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ilprincipenudo. Fake news e Hate speech: il Governo pensa a un ‘bollino blu’ dei siti web

Angelo Zaccone Teodosi

Da frequentatori abituali, anzi storici, della convegnistica italica su media e cultura, ci siamo affacciati alla Fondazione Sturzo, ieri mattina giovedì a Roma, con lo scetticismo di sempre, temendo di ascoltare la solita “compagnia di giro” riproporre tesi trite e ritrite: con piacevole stupore, abbiamo invece assistito ad un dibattito di alto livello, ricco di stimoli e con qualche eterodossa esternazione.

L’occasione è stata data dalla presentazione della seconda edizione del “Rapporto sull’Audiovisivo”, uno studio strutturale sul sistema dei media in Italia, diretto da Emilio Pucci, fondatore e direttore dell’e-Media Institute, eccellente società di consulenza sull’economia delle industrie mediali, che l’ha co-realizzato insieme all’Istituto Bruno Leoni (Ibl), presentato in occasione del convegno “Il sistema audiovisivo: evoluzione e dimensioni economiche” (che è anche il titolo del volumetto edito da Ibl Libri).

Di fatto, questo studio eredita una tradizione avviata molti anni fa dall’Istituto di Economia dei Media (Iem), diretto da Antonio Pilati, filiazione della Fondazione Rosselli (ingloriosamente fallita nel 2015). Lo Iem è stato tra i primi centri di ricerca in Italia a proporre delle “perimetrazioni” e quantificazioni delle dimensioni dell’industria mediale nazionale, anche attraverso una newsletter che veniva pubblicata in allegato al compianto settimanale confindustriale “Mondo Economico” (che ha interrotto le pubblicazioni nel 1997).

Si era ben lontani dal pensare, allora, al “Sic” – acronimo che sta per “Sistema Integrato della Comunicazione” – ovvero lo strumento che la “legge Gasparri” ha introdotto per misurare e (teoricamente) limitare i rischi di concentrazione oligopolistica, ma si ricordi che Pilati è stato dai più considerato il “ghost writer” della legge Gasparri… A voler pensar male, si potrebbe insinuare che lo Iem sia stato uno schermo protettivo ovvero un portatore d’acqua delle logiche difensive del Gruppo Mediaset rispetto ai rischi di interventi anti-trust, ma questa è soltanto una mera (fantasiosa?!) ipotesi di lettura storica “dietrologica” della politica culturale italiana, della quale forse, tra qualche decennio, un qualche “storico dei media” italici potrà proporre una ricostruzione realistica. Resta un dato di fatto: che il controverso “Sic” non ha determinato, né sta determinando, disturbi di sorta all’assetto “duopolistico” e poi “triopolistico” che caratterizza da decenni il sistema televisivo italiano.

Da segnalare peraltro che lo stesso Emilio Pucci è stato responsabile delle attività di ricerca dello Iem, alla cui guida è poi stata per anni, dal 2004 al 2013, Flavia Barca (nominata nel 2013 Assessore alla Cultura nella capitolina Giunta retta da Ignazio Marino).

Il rapporto di ricerca curato da e-Media ed Ibl è uno strumento di conoscenza assolutamente utile ed interessante: da ricercatori, nutriamo un qualche dubbio sull’affidabilità della quantificazione dei ricavi da internet che vengono “allocati” a favore delle industrie di contenuto (“contenuti editoriali”), ovvero delle “risorse attratte da internet per inserzioni commerciali content-related e cioè associate a contenuti, e della spesa degli utenti per prodotti e servizi di comunicazione distribuiti online su tutte le piattaforme”.

In verità, onestamente la stessa e-Media, in quelle pagine, ripete più volte quanto sia “difficile” questa ardita quantificazione (cui non si è peraltro mai dedicata nemmeno Agcom…), e d’altronde non viene rivelata alcuna nota metodologica in materia. Comunque, che in Italia il web produca oltre 3,3 miliardi di euro che vanno verso le industrie dei contenuti ci sembra una stima assai sovradimensionata, e ottimistica. In ogni caso, si tratta di una esplorazione meritevole di attenzione.

La seconda edizione del “Rapporto sull’Audiovisivo” (curato da Emilio Pucci, Filippo Cavazzoni, Agata de Laurentiis, Riccarlo de Carla) è uno studio che non può mancare nella biblioteca di nessun operatore italiano del sistema mediale: l’agile volumetto propone un set di dati, non ricco come il “Rapporto Iem” (la cui ultima edizione, la XV, relativa all’anno 2014, è stata pubblicata nell’aprile 2015, prima della crisi della Fondazione Rosselli), ma indubbiamente di grande utilità.

Il convegno di presentazione è stato aperto dalle efficaci slide proposte da Emilio Pucci, dopo una breve introduzione di Antonio Pilati ed un inquadramento teorico di Giovanni Pitruzzella, Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm).

Antonio Pilati (già membro dell’Authority Antitrust e consigliere di amministrazione Rai, attualmente definito semplicemente come “saggista”) ha spiegato come la grande trasformazione degli assetti storici del sistema mediale abbia creato una serie di nuovi mercati.

Giovanni Pitruzzella ha ringraziato Ibl per lo studio promosso, ed ha evidenziato la “sintonia culturale” tra le attività dell’Istituto Bruno Leoni e l’Autorità Antitrust: considerando che l’Ibl è un centro di ricerca qualificato, ma ideologicamente schierato nell’ambito del liberismo radicale, questa dichiarazione ci ha un po’ sorpresi (una “autorità” non dovrebbe dichiararsi aliena da schieramenti ideologici… “ex ante”?!), ma va certamente apprezzata la franchezza del Presidente dell’Agcm. Pitruzzella ha evocato “la quarta rivoluzione industriale” e le dinamiche di tipo “disruption” che hanno provocato un “vortice digitale centripeto”.

Grandi i benefici per i consumatori, ma alla massimizzazione delle opportunità si deve affiancare l’esigenza di minimizzare i rischi. Per esempio, la grande rivoluzione digitale evidenzia finora un bilancio negativo nel mercato del lavoro (almeno inteso tradizionalmente). “Internet è il terreno dei conflitti del XXI secolo”. Nello scenario italiano, si evidenzia una capacità di resistenza della televisione, come chance di produrre reddito, e si assiste a fenomeni di ibridazione, seppur ancora timidi, tra “broadcaster” ed “over-the-top”. Negli ultimi anni, l’Agcm ha affrontato fenomeni di concentrazione anche nel settore dell’editoria libraria, della radiofonia, dell’editoria giornalistica (il caso “La Stampa” e “la Repubblica” il più recente): “il divieto è stato un fatto eccezionale” – ha precisato Pitruzzella – “ha prevalso la logica del placet con condizioni correttive… anche perché non è vero che piccolo è bello e efficiente”.

Emilio Pucci ha segnalato come queste perimetrazioni e quantificazioni rappresentino sempre più “esercizi complicati”, allorquando il web determina processi di confusione nei “confini” settoriali e nelle relative “metriche”. Il mercato dei “contenuti editoriali” italiani viene stimato da e-Media in 23,7 miliardi di euro nell’anno 2015, a fronte dei 28,2 miliardi dell’anno 2000: il delta negativo ammonta quindi a 4,5 miliardi di euro (con un “cagr” negativo del 3 % nel periodo considerato). Di questa “torta”, la “fetta” principale va ancora alla televisione, con il 39 %, seguita dall’editoria cartacea con il 37 %, da internet con il 14 %, dal 3 % del cinema (“theatrical”) e dal 3 % della radio, dall’1,5 % dei videogiochi su dischi, dall’1,4 % dell’homevideo su dischi, dall’1 % della musica su dischi…

Interessante l’approccio ideologico-metodologico: tutto il sistema opera ormai in un contesto “data-driven”, e si deve ragionare in termini di “screen content”: il “nocciolo evolutivo del sistema”, in un “ambiente integrato multifunzionale, che rompe gli argini settoriali”. Pucci ha posto l’esempio sintomatico di una “rottura” degli schemi tradizionali: il sistema Echo promosso da Amazon, un “assistente personale” (che risponde al nome di Alexa) che utilizza l’intelligenza artificiale per aiutare l’utente sia nelle sue scelte editoriali (un brano musicale…) sia nella gestione dei device della casa con logica domotica (regolazione dei termosifoni…). Si assiste a fenomeni di “integrazione strutturale comunque in un contesto data-driven”, che si caratterizza sempre più per dinamiche di “interoperabilità ed interazione”. Alcuni analisti prevedono che nel 2020 circa la metà degli investimenti pubblicitari verranno destinati a mezzi non classici. Gli studiosi ed i “policy maker” non dispongono ancora di strumenti di scenario all’altezza delle nuove sfide: “la strumentazione concettuale è inadeguata”. Pucci ha poi affrontato l’aspetto politico: “la nuova natura del processo di globalizzazione delle industrie culturali: la piattaforma mina alla base l’industria culturale nazionale”. Sorge una criticità nel concetto stesso di “nazione” e di “identità” nazionale, con implicazioni non indifferenti rispetto all’idea stessa di democrazia.

Paolo Del Brocco, Amministratore Delegato di Rai Cinema, ha segnalato le crescenti iniziative produttive degli “over-the-top”, ricordando come l’ultimo film di Woody Allen presentato a Cannes (“Café Society”) sia stato prodotto da Amazon Studios, che hai poi anche finanziato una serie tv dello stesso regista (“Crisis in Six Scenes”), ed ha ricordato come la stessa Amazon ha annunciato investimenti nell’ordine di 300 milioni di dollari per produrre contenuti di qualità destinati al mercato indiano. Sempre più “le tlc costituiscono unit di business per la produzione di contenuto”, ma in Italia si opera in un “contesto normativo di un altro mondo”, vetusto.

Giovanni Grignaffini, Direttore Editoriale di Taodue, ha osservato come il mercato “screen content” si caratterizzi per la compresenza sia di contenuti di grande qualità sia di “user generated content”, con formati e durate molto variegati. I produttori debbono quindi mostrarsi attenti e sensibili, per intercettare i nuovi linguaggi della mutante grammatica dell’audiovisivo.

Giovanni Guzzetta, costituzionalista, ha riconosciuto che assistiamo ad un “grande disordine”, determinato dalla destrutturazione delle “categorie”, anche giuridiche, finora utilizzate. Per esempio, ha ancora senso l’articolo 43 della nostra Costituzione, allorquando prevede i monopoli pubblici?! Ricordiamo che l’articolo così recita: “A fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Certamente uno degli articoli più… “socialisti” della nostra Costituzione (“comunità di utenti”?!): sostanzialmente inattuato.

Antonio Pilati, nell’introdurre Giancarlo Leone, ha segnalato come la Rai non sia più, nel sistema dell’audiovisivo, al centro dei giochi: non è più “il pilastro del mondo”, come è invece stata per decenni.

Giancarlo Leone, intervenuto come libero “media consultant” (ha lasciato Viale Mazzini da alcune settimane, anche se ha condiretto l’operazione “Festival di Sanremo 2017”), ha dedicato attenzione al ruolo sempre più importante che i “produttori indipendenti” assumono nei confronti delle “media company” (Rai in primis). “Le televisioni sono ormai grandi impaginatori di contenuti pregiati”. Leone ha criticato le metriche di misurazione dei vari media/mercati: nel business televisivo, 1 “contatto” equivale convenzionalmente ad 1 “minuto di fruizione tv”; mentre sul web, 1 “contatto” corrisponde a 2 “secondi” di navigazione su un sito… Si è quindi domandato: “è corretta questa “equiparazione” del concetto di “contatto”, anche ai fini della pianificazione pubblicitaria?!”.

Rispetto al servizio pubblico, Leone ha criticato la riforma del canone: è stato importante imporlo nella bolletta elettrica, perché ha prodotto maggiori ricavi, ma perché una parte del flusso è stato destinato ad attività altre rispetto al servizio pubblico radiotelevisivo?! Non sarebbe stato più logico, strategico, lungimirante approfittare di questo rafforzato flusso di risorse per ridurre gli affollamenti pubblicitari, ovvero allineare la Rai ad altri “public service broadcaster” europei, la cui quota di ricavi pubblicitari sul totale è molto bassa?!

Gina Nieri, Consigliere di Amministrazione del Gruppo Mediaset, ha ritenuto una bella “suggestione” quella del “grande mare aperto ove tutti ci confrontiamo”, ma ha manifestato il proprio depresso “smarrimento” rispetto alle diverse “finestre” che si aprono su questo mare. Osservando le asimmetrie di regole che caratterizzano alcuni operatori (molto regolati i broadcaster, per nulla regolate le piattaforme: ovvero – ha scherzato – “i pirla che rispettano le regole”, e chi opera come meglio gli aggrada), teme che si possa presto assistere a fenomeni di… “Wwf”: alcune isole protette, ovvero che propongono contenuti di qualità molto regolati, in un mare affollato di anarchici pirati… Le logiche del business selvaggio cozzano contro i diritti costituzionali, contro quei “valori europei” che gli attuali governatori dell’Unione Europea non riescono purtroppo a tutelare adeguatamente (“chi governa l’Europa non è all’altezza di chi ha fondato l’Europa”).

Chi governa il Vecchio Continente è stato “affascinato ed abbindolato” dalla retorica della rivoluzione digitale, e sembra mostrare una “sudditanza” tecnologica e culturale rispetto alle “social platform”. A fronte della lentezza di introdurre regole eguali per tutte, Nieri ha ricordato che Mediaset ha deciso di uscire dall’Alliance for the Safer Internet, data la sua sostanziale inefficacia. La Consigliera di Mediaset ha segnalato le dimensioni del “value gap”, ovvero della perdita di ricavi per il sistema nazionale della creatività, determinata dal parassitismo degli “over-the-top” e dalla “pirateria”. Ha stupito molti degli astanti la tesi di Nieri (che – come si diceva un tempo – ha “scavalcato a sinistra”): “un tempo, noi eravamo contrari alle quote di investimento obbligatorio, oggi siamo convinti che esse siano state uno stimolo importante per contribuire alla creatività nazionale, ma questi obblighi non debbono essere limitati soltanto ai broadcaster”.

A livello europeo, però, si continua a pensare che abbiano senso invece, per esempio, gli affollamenti pubblicitari in tv (se ne discute ancora nell’economia della revisione della direttiva “Servizi di media audiovisivi” alias “Smav”), allorquando sul web non esistono regole di sorta. Asimmetrie di regole: due pesi e due misure. Obblighi: a chi troppo (gli editori), a chi nulla (le piattaforme).

Prima di passare la parola ad Antonio Nicita, Pilati si è soffermato sull’“anonimato deresponsabilizzante” e sulla “opacità degli algoritmi” che caratterizza lo stato attuale del web.

Il Commissario Agcom Antonio Nicita ha giocato su concetti quali lo “screen context” come evoluzione dello “screen content”, e sull’Internet “of Beings”, e non soltanto più “of Things”. Abbiamo a che fare con “regole che appartengono ad un mondo antico”. Stanno saltando paradigmi storici: se prima si giocava tutto o quasi sul versante dell’offerta, ora “il mondo passa sul lato della domanda”. L’approccio ideologico che vedeva nel “level playing field” il sistema per stimolare la crescita di tutti i “player” in campo con “meno regole per tutti” sembra superato.

Il problema non è oggi semplicemente garantire la miglior concorrenza (per ciò, in fondo, basterebbe Pitruzzella e la sua Agcm): il problema è sempre più garantire i “diritti della persona”, ovvero la democrazia stessa. Il “modello europeo” – prevalenza della tutela della persona – si contrappone ormai al “modello americano” – prevalenza della tutela della libertà –, e su questo si deve stimolare una riflessione critica approfondita. Nicita ha ricordato che, per difendere gli operatori del porno in Usa, è stato evocato giustappunto il… 1° Emendamento della Costituzione. L’attuale assetto del sistema evidenzia una “dominanza intrinseca” da parte degli operatori del web (effetti di rete, raccolta esclusiva, ecc.), che son riusciti a costruire un loro “ecosistema riparato dalla concorrenza”.

Secondo l’Agcom, attualmente il 70 % dei giovani italiani considera ovvero utilizza internet come principale fonte di informazione: si deve ragionare non soltanto in termini di effettiva “offerta editoriale” ma di sua “percezione” da parte degli utenti… Nicita ha mostrato apprezzamento per “l’evoluzione” di approccio evidenziato da Nieri, rispetto agli obblighi di investimento: sana dinamica che evidenzia un senso di responsabilità cui è giusto richiamare anche gli “over-the-top”. Piuttosto che attribuire agli “Ott” una classica “responsabilità editoriale” (sarebbe opinabile, anche se la tesi liberatoria della funzione di “mero trasporto” non regge più), si potrebbe ragionare di una novella “responsabilità dell’organizzazione editoriale”. Perché si deve intervenire con logiche di “enforcement”? Perché ce lo chiedono concetti come l’integrazione e la coesione sociale, la tutela dei minori e delle minoranze: in sostanza, ce lo impone una concezione evoluta della democrazia stessa. Nicita ha giocato ironicamente sul concetto di (presunta) “gratuità” del web: d’accordo, alcune fruizioni sono fors’anche gratuite, ma ci si dovrebbe ricordare sempre che ormai… “il prodotto sei tu” (noi tutti, cioè). È un processo paradossale: l’utente stesso, il “consumatore”, nel momento in cui naviga sul web e rivela sempre più del proprio profilo identitario, diviene egli stesso “merce”. Si deve poi concentrare l’attenzione, oggi, più sul “pluralismo interno” che sul “pluralismo esterno”…

Atteso l’intervento del Sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli. Pilati ha richiamato nuovamente l’opacità degli algoritmi, ed ha segnalato che, se gli algoritmi assumono “responsabilità collettive”, essi non possono essere più considerati soltanto “opere dell’ingegno” (ed in quanto tali tutelati e protetti), perché emerge un superiore “interesse pubblico”.

Giacomelli ha ricordato che un approccio innovativo è stato proposto allorquando, nell’“ex Governo”, è stato avviato un “tavolo di concertazione” tra Mibact e Mise (ovvero tra il Ministro Dario Franceschini ed il Sottosegretario Giacomelli appunto), che ha visto riuniti assieme i “broadcaster” ed i “produttori”: ciò ha prodotto la nuova normativa sul cinema e sull’audiovisivo.

I tempi sono però ora maturi per chiamare a partecipare a questi “tavoli” anche le “social platform”. Il Sottosegretario ha invocato l’esigenza di “fare sistema”, non soltanto in materia di industrie culturali (“dobbiamo evitare che il sistema-Italia divenga un marchio commerciale soltanto”), ma anche rispetto a tematiche non meno delicate come la “cybersicurezza” delle singole nazioni: si deve passare da approcci nazionali ad una visione paneuropea, questa è l’unica soluzione sensata. Il web non è né “la terra promessa”, ma nemmeno “il territorio del male”, e – secondo il Sottosegretario – “attribuire alle piattaforme responsabilità particolari è un rimedio peggiore del male che si vuole curare”.

Giacomelli non ha citato esplicitamente la Presidente della Camera Laura Boldrini, ma s’è compreso il dissenso del Sottosegretario in materia di prospettata “repressione” delle dinamiche di “hate speech” e “fake news”: Giacomelli ha rivelato che, se era contrario all’idea di Antonio Catricalà (Sottosegretario e poi Vice Ministro nei Governi Monti e Letta) rispetto all’imposizione sullo schermo Rai di un “bollino” che certificasse un programma di servizio pubblico finanziato con il canone, il Governo starebbe invece ragionando su un “bollino blu” legato al riconoscimento della fonte su internet, in grado “di far capire all’utente l’attendibilità della notizia”. Il Sottosegretario si è dichiarato convinto che gli “over the top siano interessati a un lavoro comune insieme alle istituzioni e al mondo dei blog”.

Questo fuoco d’artificio finale ha stimolato ulteriormente l’uditorio, che si è mostrato attento (nessuna defezione, nelle tre ore di serrato confronto, da parte dei circa quaranta partecipanti).

Conclusivamente, un’occasione di dibattito alta, succosa, stimolante, come raramente si ha chance di avere in Italia.

Complimenti all’Istituto Bruno Leoni ed al suo giovane Presidente Alberto Mingardi.

Unico neo: se è in qualche modo comprensibile la ragione per cui gli “over-the-top” non sono stati invitati (sarebbero finiti sul “banco degli imputati”, e peraltro si tratta di una ricerca sostenuta da Mediaset), non si comprende come mai non siano stati coinvolti soggetti come Sky Italia e le associazioni dei produttori indipendenti (Apt ed Anica, Doc/it e Cartoon Italia, ecc.), e, ancora, le associazioni degli autori (100autori, Anac, ecc.). Anch’essi, fino a prova contraria, sono “stakeholder” del sistema audiovisivo…

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