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Il Piano di Digitalizzazione del Patrimonio Culturale: perché è un’opportunità anche per il digitale

di Paolo Zagaglia, Professore di Economia Unibo |

Il Piano Nazionale di Digitalizzazione del Patrimonio Culturale (PND) 2022-2023 ha uno scopo semplice e logico: dopo la spinta decisiva alla digitalizzazione dei diversi elementi del nostro patrimonio culturale pubblico, rimane il problema di come 'valorizzare' nel digitale.

Il Piano Nazionale di Digitalizzazione del Patrimonio Culturale (PND) 2022-2023 costituisce un passo fondamentale per determinare i passi successivi ai cospicui investimenti pubblici destinati alla creazione di infrastrutture digitali pubbliche per la cultura stanziati nel PNRR – il noto Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per il nostro paese. Si tratta di una serie di documenti attualmente in discussione. Ha uno scopo semplice e logico: dopo la spinta decisiva alla digitalizzazione dei diversi elementi del nostro patrimonio culturale pubblico, rimane il problema di come ‘valorizzare’ nel digitale. E, per valorizzare, servono azioni coordinati all’interno della vasta miriade di istituzioni pubbliche della cultura italiana.

Non ci possono essere strategie efficaci se non c’è condivisione di vedute – tecniche e non -, sotto il coordinamento del MIBACT. Infatti, il 30 Maggio scorso, la struttura del PND è stata presentata in forma aperta, sotto invito di primarie associazioni degli operatori pubblici del settore.[1] E gli operatori specializzati – tra questi, i musei pubblici – hanno la possibilità di presentare le proprie considerazioni alle bozze del PND nelle varie fasi di preparazione delle stesse.

La spinta positiva ad una visione strategica sull’innovazione nell’offerta culturale dei musei che emerge nel PND prende corpo in un periodo particolare, caratterizzato da innovazioni tecnologiche non ancora pienamente ‘digerite’. Da una parte, l’avvento delle infrastrutture di catena a blocchi ha reso estremamente accessibile lo scambio di qualsiasi oggetto digitale, passando sia per l’uso delle criptomonete, sia per l’accesso a portafogli digitali anonimi. Si tratta di una possibilità percepita come fattore di rischio nel mondo attuale del copia-incolla a costo zero per le immagini digitali – quindi, potenzialmente, anche dei prodotti della digitalizzazione che vengono condivisi in Internet. Inoltre, l’esplosione dei mercati degli NFT a carattere artistico ha generato un’accelerazione nella tentazione di portare oggetti di arte digitale nei circuiti di mercato: un addizionale fattore di rischio soprattutto – come argomentato anche da società private italiane – per i soggetti preposti alla conservazione e valorizzazione sociale dei beni culturali. Da quì, la narrativa sull’idea per cui recenti innovazioni costituiscono soltanto sorgenti di rischio.

In questo articolo, consideriamo la seguente domanda: potrebbe emergere un effetto di ‘sostituzione’ tra l’offerta culturale negli spazi fisici e l’offerta culturale negli spazi ‘digitali’ per un museo? Si tratta di una domanda di non poco conto. Il turismo trainato dall’offerta culturale nei luoghi museali italiani ha un ruolo macroeconomico sostanziale nel nostro paese. Ed i musei pubblici vivono e si definiscono, in modo permeante, sull’offerta culturale proprio nei luoghi fisici in cui sono stati costituiti. E – ancora più importante – il PND si inquadra nella componente 3 della missione 1 del PNRR, che riguarda proprio il turismo e la cultura, con obiettivi legati all’innovazione ed alla competitività.

Al di là del dibattito sugli strumenti e sulle caratteristiche tecniche degli interventi, il PND incarna un messaggio importante: la digitalizzazione e la condivisione online dei contenuti rappresenta un’opportunità per un paese che deve rimanere la ‘Ferrari’ della cultura. Ma questo può avvenire soltanto se 

La percezione del punto di dibattito: l’unicità dell’opera d’arte originaria

Recentemente, il Museo degli Uffizi è stato oggetto di critiche feroci per la vendita del token non fungibile – NFT – legato al contenuto in forma digitale di un’opera d’arte di Michelangelo, il Tondo Doni. Questa operazione – realizzata insieme ad un’azienda privata – ha portato ad un seguito di critica mediatica, il quale ha suscitato anche reazioni politiche – principalmente orientate al capire che cosa effettivamente sia successo e perché.[2] Mettiamo da parte, per un momento, gli aspetti contrattualistici di natura specifica che hanno caratterizzato l’operazione ‘Tondo Doni’: quì, non si intende entrare nella valutazione di questi contorni della vicenda. Il punto è che disporre tramite compravendita – indipendentemente dalla forma che ciò prenda – di qualcosa che deriva da un’opera così importante per la definizione dell’identità sociale e nazionale del nostro paese (Michelangelo = Italia come paese e come collettività) va valutato con attenzione per tutelare l’interesse collettivo. Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio – in particolare, gli articoli 106, 107 e 108 – limitano i diritti di riproduzione delle immagini dei beni culturali.

L’avvento degli NFT ha amplificato la percezione dei problemi legati alla diffusione degli oggetti digitali prodotti su un bene culturale. All’alba del PND, è emersa l’idea per cui la circolazione online di copie digitali – magari ‘registrate’ in una piattaforma di catena a blocchi – di un’opera d’arte già conservata e già valorizzata in un museo pubblico può degradare il grado di unicità dell’opera stessa. La linea di argomento può essere riassunta nel modo seguente: quante più copie digitali circolano, tanto minore è la possibilità di controllare come queste vengono usate, tanto più difficile risulta preservare i vantaggi che derivano dall’unicità dell’offerta culturale del museo che ospita l’opera reale. In altre parole, all’aumentare della circolazione delle riproduzioni digitali può diminuire la capacità dei musei di attrarre visitatori. Dunque, se i visitatori sono attratti proprio dall’unicità, digitalizzare e distribuire in modo illimitato può significare perdere visitatori delle opere negli spazi del mondo reale.[3]

Tutto questo ci porta ad una domanda più precisa e cogente: possiamo aspettarci che, per esempio, la riproduzione digitale di un dipinto – e che una sua prolifica circolazione ‘online’ – assuma il ruolo di ‘sostituto’ rispetto all’opera originaria nell’offerta di servizio culturale messa in campo da un museo?

Digitale e reale: sostituti o complementi?

Data l’offerta di un bene o servizio, il lato della domanda finisce per determinare ciò che viene effettivamente scambiato tra due controparti. Quindi, la relazione di sostituzione o complementarietà tra due beni o servizi alternativi – entrambi messi a disposizione dal lato dell’offerta – deriva dalle scelte di chi sceglie tra i beni o servizi offerti. In ogni corso base di microeconomia, vengono insegnate due definizioni di base per la complementarietà o sostituzione.

Due beni o servizi diversi vengono definiti come sostituti quando ‘l’elasticità della quantità domandata’ di un bene A rispetto al prezzo di un altro bene B ha segno positivo. In termini più immediati, se l’aumento del prezzo di B si accompagna ad un aumento della quantità domandata di A, allora A e B vengono definiti come ‘sostituti’. L’intuizione è semplice: data un’offerta invariata di entrambi i beni, con preferenze dei consumatori e reddito disponibile che non cambiano nel tempo, l’aumento del prezzo di A porta ad una diminuzione della quantità domandata di A. Se la quantità domandata di B aumenta, allora la relazione tra la domanda dei due beni è caratterizzata da sostituibilità. Un’intuizione di simile natura porta ad una definizione di complementarietà.

Queste idee hanno a che fare con la relazione prezzi-quantità. Al di là di ciò, proiettano luce su una strada apparentemente non illuminata: sostituibilità e complementarietà sono legate al comportamento del lato della domanda di un bene o servizio. I consumatori o fruitori determinano che cosa succede nella relazione tra le quantità di beni o servizi – con caratteristiche anche estremamente diverse tra loro – offerti sul mercato dal lato dell’offerta. Quindi non basta offrire qualcosa che si percepisce come ‘sostituto’ rispetto ad un altro oggetto già esistente per far si che una relazione di sostituzione emerga nei fatti dei comportamenti di mercato.

Nel caso del dibattito sulla circolazione delle immagini digitali di un’opera d’arte reale ospitata in un museo, ne emerge un punto chiaro: aspettarsi che la prolificazione online delle copie digitali abbia un impatto sulla domanda di accesso ad una struttura museale si basa su ipotesi forti. Una di queste ha a che fare con l’inabilità di un museo di poter influenzare i comportamenti del lato della domanda nel mercato dei servizi museali. Diciamolo a chiare lettere: chi sostiene che la prolificazione dell’immagine digitale – magari online – di un’opera reale abbia un impatto negativo sull’affluenza negli spazi fisici di un museo lancia un messaggio di mancanza di fiducia sostanziale. Su che cosa? Per esempio, sulla capacità del/la direttore/direttrice di un museo di porre in essere un’offerta culturale in grado di non perdere visitatori.

Queste considerazioni ci fanno approdare ad un’altra osservazione: la capacità di un’offerta culturale di qualificare l’esperienza nei luoghi fisici di un museo rispetto all’esperienza negli spazi digitali – online – può indirizzare i comportamenti dei fruitori verso una relazione di complementarietà tra i due tipi di servizi. Se diversi ‘luoghi di offerta’ possono portare a diversi ‘tipi di esperienza’, il punto di svolta si basa su ciò che viene ‘costruito’ sulla disponibilità di un’opera d’arte, indipendentemente dalla forma specifica – ‘reale’ contro ‘digitale’ – che questa ha.  

La sfida della complementarietà tra offerta culturale nel digitale e nel mondo reale

Quali ingredienti possono permettere di proporre un’offerta culturale digitale che non rimpiazzi l’audience delle attività realizzate negli spazi fisici di un museo? Ecco un’idea: l’offerta culturale digitale dovrebbe mirare alla creazione di ‘comunità online’ di individui che condividono valori ed interessi comuni, legati alle attività che vengono realizzate. Ovviamente, un individuo compie una scelta se ha un incentivo a far ciò. E gli incentivi possono avere una natura economica od una caratteristica di condivisione di valori. Per esempio, nel caso di Wikipedia, centinaia di miglia di persone vengono accomunate dal piacere di contribuire a mantenere un archivio online. Dunque, non si tratta di una questione di scelta di strumenti tecnici: è un problema di progettazione di un sistema di incentivi a partecipare alla produzione di un bene collettivo – nell’ottica di ogni singola comunità di utenti. Siamo chiari: non si tratta di una mera questione di ‘social media management’.

Ma tutto questo implica un cambiamento di passo. Non ci si può aspettare che digitalizzando e condividendo online emerga una partecipazione consistente con l’ulteriore obiettivo di attrarre nei luoghi fisici della cultura. Un museo deve essere in grado di progettare forme di partecipazione che siano consistenti con le motivazioni desiderabili dagli utenti. E quì nasce una questione importante: l’attuazione del PND includerà una valutazione della ‘maturità digitale’ dei musei, offrendo poi iniziative formative. Con linguaggio calcistico, si tratta di un ‘goal’ realizzato dalla ‘squadra’ del MIBACT per evitare il pericolo di ‘autogol’ derivante da una sostituzione di domanda tra servizi culturali digitali e servizi culturali negli spazi fisici dei musei. Ma tutto questo avrà un senso compiuto soltanto se porterà a maggiore partecipazione sia nel digitale, sia nei luoghi dei musei. Per raggiungere quello scopo, non è sufficiente avere un sito web con immagini in alta definizione o procedure autorizzative automatizzate per l’uso delle immagini stesse. Se davvero nascesse la consapevolezza di tutto questo, allora sì: si creerebbe anche valore culturale.


[1] Per il lettore interessato, la registrazione dell’incontro è liberamente accessibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=rZRKIy3KwaA

[2] Il dibattito sul Tondo Doni è ben descritto in questo articolo: https://www.finestresullarte.info/attualita/la-polemica-nft-opere-d-arte-dei-musei-spiegata-bene

[3] In realtà, negli ultimi mesi, non sono mancati articoli e commenti che hanno proposto l’idea per la quale la stessa circolazione online dell’immagine di un’opera d’arte tramite NFT può portare ad una riduzione del valore economico dell’opera d’arte ‘fisica’ – su cui l’immagine digitale è stata costruita. Nel presente articolo, scegliamo di non trattare il tema del ‘valore economico’. Ma il lettore attento potrà arrivare a conclusioni in merito sulla base degli argomenti discussi in quanto segue.