Key4biz

ilprincipenudo. Battaglia sulle ‘Quote obbligatorie’ per cinema e fiction made in Italy. I rilievi di Netflix (terza parte)

Angelo Zaccone Teodosi

La “battaglia delle quote” si inasprisce ed il dossier che “Key4biz” ha proposto ai suoi lettori il 17 novembre (vedi “Broadcaster contro le nuove ‘quote obbligatorie’ per cinema e fiction made in Italy. Prima parte”) ed il 24 novembre (“‘Quote obbligatorie’ per cinema e fiction made in Italy, manca la valutazione d’impatto. Seconda parte”) si arricchisce di nuove puntate: venerdì 24 il quotidiano “la Repubblica” ha proposto una intervista a Dario Franceschini, nella quale il titolare del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ribadisce in modo netto la propria posizione a favore delle quote, e nel tardo pomeriggio viene diramato da Confindustria Radio Televisioni (presieduta da Franco Siddi, che è anche Consigliere di Amministrazione Rai) un comunicato di reazione dura, sebbene addolcito da una forma cortese.

Dario Franceschini ha sostenuto “le mie quote rilanceranno i film italiani: ho le tv contro? Pazienza. Scommetto che in tre anni partirà un meccanismo virtuoso e saranno tutti contenti”. Alla domanda “si aspettava la sollevazione dei broadcaster?”, risponde: “assolutamente sì. Magari mi aspettavo una protesta non congiunta ma distinta. Sono riuscito in questo miracolo irripetibile: è la prima volta credo che tutte le tv, pubbliche e private, firmano compatte una lettera di protesta… Pazienza. Se non ci fossero resistenze, vorrebbe dire che la riforma è finta”.

Le emittenti televisive si dichiarano “sorprese e dispiaciute” per le dichiarazioni del Ministro, e criticano gli “atti muscolari” ed i “movimenti di orgoglio”: “Confindustria Radio Televisioni e le altre imprese televisive si dichiarano sorprese e dispiaciute delle dichiarazioni espresse oggi a mezzo stampa dal Ministro Franceschini. Le emittenti nazionali, nel ricordare il loro disappunto nei confronti di un decreto legislativo che limita per legge la loro capacità economica ed editoriale, ribadiscono che hanno sempre affrontato la questione degli obblighi di investimento e programmazione con un atteggiamento costruttivo”. Si legge nella nota: “liquidare con una battuta le preoccupazioni di un intero comparto, che negli ultimi 12 anni ha investito oltre 10 miliardi di euro nell’audiovisivo e dà lavoro a circa 26.000 persone, non aiuta il dialogo tra governo e industria”, sottolinea il comunicato. “Le riforme che producono valore, infatti, sono di solito il frutto di un lavoro congiunto e non di atti muscolari o movimenti di orgoglio. In precedenza e in Parlamento era peraltro emersa l’importanza di tenere unita la filiera del settore, con le associazioni dei produttori che avevano sollevato temi in parte comuni alle imprese televisive. Si è invece scelta una strada diversa e divisiva, penalizzante per un solo settore. Le nuove norme rendono l’Italia un’eccezione purtroppo negativa nel panorama europeo e sarà il tempo a dimostrare l’impraticabilità di una legge che non ha nulla in comune con il modello francese (peraltro mai invocato dai broadcaster), che si allontana dal dettato della direttiva europea, che è redatta senza un’analisi d’impatto economico e che rischia di rendere del tutto marginale la produzione italiana a livello internazionale. Riguardo all’aumento della qualità conseguente all’applicazione del decreto… magari bastasse una norma in più per vincere gli Oscar!”.

Si osserva, nella redazione del comunicato di lamentazione e protesta, un curioso mix tra toni eleganti e contenuti radicali. Considerando che in Crtv confluiscono “player” come Mediaset e Rai, nonché La7, Discovery, Viacom, Hse24, Tv2000, ed altri minori (ricordiamo che Sky Italia è uscita da Crtv nell’estate del 2016), immaginiamo che la redazione sia stata complessa e faticosa.

Piace qui segnalare come Confindustria Radio Televisioni (Crtv) segnali che la normativa proposta sia stata elaborata “senza un’analisi di impatto economico”, ed è uno dei tasti sui quali abbiamo battuto su queste colonne, perché – ancora una volta – viene messo in atto un apparato normativo frutto di considerazioni ideologiche (volendo sintetizzare brutalmente: “c’è poco cinema italiano in tv, lo Stato costringa le tv a trasmetterlo…”), e non basato su una accurata ed approfondita analisi dell’economia politica del settore. Va comunque osservato che anche i dati che i “broadcaster” hanno diffuso per segnalare criticamente le conseguenze della normativa nell’economia del settore non sembrano supportati – per quanto è dato sapere (abbiamo chiesto approfondimenti a Crtv, senza finora ricevere feedback) – da studi approfonditi, ma si tratterebbe di stime discretamente nasometriche (tanto per cambiare).

Da segnalare anche un’altra presa di posizione critica, sebbene certamente meno dura e focalizzata su una specifica questione tecnica: giovedì 23 l’Associazione dei Produttori Televisivi (Apt) ha lanciato l’allarme “split payment”, che rischierebbe di vanificare gran parte dei benefici del “tax credit”. Ha dichiarato Giancarlo Leone, Presidente di Apt, lamentando che la legge è “centrata” più sul cinema che sull’audiovisivo: “il ministro Franceschini è riuscito con la nuova normativa sulle quote obbligatorie dei broadcaster a riportare al centro dell’attenzione e dell’impulso del sistema l’intero comparto dell’audiovisivo e di questo occorre dargli il merito. Probabilmente, in sede di alcuni decreti attuativi, sarà possibile allineare maggiormente le necessarie esigenze della serialità televisiva e dei documentari i cui ambiti di applicazione potranno trovare maggiore riconoscimento”. Leone ritiene che “l’intera lungimirante strategia del governo sull’audiovisivo, dal tax credit fino alla riforma del Tusmar, potrebbe essere parzialmente vanificata qualora non si ponga rimedio al meccanismo dello split payment, che sostanzialmente impedisce ai produttori di poter accedere ai benefici di legge previsti. Poiché il meccanismo si applica a Rai ed alle società quotate in borsa, l’utilizzo del tax credit sarà in gran parte vanificato. Per questo motivo, Apt ha chiesto formalmente un intervento urgente alla presidenza del Consiglio dei ministri, al Mibact e al Mef nell’ambito della manovra economica che sarà approvata nelle prossime settimane”.

Lo “split payment” è un meccanismo di liquidazione dell’Iva che riguarda i rapporti tra la pubblica amministrazione e le imprese: secondo il meccanismo dei “pagamenti divisi” o “scissione dei pagamenti”, si verifica una prima fase, nella quale l’impresa, incassa l’ammontare dovuto dell’operazione al netto dell’Iva dalla pubblica amministrazione; successivamente, la pubblica amministrazione procede a versare l’Iva a debito.

Al di là della “questioncella” sollevata, ci domandiamo se anche Leone è cosciente che il tanto decantato strumento del “tax credit” ha indubbiamente stimolato un’iniezione energetica (economico-finanziaria) nel settore audiovisivo italiano, ma nessuno ha finora studiato – né al Mibact né altrove – i reali effetti sull’economia del settore: ha rafforzato i grandi produttori o ha stimolato la crescita dei produttori indipendenti?! ha determinato un incremento dell’“output” produttivo, indubbiamente, ma queste opere hanno trovato adeguati canali di sbocco distributivo?! il rafforzato intervento della “mano pubblica” ha contribuito ad una estensione dell’offerta che è andata incontro ad una domanda del pubblico, o ha comunque stimolato l’“audience engagement”?! Ha incrementato il pluralismo espressivo e stimolato la ricerca e la sperimentazione?!

Nel mentre, si registrano segnali di apprezzamento da alcune associazioni del settore. Ci limitiamo a riportare il comunicato stampa entusiasta diramato giovedì 23 dalla storica Anac – Associazione Nazionale Autori Cinematografici: “l’Anac, da sempre favorevole a un sistema integrato dell’audiovisivo nel quale le opere cinematografiche italiane siano trasmesse dai broadcaster, esprime la sua soddisfazione per le norme definitivamente approvate ieri in sede di Consiglio dei Ministri. Come avviene in altri Paesi europei, il nuovo decreto stabilisce quote d’investimento e di programmazione che consentiranno di produrre e divulgare storie che ci appartengono e che vanno promosse perché sono il frutto della creatività e identità del nostro Paese. L’Anac, che appena una settimana fa aveva espresso alle Commissioni Cultura e Comunicazioni del Senato quanto fosse necessario un parere favorevole al decreto, anche per gli effetti positivi che questo avrà in termini occupazionali, non può che apprezzare la tenacia e la coerenza con le quali il ministro Dario Franceschini, il Governo, i relatori senatori Marcucci, Ranucci, Di Giorgi e la Direzione Generale Cinema hanno portato a compimento un percorso di approvazione impervio nel quale i più insidiosi ostacoli sono stati alzati con ogni mezzo indistintamente da tutti i fornitori di servizi media audiovisivi, alleati insieme per far arenare il provvedimento”.

Tra le poche voci dissidenti, va ricordato quel che ha sostenuto qualche settimana fa il critico eterodosso (e cultore dei “B-movie” e del “trash”) Marco Giusti, che ha proposto sulle colonne di “Dagospia” un’analisi impietosa delle contraddizioni interne del cinema italiano: “Domani il pubblico di Rai 1 vedrà, in prima serata, in prima tv, “Al posto tuo” di Max Croci con Luca Argentero, Ambra Angiolini e Stefano Fresi. Il primo film italiano scelto da Rai 1 per rispettare il Decreto Franceschini che prevede appunto, tra le altre cose, che le emittenti italiane mandino in onda almeno un film italiano a settimana. Prevede anche che il 15 % dei ricavi delle reti vada alle produzioni nazionali o alle coproduzioni europee. Si salverà così il cinema italiano? Mah! (…) Salverà il cinema italiano una ricostruzione sana della nostra produzione che riuscirà a pensare contemporaneamente film per la tv, serial e film per la sala in modo moderno. Non credo che piazzare un film italiano ogni mercoledì sera possa salvare il cinema italiano. ll cinema sovvenzionato non è mai servito a nessuno. E nemmeno i film che vanno visti per decreto”. In sostanza, Giusti lamenta l’assenza di una visione strategica sistemica, che consideri “cinema” e “televisioni” strumenti espressivi e sistemi produttivi da stimolare in modo integrato ed interagente. Il film con Luca Argentero si è comunque aggiudicato dignitosamente gli ascolti della prima serata, visto da 3 milioni 540mila telespettatori e uno share del 15 %, ma Canale 5 con “Squadra Mobile – Operazione Mafia Capitale” ha ottenuto 2 milioni 867mila telespettatori e il 12,9 %. Terzo gradino del podio per “Chi l’ha visto?”, che su Rai3 ha conquistato 2 milioni 181mila telespettatori ed il 10,5 % di share. Il programma più atteso alla prova della serata del 4 ottobre è stato in verità quello di Roberto Saviano, che con “Kings of Crime – Paolo Di Lauro”, ha esordito su Nove (Discovery Group) ed è stato trasmesso in simulcast anche su RealTime, Dmax, Focus, Giallo. Il risultato complessivo è stato di 806mila spettatori con il 3,3 % di share (di cui 395mila con l’1,8 % su Nove), con 1,1 milioni di spettatori se si considerano i canali ‘mirror’.

La querelle “quote obbligatorie” si… espande: in occasione dell’apertura della “Milano Week Music”, lunedì della scorsa settimana, il Ministro Dario Franceschini ha sostenuto che la nuova legge sullo spettacolo dal vivo l’introduzione di “quote obbligatorie” per le emittenti radiofoniche: “c’è una cosa che la nuova legge consente – ha sostenuto, partecipando ad un incontro il 20 novembre con il Presidente Siae Filippo Sugar, il Ceo di Fimi Enzo Mazza e il Presidente di Assomusica Vincenzo Sperauna delle norme più nascoste, è immaginare come possiamo prevedere quote di obbligatorietà di trasmissione della musica italiana. È una norma che consente di regolare questo e ci lavoreremo. In Francia, ci sono quote per le radio. Vedremo”. In quella stessa occasione, il Ministro, rispetto alle quote sul cinema, aveva segnalato che “siamo nel pieno della chiusura”, e, rispetto alle critiche al modello francese, ha sostenuto che “andava bene a tutti quando era teorico, quando l’abbiamo portato nel nostro ordinamento, ha scatenato crisi furibonde, ma stiamo arrivando a compimento”.

E’ opportuno osservare l’atteggiamento in qualche modo… “pedagogico” (dirigista-statalista?!) che Franceschini sta rivelando rispetto all’economia di mercato ed alla libera impresa. Oggi stesso, in occasione della presentazione della Biennale Nomade Europea “Manifesta” (che si svolgerà a Palermo dal 16 giugno al 4 novembre 2018), il Ministro ha sostenuto che le imprese che non utilizzano l’“art bonus” debbono… vergognarsi: “l’art bonus ha avuto risultati molto positivi: qualche giorno fa, abbiamo superato i 200 milioni di donazioni, è soltanto l’inizio di un percorso, e arriverà presto il momento in cui le grandi e medie aziende si vergogneranno, se non hanno destinato una parte dei loro utili per il nostro patrimonio culturale”. Toni che, in campagna elettorale, sembrano quasi ammiccare alla… sinistra del Partito Democratico (Silvio Berlusconi li definirebbe sicuramente “comunisti”!), ovvero ai suoi tradizionali valori critici rispetto al mercato.

Questa mattina, di fronte ad una platea di produttori, autori e protagonisti del cinema italiano, all’Hoter Majestic di Roma, ha sostenuto che, in materia di cultura, “dobbiamo cogliere un’occasione storica: l’Italia deve investire adesso sul suo patrimonio culturale del passato e su quello del presente, sui talenti, sull’industria culturale e creativa, ora che abbiamo di fronte una finestra pazzesca, che non sappiamo quante volte si ripeterà, in cui è possibile unire creatività all’era digitale e alla globalizzazione della rete”. Di fronte a questa platea, il Ministro ha ricevuto oggi una sorta di… plauso unanime per la sua legge sul cinema e l’audiovisivo e sui decreti attuativi, che realizzano una sinergia virtuosa con le televisioni. Franceschini ha sottolineato come la sua azione sia sempre stata mirata a valorizzare il primo patrimonio del nostro Paese, quello culturale: “ai giornalisti che mi chiedevano come mi sentissi dopo essere stato nominato ministro dei Beni culturali – ha ricordato – ho risposto che mi sentivo chiamato a guidare il ministero economico più importante del Paese. Non possiamo rassegnarci a essere il Paese che ha i consumi culturali più bassi degli altri Stati europei, e per questo è necessario allargare il pubblico, e questo si può fare solo se è chiaro il concetto che gli investimenti culturali sono un grande investimento strategico per il sistema Paese. Basta ragionare per compartimenti stagni: ora c’è una nuova centralità, su cui bisogna investire perché i vari provvedimenti del governo sono legati fra loro. E mirano ad aumentare il pubblico. Se una persona va a teatro, più facilmente sarà invogliata ad andare al museo, se una persona legge un libro, più facilmente ascolterà musica. Tutti questi provvedimenti servono a questo, ad allargare la platea di chi fruisce della cultura”.

Ribadiamo: le intenzioni sono commendevoli (anzitutto “allargare la platea di chi fruisce della cultura”), quel che ci sembra purtroppo ancora discretamente frammentario, è la concreta applicazione della strategia complessiva. E la questione “quote obbligatorie” ci sembra incarni questa perdurante frammentazione di interventi in assenza di un sistema informativo adeguato, e di analisi costi/benefici.

La “partita delle quote” è comunque complicata e sintomatica, e si collega – almeno idealmente (ideologicamente?!) – ad altra grande battaglia, ovvero la “web tax”: ieri in Senato, in Commissione Bilancio, s’è registrato un voto unanime, dopo una giornata di tensioni, e tre riformulazioni dell’emendamento alla manovra, voluto dal Senatore del Pd Massimo Mucchetti (Presidente della Commissione Industria del Senato), che prevede una imposta del 6 % sulle transazioni digitali (più esattamente, sui ricavi derivanti da attività digitali dematerializzate), e che determina una tassazione dei giganti del web, da Google a Facebook, che notoriamente non pagano le tasse nel nostro Paese. La misura potrebbe portare nelle casse statali circa 110 milioni di euro, ma soltanto dal 2019, anche se a regime si potrebbe arrivare ad 1 miliardo di euro di gettito. Si tratta, di fatto, di “spiccioli”, ma il senso ideologico della misura è importante. La partita passa ora alla Camera dei Deputati. Da segnalare che Google e Apple e Booking sono state invitate alle audizioni, ma hanno ritenuto di non partecipare: ha commentato ironicamente Mucchetti sul “Corriere della Sera”: “non sono venute in audizione, pur frequentando spesso la Casa Bianca, Berlaymont e pure i ministeri italiani. Ma essere maleducati è un diritto”.

Ed a proposito di “big player” che si sono mostrati invece meno… maleducati, va segnalata la presa di posizione di Netflix: presentiamo ai lettori di “Key4biz” – in esclusiva assoluta – la memoria che il gruppo statunitense ha depositato alla Camera dei Deputati. Come i nostri lettori più affezionati ricorderanno, il documento di Netflix non è stato reso di pubblico dominio, e ci siamo rivolti alla Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, Flavia Nardelli Piccoli, chiedendo la divulgazione: la Presidente, con la cortesia che sempre la caratterizza, ci ha precisato “che, ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa, le audizioni sull’atto del Governo 469 erano “informali” e non inserite in una procedura conoscitiva formale. Per tale tipo di audizioni, l’interpretazione consolidata di questa legislatura presso la Camera dei Deputati prevede la pubblicità dei lavori mediante ripresa sulla web-tv, e non la pubblicazione delle memorie depositate da chi viene ascoltato. Questo indirizzo applicativo non è mio, ma della Presidente della Camera dei deputati, la quale a sua volta ha consultato la Giunta del Regolamento”. Tradotto in italiano corrente, in occasione delle “audizioni informali” la posizione dell’audito viene resa di pubblico dominio mediante ripresa sulla web-tv della Camera, ma le memorie che egli deposita restano atti interni del Parlamento. Prendiamo atto, e non è questa la sede per manifestare perplessità su questa opinabile interpretazione del concetto di “trasparenza” e “casa di vetro”.

Ci siamo quindi rivolti a Netflix, ovvero a Barbara Ferrieri, che dal 2 ottobre 2017 lavora nella sede di Amsterdam come Original Publicity Manager Italia, ovvero all’ufficio stampa cui il gruppo di Reed Hastings ha affidato i rapporti con i media in Italia, Mslgroup (Gruppo Publicis) guidato da Daniela Canegallo, e, dopo paziente attesa, il documento ci è stato trasmesso questa mattina: clicca qui, per leggerlo.

Si ricordi che Netflix è ormai un “player” globale-multinazionale di dimensioni impressionanti (e con approccio inevitabilmente anche un po’ “glocal”), se è vero che la Disney avrebbe messo gli occhi sulla Fox per contrastare l’invasione di piattaforme di “streaming” come Netflix, Amazon ed Hulu. Il fatturato 2016 è stato di 8,3 miliardi di euro, con un utile netto di 188 milioni. I dipendenti sono soltanto 3.500. Si ricordi che il gruppo è nato nel 1997 come attività di noleggio di dvd e videogiochi, ovvero come concorrente di Blockbuster.

In una rara intervista (concessa a “la Repubblica”, pubblicata il 13 gennaio 2017), Reed Hastings rivelava alcune previsioni sul mercato italiano: “prevediamo di arrivare a 5 o 6 milioni di abbonati entro il 2023”.

Netflix è sbarcata in Italia il 22 ottobre 2017, con il suo carico di serie tv, documentari, film e spettacoli di intrattenimento.

Non vengono rivelati dati ufficiali sulla attuale penetrazione di Netflix in Italia: secondo stime E&Y (Ernst&Young), i clienti in Italia sarebbero intorno agli 800mila, ma non si dispone di dati di fatturato. Questo “mercato” è presidiato anche da TimVision, la piattaforma di Telecom Italia che è un “ibrido”, perché emanazione di una compagnia telefonica (nella logica di convergenza tra media e tlc): ha 1 milione di abbonati (dato settembre 2017). Sotto la soglia dei 500mila clienti, ritenuta il “discrimine” da E&Y, ci sono Infinity, che è la versione in streaming di Mediaset Premium, con 300mila abbonati; e NowTv, l’equivalente di Sky (con 200mila). La differenza di numeri sta ovviamente anche nel diverso modello: per Netflix, la tv via internet è l’attività principale e unica; per Sky e Mediaset, sono servizi aggiuntivi e secondari per i loro abbonati…

Secondo alcune stime, nel 2018 Netflix andrà ad investire, a livello planetario, 6 o 7 miliardi di dollari Usa nella produzione di nuovi contenuti di qualità.

Si tratta di un “position paper” di notevole interesse, dal punto di vista economico-imprenditoriale-industriale (ed anche ideologico-politico). Nelle premesse, Netflix precisa che, nel fornire film e serie di alta qualità “on-demand” su qualsiasi schermo e a un prezzo accessibile, “non sostituisce i cinema o la tv, offrendo invece una nuova esperienza, complementare alle esperienze cinematografiche e televisive tradizionali”. Netflix rivendica di investire “nei contenuti europei attraverso produzioni, coproduzioni, e distribuzione all’interno e all’esterno del territorio europeo. Gli investimenti “market driven” della società contribuiscono a un settore creativo sostenibile e globalmente competitivo in Europa”. Non fornisce dati precisi, ma si limita a segnalare che “fin dal 2012, la società ha impegnato oltre $2 miliardi nelle produzioni europee, che includono più di 90 produzioni originali attualmente in diverse fasi di sviluppo”. Un minimo di dettaglio sarebbe stato apprezzabile.

Per quanto riguarda specificamente l’Italia, nessun dato economico: “Quest’anno, Netflix ha lanciato la sua prima serie originale italiana: “Suburra”. Si tratta di una serie di genere crime ambientata sul litorale romano e composta da 10 episodi. La serie è stata creata da Cattleya, il produttore cinematografico e televisivo dietro i successi televisivi quali la serie Sky Italia “Gomorra” e “Romanzo Criminale”. “Suburra” è stata presentata in anteprima al Festival del Cinema di Venezia ed è stata prodotta in collaborazione con la Rai, l’emittente pubblica italiana, che trasmetterà la serie nel 2018. Inoltre, Netflix ha recentemente lanciato la sua prima ‘comedy special italiana’, lo show “Beppe Grillo: Grillo vs. Grillo” e ha annunciato “Juventus Fc”, una docu-serie televisiva sulle storie del celebre club italiano di calcio, composto da 4 episodi lunghi 4 ore e che verrà distribuito in tutto il mondo all’inizio del 2018”.

Curiosamente, nel documento non viene fatto cenno alla terza produzione originale italiana, che si intitolerà “Baby”, soggetto liberamente ispirato allo scandalo delle “baby squillo” scoppiato a Roma nell’estate 2014, con il racconto delle vicende di un gruppo di ragazzi dei Parioli in cerca della propria identità e indipendenza, tra amori proibiti, pressioni familiari e segreti condivisi. A produrre la serie drammatica in 8 puntate la Fabula Pictures, mentre la scrittura porta la firma del collettivo ‘Grams’, composto da 5 giovani autori – Antonio Le Fosse, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti, Giacomo Mazzariol e Re Salvador – cui si sono uniti Isabella Aguilar e Giacomo Durzi. “Siamo orgogliosi di continuare ad investire in contenuti originali in Italia, e ‘Baby’ è rappresentativa dei nuovi e avvincenti programmi dei produttori di talento che amiamo”, ha dichiarato il 15 novembre 2017 Erik Barmack, Vice President International Originals di Netflix.

Le criticità che Netflix evidenzia rispetto al decreto Franceschini sono varie, e segnaliamo le più interessanti:

Va dato atto a Netflix che le tesi critiche sono rappresentate in modo assai chiaro, anche se un qualche contributo di analisi di scenario e di mercato nonché qualche dato economico consentirebbe di comprendere meglio gli effetti stimati delle nuove norme: anche in questo caso – e per responsabilità di un “player” privato – nessun contributo cognitivo per quella auspicata ed indispensabile “valutazione d’impatto”.

Ancora una volta, si naviga a vista.

Vai alla prima e alla seconda puntata del Dossier ‘Quote obbligatorie’.

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