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Il lato oscuro delle multinazionali: le tasse e le aziende che non pagano quanto dovrebbero

Raffaele Barberio

Raffaele Barberio

La scorsa settimana si è tenuto a Roma un importante confronto sui temi della fiscalità nell’economia digitale. L’evento, organizzato dal gruppo parlamentare PD alla Camera dei Deputati, ha visto intorno al tavolo esperti ed addetti ai lavori che hanno contribuito fattivamente a delineare il perimetro delle complesse problematiche legate al tema.

Il problema dell’inadeguato pagamento delle tasse da parte delle multinazionali è un problema presente ormai ovunque.

Se ne parla da tempo e in Italia, con netto anticipo rispetto al resto d’Europa, l’argomento fu oggetto di un acceso dibattito nell’autunno 2013 in occasione della proposta di soluzione del problema avanzata dal presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, Francesco Boccia.

In quei mesi furono in tanti a proporre il coinvolgimento dell’OCSE/OECD come sede di discussione e di proposizione dei rimedi necessari. Altri sostennero che la sede UE sarebbe stata più coerente.

Tra UE e OCSE

Alcuni tra i panelist presenti al workshop organizzato dal PD partecipano anche attivamente, in sede OCSE ai lavori del cosiddetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting). Una sigla indecifrabile che rappresenta un Action Plan approvato dal G20 nel luglio 2013 per trovare una soluzione su come far pagare in modo equo le tasse a multinazionali che operano su base globale e che, usando le crepe e i disallineamenti normativi presenti da Paese a Paese, riescono ad eludere il pagamento di quanto dovuto.

Il BEPS ha identificato 15 aree operative e dovrebbe consegnare i risultati del proprio lavoro ai ministri delle Finanze che si riuniranno in occasione del G20 del prossimo ottobre.

L’argomento, come si sa, è spinoso perché le multinazionali attualmente non fanno altro che usare alcune inadeguatezze normative dovute alla mancata armonizzazione tra gli Stati membri della UE, alcuni dei quali (primi fra tutti Irlanda, Lussemburgo, Olanda) hanno attuato piani di incentivi per invogliare le multinazionali a spostare la sede delle operazioni continentali sui loro territori, in cambio dell’ombrello protettivo contro le richieste fiscali di altri Stati membri (dal momento che le tasse riferite allo stesso imponibile non si pagano contemporaneamente in due Stati).

Il dato positivo e nuovo è che appena due anni fa in Europa sembrava che non si potesse parlare dell’argomento, se non generando a un tempo smarrimento o rassegnazione negli interlocutori europei e accuse di soffocamento dell’innovazione da parte delle multinazionali (quasi tutte americane, ma ora stanno avanzando anche le aziende cinesi), mentre oggi sembra ormai diffusa una consapevolezza istituzionale e di opinione pubblica per una definizione di regole eque che risolvano il problema una volta per tutte.

 

E’ cambiato il clima politico sul tema

E allora cosa fare?

Da più parti sono sorte pressioni verso l’Europa perché la Commissione rompesse gli indugi.

Altri hanno invece indicato nell’OCSE la sede istituzionale più consona per dibattere e risolvere il problema.

Inoltre alcuni Paesi membri della UE hanno avviato azioni individuali (particolarmente in ambito di competizione e limitate ad alcuni settori verticali) e non coordinate col resto della UE.

Il risultato è che, rispetto a due anni fa, il clima è radicalmente cambiato, per almeno tre ragioni:

  1. La crisi economica impone ragioni di equità e risulta inammissibile che miliardi o addirittura decine di miliardi di euro di imponibile prodotti in ciascun Paese europeo non vengano tassati;
  2. L’Unione Europea, indebolita politicamente dalle vicende degli ultimi mesi e alla ricerca di un rilancio della propria personalità politica, ha necessità di presentarsi come soggetto unico nei confronti delle multinazionali (quasi tutte americane) che pagano tasse inadeguate; inoltre, in questo quadro, non può essere oscurata da un organismo sovrannazionale come l’OCSE/OECD, che sta indagando per conto proprio sul problema con l’obiettivo di definirei i rimedi necessari.
  3. La UE deve porre fine alle asimmetrie regolatorie che impongono norme fiscali alle imprese europee e non altrettanti vincoli alle multinazionali che operano in Europa, le quali godono così di un ulteriore vantaggio competitivo nei confronti delle imprese nazionali europee.

Ma su tutto ha prevalso il rilievo dato dal presidente della UE Jean-Claude Juncker, che della lotta alla evasione ed elusione fiscale ha fatto uno dei temi prioritari della sua campagna prima e della sue azioni da presidente della Commissione Europea poi.

Un ulteriore passo importante risale all’ottobre 2014, quando il nostro ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, in veste di presidente del Consiglio dell’Unione Europea, dichiarò che l’Europa aveva deciso di implementare nella UE nuove procedure globali di scambio di informazioni sulla base degli standard sviluppati dall’OCSE su incarico del G20.

E così, lo scorso 17 giugno la UE ha presentato il proprio Piano di Azione per una profonda riforma della tassazione societaria nella UE.

Il Piano prevede una serie di iniziative finalizzate a combattere l’elusione fiscale, garantire la sostenibilità del gettito e rafforzare il Mercato Unico delle imprese, anche a supporto della più generale strategia a sostegno del Digital Single Market, senza il quale l’Europa difficilmente potrà reggere il peso competitivo che proviene dalle imprese globali extraeuropee.

Quali le novità del Piano UE per combattere le “ottimizzazioni” fiscali delle multinazionali?

Tante, ma due di esse sembrano poter fare la differenza.

La prima è che viene affermata, con riferimento alle attività delle multinazionali in un Paese membro, la definizione di “stabile presenza digitale” in sostituzione alla precedente “stabile presenza”, facilmente aggirabile (non a caso le multinazionali hanno evitato persino di acquistare un box auto, pur di non incappare tra le maglie della “stabile presenza”)

La seconda si basa sul principio fondamentale secondo cui tutte le imprese – siano esse grandi o piccole, nazionali o mondiali – devono versare una giusta quota di imposte “nel luogo in cui si svolge l’attività economica reale e dove gli utili sono effettivamente generati.

Questi due principi inchiodano, in linea di principio, tutte le imprese multinazionali alle loro responsabilità fiscali.

 

Non solo OTT

Quali sono le imprese nel mirino?

Erroneamente si pensa subito agli Over-the-Top (da Apple a Facebook, da Google ad Amazon), perché sono sulla front-line dei prodotti e servizi immateriali, ma il problema è ben più ampio e il profilo delle società coinvolte è ben più articolato. Si pensi ai grandi colossi dell’informatica o anche all’area delle società venditrici di apparati e tecnologie (dove il focus si sposta spesso sui servizi immateriali come la manutenzione o la formazione, i cui costi irrimediabilmente lievitano).

Si calcola che vi siano complessivamente 1.000 miliardi di euro incassati da tutte queste società, che vengono tassati in media all’1-1,5%, grazie ai sotterfugi legali che consentono di eludere le normative nazionali.

Questo vuol dire che le imprese nazionali che pagano regolarmente le tasse nel proprio Paese di appartenenza, subiscono uno svantaggio competitivo immane: devono competere sul mercato con prezzi appetibili rispetto a quelli dei concorrenti che eludono le tasse, ma in più, i loro profitti vengono tassati a norma di legge a differenza di quelli prodotti dalle società che eludono e che quindi portano risorse altrove, spesso (o quasi sempre) senza investire e determinando inevitabili processi di desertificazione di competenze e di imprese sui territori ai quali sottraggono tali risorse.

Norme ad hoc e neutralità normativa: una contraddizione che va superata

Se è vero che tutti concordano sul fatto che le attuali normative non sono in condizione di assicurare allo sviluppo e alla crescita dell’economia digitale un corretto orientamento in materia fiscale, è anche vero che la maggior parte degli addetti ai lavori ritiene che non sia necessario fare norme ad hoc distinte da quelle dell’economia tradizionale, ma predisporre un unicum normativo capace di gestire gli aspetti fiscali delle imprese, indipendentemente se esse si occupino di beni e servizi fisici o immateriali.

E’ un comune sentire molto importante.

Il ricorso a misure fiscali personalizzate per il settore digitale snaturerebbe infatti le potenzialità di crescita che il mercato dei beni e servizi immateriali può assicurare alle economia nazionali.

L’economia digitale e globale si fonda sul principio operativo di una nuova modalità distributiva e commerciale di beni e servizi tradizionali e di beni e servizi nati proprio grazie alle opportunità offerte dal digitale.

L’una e l’altra circostanza possono essere agevolmente regolate attraverso una estensione e rimodulazione delle precedenti norme, con misure che semplicemente considerino il mutato scenario e si adeguino ad esso. Sarebbe, in sostanza, del tutto fuori luogo pensare a due distinte normative: una per la vecchia economia ed una per quella digitale.

Ne basta una sola, adeguata a normare ambedue.

E qui sorge un equivoco concettuale.

Il paradosso consiste nel fatto che molti tra coloro che sostengono la “neutralità tecnologica” (ovvero il libero trasferimento dei file attraverso la rete, indipendentemente dai contenuti) sono altrettanto convinti assertori delle distinzioni di principio tra vecchia e nuova economia e negano l’esigenza di una “neutralità normativa”, ovvero la necessità di avere un impianto normativo internazionale che non faccia differenza tra i due settori: quello dell’economia fisica e quello dell’economia digitale.

E allora cosa fare?

L’OCSE completerà le iniziative del BEPS entro la fine dell’anno in corso, poi ci vorrà un po’ di tempo prima che si veda qualcosa.

Ma la prima domanda da porsi è: potrà essere l’OCSE il contesto per riordinare il sistema di tassazione societaria in Europa?

Secondo alcuni gli standard che OCSE suggerirà potranno anche essere quelli giusti, ma il problema è che l’OCSE non ha alcun potere reale sulle scelte degli Stati, né può obbligarli a rispettare standard.

L’OCSE ha fior di studiosi e analisti capaci di misurare i fenomeni, monitorare gli andamenti e suggerire soluzioni, ma non potrà andare oltre.

Una volta indicati degli standard questi potranno essere adottati dai Paesi membri OCSE/OECD attraverso adesioni di gruppo o negoziazioni one-to-one.

Insomma nulla che obblighi una nazione ad adottare una norma comune ad altri paesi: l’OCSE può suggerire soluzioni, ma non può imporre il rispetto delle stesse.

Dei suggerimenti dell’OCSE/OECD farà di sicuro uso anche l’Unione Europea, che lo scorso giugno ha lanciato, come abbiamo ricordato, l’iniziativa dell’Action Plan in materia di tassazione delle imprese, anche in vista della strategia del Digital Sigle Market.

E la UE, come è noto, può imporre le proprie decisioni agli Stati membri.

Il vice Presidente della UE Vladis Dombrovskis, titolare del portafoglio Euro and Social Dialogue, ha precisato che: “…la tassazione delle imprese è responsabilità dei singoli Stati membri, ma la UE deve definire un quadro adeguato alle esigenze di tassazione delle imprese equo e competitivo”.

Un’affermazione che più che essere una istigazione all’autodeterminazione fiscale (cosa scontata, dal momento che in materia di politica fiscale gli Stati membri sono sovrani), sembra essere un monito a chi, tra gli Stati membri, volesse adottare atteggiamenti di chiusura a danno di altri Stati: come dire, se qualcuno si oppone, sappia che gli altri Stati potranno anche procedere per conto proprio, rendendo inefficaci i sistemi di incentivi con i quali sono state attratte le residenze fiscali delle multinazionali che praticano l’elusione fiscale consentita dalle manchevolezze di una normativa europea armonizzata (e che in questo caso verrebbero tassate due volte).

Le cose da fare stanno ormai emergendo dal confronto che si è sviluppato negli ultimi due anni.

Cosa farà l’Europa e, ancor di più, cosa farà l’Italia?

Quattro sono a nostro avviso le direttrici su cui muoversi:

  1. Le tasse devono essere pagate nel Paese dove si generano i profitti.
  2. Sancire, di conseguenza, in via definitiva il principio della “stabile organizzazione digitale”, che riconosce l’attività economica sostanziale di un’impresa in un Paese, anche se gestita e coordinata da altro paese.
  3. Sollecitare le forze politiche nazionali a prendere coscienza piena del problema.
  4. Evitare le soluzioni nazionali. Nelle scorse settimane 2 paesi, uno della UE (Gran Bretagna) ed uno extra-UE (Australia) hanno già adottato misure in proprio. Ma le iniziative individuali appaiono poco efficaci e indeboliscono l’Europa. La soluzione individuale di questo o quello Stato membro, infatti, rischierebbe di rendere politicamente più forte la manchevolezza fiscale delle imprese multinazionali.
  5. Sollecitare le rappresentanze internazionali del Paese ad esercitare tutte le possibili pressioni perché la UE affretti il passo nella definizione degli strumenti necessari a rimettere ordine in tutte le procedure relative alla tassazione delle imprese multinazionali digitali e non che operano in Europa.

Vedremo cosa accadrà.

Ma di sicuro non è più possibile consentire uno scenario in cui le tasse vengono richieste fino all’ultima lira al pensionato o all’impresa che riesce comunque a tener duro e non ad imprese multinazionali che sono sedute su trilioni di dollari.

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