Il punto

ilprincipenudo. Decreto Franceschini, più vincoli per i broadcaster sul made in Italy (anche per Netflix, Amazon & Co)

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Lo Stato italiano rafforza gli obblighi delle emittenti televisive nei confronti della produzione di contenuto italiano ed europeo: crescono i vincoli sia per la programmazione sia per gli investimenti. Si prevede un iter critico: il testo passa al Parlamento, al Consiglio di Stato, alla Conferenza Stato-Regioni.

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

La notizia ha – almeno sulla carta – un valore quasi rivoluzionario: va dato atto al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini di aver mostrato un discreto coraggio, superando le resistenze che erano emerse, nelle settimane scorse, soprattutto da parte delle emittenti televisive: gli obblighi che lo Stato italiano impone ai “broadcaster” risultano effettivamente assai rafforzati, a seguito dell’approvazione del decreto legislativo avvenuta nel Consiglio dei Ministri di lunedì 2 ottobre (a norma dell’articolo 34 della legge 14 novembre 2016, n. 220, ovvero la cosiddetta “legge cinema e audiovisivo”).

Franceschini aveva annunciato: “Le riforme comportano sempre proteste, non mi stupisco e non mi fermo”.

Il “muro contro muro” delle ultime settimane vede vincenti produttori ed autori.

Sabato 30 settembre, Andrea Biondi sul quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” enfatizzava che, secondo i broadcaster, “quella che lunedì andrà in Consiglio dei Ministri è una riforma ‘peggiorativa’ e che ‘rischia di compromettere un sistema che in questi anni ha costruito valore per tutti gli operatori’. La quadra trovata dal Mibact sul decreto legislativo di modifica dell’articolo 44 del Tusmar (Testo unico dei servizi media audiovisivi e radiofonici) è del tutto insufficiente agli occhi dei broadcaster”. Le emittenti hanno bocciato senza appello il testo uscito dal “pre-Consiglio” dei Ministri di venerdì 29. Il testo approvato lunedì 2 ottobre è più “soft” rispetto al precedente, ma ha comunque irritato le emittenti. Si ricordi che a Confindustria aderiscono due “anime” dell’economia audiovisiva nazionale: Apt ed Anica, sul fronte dei produttori televisivi e cinematografici, e Confindustria Radio Televisioni, sul fronte delle emittenti (Sky Italia è uscita da Crtv nel giugno 2016).

Queste le novità, sempre ricordando che il decreto non è ancora legge dello Stato: infatti il testo passa adesso alle Commissioni parlamentari, al Consiglio di Stato e alla Conferenza Stato-Regioni per i pareri di merito. Si prevede un iter non agevole, ma si ricordi che il Governo non è comunque obbligato ad accogliere pareri ed osservazioni, essendo sua facoltà disattenderli (in ossequio al principio di separazione dei poteri).

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo che riforma le norme in materia di promozione delle opere europee ed italiane da parte dei “fornitori di servizi di media audiovisivi”. La notizia – come s’usa (ahinoi) ormai – l’ha data in diretta lo stesso Ministro Dario Franceschini, che ha scritto alle 16.27 di lunedì 2 ottobre su Twitter: “Passa in Consiglio Ministri lo schema di Decr lgs che aiuterà le produzioni di cinema e opere italiane anche portandole in prime time tv”.

La questione verte sulla riforma dell’articolo 44, ovvero sulla riscrittura dell’articolo 44 del Tusmar, il Testo Unico della Radio­televisione ovvero dei Servizi Media Audiovisivi e Radiofonici, che risale al 2005, e che prevede per le emittenti nazionali parametri fissi nella pro­grammazione e negli investimenti sul prodotto. Secondo alcune ricostruzioni, Rai, Mediaset, La7, Discovery, Sky, Fox, Disney, Viacom e De Agostini si sono viste recapitare un documento in cui il Mibact annunciava il raddoppio secco di quote di programmazione e di investimento obbligatorio in prodotti audiovisivi italiani ed europei. L’esborso a favore del cinema e dell’audiovisivo sarebbe così salito – secondo stime peraltro non validate – dai 750 milioni di euro del 2015 ad una previsione per il 2019 che si aggirerebbe tra 1,2 e 1,3 miliardi di euro. Secondo la ricostruzione delle tempistiche curata da Andrea Dusio per il settimanale “Odeon”, Franceschini avrebbe tentato un vero e proprio “blitz”: solo giovedì 21 settembre, in mattinata, il testo sarebbe infatti arrivato in Consiglio dei Ministri, pronto per essere approvato entro la sera di venerdì: meno di 48 ore dunque. Allertato da una lettera dei broadcaster, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni si sarebbe però opposto, ed il Consiglio dei Ministri di lunedì 2 ottobre ha quindi approvato una versione… addolcita: gli obblighi di investimento passano dal 15 % per Rai per il 2018 al 20 % nel 2020 (+ 5 punti percentuali, il calcolo è sui “ricavi complessivi annui”), mentre per gli altri operatori passano dal 10 % del 2018 al 15 % del 2020 (+ 5 punti percentuali, il calcolo è sugli “introiti netti annui”). Di fatto, per Rai l’incremento è del 33 %, mentre per gli altri è di ben il 50 %.

Secondo il Mibact:

il testo, maturato a seguito di consultazioni con tutte le parti e che ha recepito anche le indicazioni dell’Agcom, raggiunge un ottimo punto di equilibrio e introduce procedure più trasparenti ed efficaci. Con riferimento agli obblighi di programmazione e di investimento, il decreto prevede una gradualità, scandita in più anni, per l’entrata a regime delle nuove quote minime per la promozione di opere europee e italiane. È prevista una moratoria del 2018 per consentire ai fornitori di servizi media il progressivo adeguamento alla nuova disciplina. Sarà l’Agcom a verificare il rispetto degli obblighi e a comminare le sanzioni, che il decreto aumenta sensibilmente (fino a un massimo di 5 milioni di euro o il 2 per cento del fatturato). Il decreto anticipa inoltre quanto previsto nel nuovo testo della Direttiva Eu sui ‘servizi media e audiovisivi’, in via di definizione, e introduce obblighi di programmazione e investimento anche per l’on demand (Netflix, Amazon, ecc.). Viene inoltre meglio definita l’opera di espressione originale italiana, non più collegata esclusivamente alla lingua. Infine, il decreto riformula la definizione di produttore indipendente, inserendo tra i requisiti anche la titolarità dei diritti secondari sullo sfruttamento delle opere”.

Sostiene Franceschini: si tratta di “un provvedimento concreto che serve a aiutare, tutelare e valorizzare il cinema, la fiction e la creatività italiane”.

Più precisamente, questo prevede il decreto legislativo, secondo quanto reso pubblico dal Mibact e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (sarà comunque bene attendere il testo definitivo approvato in Cdm, che spesso viene ritoccato “dagli uffici” ed emergono inattese sorprese):

Obblighi di programmazione

Il nuovo impianto è mutuato dal sistema francese che, sin dagli anni Ottanta, viene considerato uno tra gli esempi più virtuosi in materia di promozione di opere europee e nazionali, senza però dimenticare che è un sistema che pure annovera anche feroci detrattori (e non soltanto sul fronte delle emittenti televisivi)…

In particolare:

  • è definita una quota minima per tutte le “opere europee” pari al 55 % per tutti gli operatori per il 2019 (quota elevata al 60 % a partire dal 2020);
  • a decorrere dal 2019, è introdotta una “sotto-quota” riservata alle “opere italiane”, di qualsiasi genere, pari: per la Rai, ad almeno la metà della quota prevista per le opere europee; per le altre emittenti, ad almeno un terzo della quota prevista per le opere europee.
  • il rispetto delle percentuali si riferisce all’intera giornata di programmazione;
  • nel “prime-time” (fascia oraria 18-23), una quota del tempo settimanale di diffusione deve essere riservata a film, fiction, documentari e cartoni italiani: 12 % per la Rai, 6 % per gli altri fornitori. Si tratta di 1 film o fiction o documentario o animazione italiani a settimana. Per la Rai, l’obbligo è di 2 opere italiane a settimana, di cui 1 cinematografica.

Obblighi di investimento

Per i fornitori diversi dalla concessionaria di servizio pubblico:

  • è confermata la base degli “introiti netti annui” per il calcolo degli investimenti richiesti;
  • la quota di investimento riservata all’ “acquisto” o al “pre-acquisto” o alla “produzione di opere europee” è pari ad almeno il 10 % (quota elevata al 12,5 % dal gennaio 2019 e al 15 % dal 2020). Per il 2018 la quota è riferita interamente a opere prodotte da produttori indipendenti, come oggi, mentre per il 2019 e dal 2020, a queste ultime opere sono riservati i cinque sesti delle quote previste;
  • all’interno della quota complessiva prevista per le “opere europee”, il decreto riserva direttamente alle opere cinematografiche italiane la quota minima del 3,5 % degli introiti netti annui. Tale percentuale è innalzata al 4 % per il 2019 e al 4,5 % a decorrere dal 2020. Oggi è il 3,2 %.

Per quanto riguarda la Rai:

  • è confermata la base, per il calcolo degli investimenti richiesti, dei ricavi complessivi annui derivanti dal canone, nonché dei ricavi pubblicitari connessi alla stessa (al netto degli introiti derivanti da convenzioni con la pubblica amministrazione e dalla vendita di beni e servizi);
  • la quota di riserva al “pre-acquisto” o all’“acquisto” o alla “produzione di opere europee” è pari ad almeno il 15 % dei ricavi complessivi annui. Tale quota è elevata al 18,5 % dal gennaio 2019 e al 20 % dal 2020. Per il 2018, la quota è riferita interamente a opere prodotte da produttori indipendenti, mentre per il 2019 e dal 2020, a queste ultime opere sono riservati i cinque sesti delle quote previste;
  • all’interno della quota complessiva prevista per le “opere europee”, il decreto riserva direttamente alle “opere cinematografiche italiane”, la quota minima del 4 % dei ricavi complessivi netti. Tale percentuale è innalzata al 4,5 % per il 2019 e al 5 % a decorrere dal 2020. Oggi è il 3,6 %.

Una rivoluzione?!

Forse no in assoluto (se si guarda giustappunto al controverso “modello francese” ed alle sue modificazioni in itinere), ma, in relazione al “caso italiano”, è senza dubbio una piccola/grande rivoluzione: e, senza dubbio, si tratta di un “1 a 0”, produttori e autori “versus” broadcaster ed altri obbligati.

Insomma, considerando la storica stagnazione del sistema italico, bloccato da decenni, questo decreto legislativo è senza dubbio… dirompente!

Le reazioni

Naturale (e prevedibile) il plauso dell’Associazione dei Produttori Televisivi (Apt), nelle parole pur diplomatiche del Presidente Giancarlo Leone (che ha alle spalle una carriera più che trentennale in Rai):

Il provvedimento del Governo, e del Ministro Franceschini in particolare, mette sempre più al centro del sistema televisivo l’audiovisivo italiano dei produttori indipendenti e questo è un elemento di crescita per tutti. Sono certo che la massima collaborazione tra i produttori indipendenti aderenti all’Apt e le emittenti televisive riuscirà ad esprimere in modo proattivo quegli elementi critici che oggi vengono vissuti negativamente dalle emittenti. Lo sforzo congiunto delle parti consentirà alla televisione ed al cinema di espressione italiana di essere sempre più presenti anche sul mercato internazionale”.

Questa la reazione di profonda delusione dei broadcaster privati, per ora affidata a fonte anonima nella serata di lunedì 2 ottobre 2017 (dispaccio Ansa delle ore 20.21): “Da quanto trapela sullo schema di decreto sugli obblighi di programmazione e investimento in opere europee ed italiane, approvato oggi dal Consiglio dei ministri, i broadcaster non possono che esprimere profonda delusione per aver dovuto constatare che le loro richieste costruttive, supportate da dati sugli investimenti e sulle dinamiche di mercato, non sono state accolte”.

“L’impostazione anacronistica, dirigistica (quasi ad personam) e punitiva del Ministro Franceschini è rimasta infatti sostanzialmente immutata nel testo condiviso dal Consiglio dei Ministri – proseguono le fonti anonime -. Ad essere danneggiata sarà così l’intera produzione audiovisiva italiana, con pesanti ricadute negative sull’occupazione del settore. Spiace anche leggere nel comunicato del Ministero affermazioni non veritiere relative all’accoglimento di tutte le richieste dell’Autorità e sull’applicazione in anticipo e in coerenza alla nuova direttiva europea sui servizi media audiovisivi”. “In realtà la Direttiva – sottolineano ancora – per quanto riguarda l’attività di broadcasting tradizionale non ha modificato in alcun modo l’attuale regime degli obblighi di programmazione e di investimento (peraltro calcolata in maniera non cumulativa e solo su parte degli introiti), al contrario di quanto è previsto nella riforma Franceschini, che trasferisce nel nostro ordinamento solo la parte peggiore di un sistema francese che si è dimostrato inadeguato e inefficiente per la stessa Corte dei Conti di quel Paese. Le imprese di broadcasting sono in realtà quelle che, duramente penalizzate dalle nuove disposizioni oggi approvate, con i loro investimenti garantiscono lo sviluppo dell’industria creativa e difendono la cultura in ambito europeo”.

Quali siano i “dati sugli investimenti e sulle dinamiche di mercato” cui si riferiscono le emiPdcm_comunicato_stampa_Consiglio_dei_Ministri_n_47_2.10.2017ttenti televisive, non è dato sapere: quel che si sa è che nessuno in Italia conosce realmente quali sono i dati veri dell’economia audiovisiva. Si procede per approssimazione, con stime di parte non validate e numerologia talvolta fantasiosa.

A sostegno dell’iniziativa di Franceschini si sono schierati, nelle settimane scorse, sia i produttori indipendenti dell’Anica (“alcuni aspetti avrebbero potuto essere migliori, alcuni compromessi erano necessari, ma il segno di queste norme appare oggi positivo”), sia gli autori, con l’associazione 100autori in primis (“più risorse significano più concorrenza, creano più qualità nei film, nelle serie tv, nei documentari e nelle opere d’animazione“, ha sottolineato il portavoce Andrea Purgatori).

Tra i sostenitori convinti, il premio Oscar Gabriele Salvatores: “cinema e tv hanno bisogno di una politica integrata e coordinata, di provvedimenti capaci di favorire la produzione di nuovi contenuti originali e di qualità”. Sintonico Daniele Luchetti, che esorta Franceschini ad andare avanti: “tutti gli autori chiedono regole certe per il settore, e lo incoraggiano a garantire nuove risorse e continuità agli investimenti delle tv, in difesa e nell’interesse del pubblico che avrebbe un prodotto più vario e ricco”.

Amazon, Netflix & Co

Riteniamo sia opportuno leggere il testo definitivo approvato dal Consiglio dei Ministri, prima di poter maturare una valutazione tecnica, e politica, adeguata. In particolare, si attende di leggere quali saranno gli obblighi effettivamente imposti ad “over-the-top” come Amazon e Netflix

Si ricorda che i decreti legislativi vengono deliberati dal Consiglio dei Ministri e trasmessi al Presidente della Repubblica almeno 20 giorni prima del termine previsto dalla legge di delega, in modo da lasciare a questi il tempo per esercitare la sua funzione di controllo, e, eventualmente, rinviare l’atto al Consiglio dei Ministri per un suo riesame: non crediamo emergeranno obiezioni di sorta da parte del Presidente Sergio Mattarella, per quanto possa essere sensibile a questa materia. I problemi possono venire da Parlamento, Consiglio di Stato, Conferenza Stato-Regioni, ma abbiamo già segnalato che il Governo può ignorare questi rilievi, e procedere per la sua via.

Si denuncia comunque che l’intervento normativo è comunque avvenuto in assenza di analisi di scenario e di ricerche di mercato minimamente approfondite: ancora una volta, si procede con un “governo della cultura” nasometrico ed approssimativo. La direzione è forse giusta, ma il Mibact non dispone (né Agcom) di una strumentazione cognitiva adeguata alla sfida che pure ha deciso di affrontare: lo abbiamo scritto tante volte su queste (ed altre) colonne, e non soltanto in relazione al tanto decantato “tax credit” (si ricordi che, a distanza di molti anni dalla sua introduzione, non è mai stato effettuato uno studio di valutazione di impatto!).

Abbiamo riconosciuto su queste colonne che, senza dubbio alcuno, il Ministro Franceschini, tra Renzi e Gentiloni, si è dimostrato coerente: a fronte di tanti anni di “vacche magre”, ha finalmente allargato i “cordoni della borsa” (con la nuova legge cinema, la n. 220/2016, si è previsto un budget annuo di ben 400 milioni di euro all’anno, oltre il 60 % in più rispetto ai fondi precedenti), ma purtroppo non si è curato di studiare in modo particolarmente accurato le conseguenze delle propria generosità.

Inflazione produttiva

In effetti, alcuni temono che l’intervento generoso della “mano pubblica” abbia stimolato una “inflazione” produttiva che non sta trovando sblocco sul mercato “theatrical”: durante il Mostra del Cinema di Venezia, qualche settimana fa, è stato reso noto che la produzione di lungometraggi italiani nel 2016 ha raggiunto un nuovo record: 223 film hanno ottenuto il nulla osta per la visione in pubblico. Rispetto ai 185 film prodotti nel 2015, la crescita corrisponde al 21 %. Ma molti film prodotti grazie al sostegno dello Stato non vengono nemmeno distribuiti in sala, anche a causa delle storture del mercato “theatrical”. Cui prodest?! Serve sostenere la produzione “indipendente”, se questa produzione resta “invisibile”, senza alcun concreto sbocco sui mercati audiovisivi?!

Quindi, Franceschini ha ritenuto di dover intervenire anche sul fronte… “televisivo” (come possibile mercato di sbocco di questa “sovrapproduzione”): in effetti, è certamente scandaloso che un “public service broadcaster” come Rai trasmetta pochissimo cinema italiano in prima serata. Il decreto legislativo approvato il 2 ottobre corregge questa stortura, ma si tratta ancora una volta di un intervento della “mano pubblica”, che – secondo i liberisti – altera le caratteristiche strutturali del mercato, imponendo un dirigismo statalista che non corregge i fallimenti del mercato (che pure ci sono), intervenendo su soltanto uno dei “tasselli” del “puzzle”.

Il problema essenziale – secondo chi redige queste noterelle – è comunque nell’assenza di una visione strategica di sistema, che affronti con la indispensabile tecnicalità questioni delicate come l’estensione del pluralismo espressivo e della pluralità delle imprese, considerando “cinema+tv+web” come un sistema intermediale ormai “organico”, nel quale l’attenzione dello Stato dovrebbe essere concentrata sulla stimolazione di contenuti di qualità, plurali, differenziati: diversificati / diversificanti. Ricerca, sperimentazione, stimolazione di linguaggi innovativi e di un’“audience development” plurale: dove sono in Italia?! In film che circolano soltanto in qualche festival minore o vengono messi in onda su Rai 5 con risultati da nanoshare?!

Non è sufficiente teorizzare un generico rafforzamento dell’“industria”, iniettando risorse pubbliche ed imponendo obblighi dirigisti. Ci si deve sforzare di definire in modo serio ed accurato cosa si intende per “industria dell’audiovisivo”. Serve un intervento integrato, anche rispetto ad uno dei deficit più gravi del nostro sistema audiovisivo qual è il deficit di capacità di esportazione, ma questo approccio di “ecologia mediale” non sembra emergere nelle riforme del Ministro Dario Franceschini (e del Sottosegretario alle Comunicazioni del Mise Antonello Giacomelli, che, peraltro, su quest’ultima partita, ha mostrato un curioso assordante silenzio).

Preoccupa in particolare che sia l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ad essere chiamato (nuovamente) a verificare il rispetto degli obblighi ed a comminare le sanzioni, che il decreto aumenta sensibilmente (fino a un massimo di 5 milioni di euro o il 2 per cento del fatturato).

In effetti, nel regime attuale, al fine di verificare gli obblighi di riserva di programmazione e di investimento a tutela della produzione audiovisiva europea e indipendente, il regolamento di cui alla Delibera 186/13/Cons dell’Agcom dispone che i “fornitori di servizi di media audiovisivi” in ambito nazionale compilino, a partire dall’anno 2013, entro il 30 settembre di ogni anno (fatte salve le esigenze poste dagli obblighi di rendicontazione biennale alla Commissione Europea), il cosiddetto modello “Q”, che contiene le seguente informazioni: (A.) programmazione annuale dei “fornitori di servizi di media audiovisivi”, dettagliata secondo le ore assoggettabili e le tipologie di opere audiovisive, come definite dall’art. 44 del Tusmar; (B.) introiti conseguiti da pubblicità, da televendite, da sponsorizzazioni, da contratti e convenzioni con soggetti pubblici e privati, da provvidenze pubbliche e da offerte televisive a pagamento di programmi di carattere non sportivo di cui esso ha la responsabilità editoriale, inclusi i palinsesti diffusi o distribuiti attraverso piattaforme diffusive o distributive di soggetti terzi; (C.) modalità di investimento dei fornitori di servizi di media audiovisivi in opere audiovisive, in conformità con gli obblighi previsti dall’art. 44 del Tusmar.

Questi dati non sono resi di pubblico dominio dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, e la stessa Relazione annuale dell’Agcom al Parlamento non fornisce informazioni complete e trasparenti: perché???

La questione ha radici lontane nel tempo: le previsioni della Direttiva Comunitaria 89/552/Cee sono state recepite in Italia dall’articolo 2 della legge 30 aprile 1998, n. 122, trasposto negli articoli 6 e 44 del Decreto Legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (“Testo Unico sulla Radiotelevisione”).

All’inizio degli anni 2000, infatti, in conseguenza della implementazione della famosa legge n. 122/1998, che, recependo la Direttiva europea “Tv Senza Frontiere”, introdusse le quote obbligatorie di programmazione e investimento in opere europee a carico delle emittenti televisive nazionali, si può collocare lo sviluppo dell’industria della “fiction” italiana. Nel corso degli anni, le previsioni di legge son divenute di fatto sempre più evanescenti.

Scrivevamo sulle colonne del mensile “Millecanali”, nel novembre 2014, in occasione di una paradossale delibera Agcom che ha consentito alla Disney di non trasmettere cartoni animati “made in Italy”:

La innovativa ed avanguardistica citata legge n. 122 del 1998, fortemente voluta dall’allora Sottosegretario Vincenzo Vita (primo Governo Prodi), ha imposto ai broadcaster obblighi di programmazione e di produzione ovvero investimento, che sono stati assolutamente determinanti, nei primi anni, per il rafforzamento strutturale e la rigenerazione dell’industria italiana dei contenuti. Obblighi che sono stati allentati nel corso degli ultimi 15 anni, a causa di una sorta di sciame normativo-regolamentare e soprattutto a causa di una sostanziale assenza di controlli, fenomeni che hanno determinato il tradimento dello spirito che aveva ispirato il legislatore di allora”.

La Direttiva 2007/65/Ce è stata recepita dal Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 44 che ha abrogato l’art. 6 e modificato l’art. 44 del Testo Unico e dal D. Lgs. 120/12. Le norme prevedevano l’adozione di un “Regolamento” da parte dell’Autorità contenente la disciplina di dettaglio. Il Regolamento concernente la promozione della distribuzione e della produzione di opere europee (il cosiddetto “Regolamento quote”) è stato approvato con la Delibera n. 66/09/Cons, modificato con la Delibera n. 291/09/Cons, e integrato con la Delibera 397/10/Cons a seguito delle modifiche apportate all’art. 44 del Testo Unico dal Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 44. La disciplina per i servizi di media audiovisivi “su richiesta” è stata adottata tramite una procedura di co-regolamentazione con Delibera n. 188/11/Cons, che ha anch’essa modificato la Delibera 66/09/Cons. Infine, con Regolamento 186/13/Cons sono stati indicati i criteri di svolgimento della verifica degli obblighi di programmazione ed investimento, nonché i criteri per la valutazione delle richieste di “deroghe” ai sensi dell’art. 3 del D. Lgs. 28 giugno 2012, n. 120…

Due tesi contrapposte

Due le tesi contrapposte, nell’analisi storica della produzione audiovisiva italiana e nell’intervento della “mano pubblica”:

– i broadcaster italiani, Mediaset in primis, sostengono da sempre che l’incremento del loro investimento nella produzione di contenuti nazionali ed europei sarebbe avvenuto “comunque”, ovvero “naturaliter”, perché processo naturale di sviluppo del sistema audiovisivo, indipendentemente dalle imposizioni normative; in anni più recenti, i broadcaster hanno comunque rivendicato il loro diligente rispetto degli obblighi di legge, sostenendo che la regolazione dovesse essere estesa anche anche agli (sregolati) “over-the-top”…

– i produttori italiani di audiovisivo sostengono da sempre di aver sofferto delle condizioni di “subordinazione” rispetto ai “broadcaster”, a causa di un sistema normativo lasco (vedi il deficit definitorio di “produttore indipendente”), di uno storico assetto “oligopolistico” (dal duopolio Rai-Mediaset al triopolio Rai-Mediaset-Sky) e di un sistema di vigilanza poco severo (vedi debolezza Agcom)…

Dov’è la ragione?!

Una risposta, semplice e netta: fino a quando non si disporrà di un sistema informativo accurato e trasparente, di un dataset tecnico approfondito ed organico… le ragioni dell’uno o dell’altro potranno essere graziosamente sostenute sulla base di “emozioni” ideologiche, di simpatie o antipatie partigiane, di prevalenza di una “lobby” sull’altra, senza alcuna adeguata cognizione autentica della vera realtà.

Un caso recente: nel luglio scorso, abbiamo assistito – in relazione all’esigenza di rafforzare “l’industria audiovisiva” nazionale (appunto…) – ad uno scontro dialettico “infra-governativo”, con un Ministro (Carlo Calenda) che sosteneva le ragioni dei “grossi” ed un altro Ministro (Dario Franceschini) che sosteneva più le ragioni dei “piccoli”. Non è esattamente così, ma la semplificazione è efficace (vedi “Scontro tra Calenda e Franceschini sugli aiuti al cinema: ‘sostenere i big’ o “piccolo è bello’?”, su “Key4biz” del 14 luglio 2017): anche in quel caso, “ideologia” (o chiamale, se vuoi… emozioni) versus “evidence based decision making”.

Ancora una volta: “così è, se vi pare”, pirandellianamente.

  • Clicca qui, per leggere il comunicato stampa diramato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 2 ottobre 2017
  • Clicca qui, per leggere il comunicato stampa diramato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ed il Turismo il 2 ottobre 2017