industrie culturali e creative il lavoro è qualificato: se in Italia c’è disaccoppiamento tra mondo universitario e mondo produttivo, nella cultura chi si impegna nello studio può trovare un impiego che gli piace”. Il Ministro ha senza dubbio ragione, ma riteniamo sia indispensabile approfondire metodologicamente (appunto!), anche rispetto al rapporto tra “domanda” e “offerta” nelle professioni culturali, perché ci sembra – sulla base di indicatori che Symbola trascura – che la disoccupazione sia crescente, non decrescente…

I toni ottimisti del Collegio Romano hanno trovato parziale eco nella presentazione che si teneva allo Sturzo: qui, con interventi qualificati di operatori del livello di Giancarlo Leone (Presidente dell’Associazione dei Produttori Televisivi – Apt), alla presenza di manager di livello come Gina Nieri (Consigliere di Amministrazione di Mediaset), abbiamo assistito ad un simpatico intervento dell’ex Sottosegretario Antonello Giacomelli, che ha rivendicato alcuni successi del proprio Governo, ma ha riconosciuto alcuni fallimenti, anche rispetto alla auspicata riforma della Rai. In questo caso, comunque, il dataset proposto da Emilio Pucci (Presidente di e-Media Institute) è senza dubbio più accurato ed affidabile. Il mercato audiovisivo (qui inteso come somma di cinema, televisione e homevideo) sembra comunque in crescita, con un valore nell’ordine di 10,6 miliardi di euro nel 2016 (registrando un + 5 % rispetto all’anno precedente). La tesi ideologica di fondo, in queste lande, è altra, ovvero che lo Stato debba allentare il proprio… interventismo: in particolare, l’Istituto Bruno Leoni contesta le “quote” obbligatorie per i “broadcaster” (rafforzate dalla citata legge cinema e audiovisivo firmata da Dario Franceschini e Antonello Giacomelli). Lo stesso Leone ha sostenuto che gli obblighi “di investimento” in produzione sono salutari per l’economia complessiva del sistema (la pensava così anche quando era sul ponte di comando di Viale Mazzini?!), mentre le quote obbligatorie a livello “di programmazione” sono forse inefficaci, soprattutto se si impongono complesse “sotto-quote” per specifici generi di programmazione (documentari, animazione, ecc.). Nel rapporto e-Media e Ibl “Il sistema audiovisivo”, al di là dell’utile apparato di dati ed analisi, la parte più ideologica (e “lobbystica”…) è rappresentato dalle venti pagine del saggio di Giovanni Guzzetta, giurista dell’Università romana Tor Vergata, il cui titolo è emblematico: “I numerosi dubbi di legittimità del ‘Decreto Quote’”…

Ancora una volta, conclusivamente, contributi cognitivi utili ma frammentari (parziali e talvolta partigiani): in attesa che qualcuno, prima o poi, riesca a proporre un ragionamento organico, approfondito, sistemico, libero ed indipendente (rispetto agli interessi del committente di turno). Dovrebbe essere, secondo noi, una delle priorità della “mano pubblica”, ma in Italia la lezione einaudiana continua ad essere inascoltata: la prima edizione della rubrica “ilprincipenudo”, si intitolava, quattro anni fa, non a caso “L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri” (vedi “Key4biz” del 4 luglio 2014). Da allora, purtroppo, la situazione non è granché migliorata.

Exit mobile version