recensione

Il futuro della televisione tra switch tecnologico e democrazia

di Fernando Bruno, Giornalista e scrittore |

A proposito dei processi di innovazione, di intelligenza artificiale e di un libro appena uscito.

Riflettendo sugli incessanti e tumultuosi processi di innovazione tecnologica che da qualche anno a questa parte incrociano e segnano il nostro vissuto quotidiano, questa prima metà del 2023 si farà ricordare per almeno per tre cose:

  • il rapidissimo sviluppo di tecnologie che coniugando immensa disponibilità di dati, calcolo computazionale e apprendimento automatico si candidano ad aprire nuove e impensabili frontiere all’affermazione e all’utilizzo generalizzato dell’intelligenza artificiale;
  • l’allarme e la diffusa e preoccupata reazione a siffatti sviluppi – con tanto di appelli e lettere aperte – che arriva dagli stessi ambienti che tali dinamiche hanno innescato;
  • il tentativo di risposta dell’UE sul piano regolamentare con la proposta di regolamento (AI Act) approvata dal Parlamento il 14 giugno scorso il cui varo dovrà ora superare il vaglio dei singoli Paesi membri in sede di Consiglio UE.

Come ricorda da ultimo con la consueta efficacia il mio amico Oreste Pollicino sulle pagine di luglio di “Formiche”, qualunque tentativo di regolamentare l’IA costituisce una scommessa perché “fotografare una realtà in continuo movimento è sicuramente meritorio, ma è rischioso e complesso”. E tuttavia questo sforzo va compiuto, perché l’IA segue un moto espansivo inarrestabile; perché molte delle sue applicazioni promettono di migliorare le nostre esistenze (si veda sull’ultimo numero di Science Robotic l’articolo di Duke e Cornell dell’Università di Auckland sull’introduzione di robot potenziati con l’IA per fornire ausilio agli anziani soli); ma soprattutto perché i suoi effetti (per esempio sull’offerta di informazione, sull’elaborazione di contenuti,  sull’orientamento delle opinioni pubbliche e la costruzione del consenso) possono essere devastanti nei riguardi di crescenti fette di popolazione sospinte nella marginalità, per le più diverse ragioni.

Questo, del rapporto tra processi di innovazione e crescente marginalizzazione di ampi strati di popolazione costituisce uno dei temi fondamentali, potrei dire il tema conclusivo, sicuramente il mio tema d’elezione, di un volume appena uscito per i tipi del Mulino, pubblicato con il prezioso apporto della Fondazione Astrid, che ho curato assieme ad uno stuolo di professionisti del settore (ingegneri, economisti, esperti di linguaggi mediali, sociologi), con introduzione di Franco Bassanini e conclusioni di Enzo Cheli.

Il volume si intitola, con una punta di voluta disinvoltura, La televisione del futuro e intende indagare dal punto di vista tecnologico, economico e politico-culturale, le prospettive del mercato televisivo nella transizione digitale.

Dopo aver lungamente argomentato sulle dinamiche tecnologiche e di mercato in corso sostenendo fondamentalmente che: i) il mercato dell’audiovisivo, anche nel nostro paese, è entrato da qualche anno in una fase di inarrestabile e irreversibile switch tecnologico che metterà in discussione, medio tempore, l’esistenza delle due piattaforme fino a pochi anni fa indiscusse protagoniste del panorama televisivo italiano, e che ii) lo switch in questione è trainato da dinamiche di mercato molto chiare i cui attori – dotati di una capacità di investimento senza eguali e di economie di scala inarrivabili – sono i grandi signori globali dello streaming (Netflix, Disney, Discovery, Comcast, Apple, Google, Amazon) al cui fianco, apparentemente impegnati a giocare una partita diversa, si collocano i grandi protagonisti delle piattaforme social (Facebook, Twitter, Instagram, TikTok) a vario titolo e intensità capaci di candidarsi al governo dell’informazione e della comunicazione disintermediata, il volume si sofferma a descrivere i fattori critici della transizione.

Non ripeterò ciò che nella Prima e nella Seconda Parte del saggio i miei colleghi di intrapresa (Vincenzo Lobianco e il suo panel di qualificatissimi ingegneri e Augusto Preta e Antonio Perrucci con il loro gruppo di autorevoli economisti) raccontano a proposito di queste due dinamiche.

Mi soffermerò invece su alcune conclusioni che ne traggo nei capitoli di cui sono autore, inseriti nella Terza e Quarta Parte del volume che ho curato assieme al mio amico Francesco Siliato, sotto la supervisione di Enzo Cheli.

Qui, con platonica o kantiana fiducia nel metodo dialettico, forti della consapevolezza che il miglior ragionamento è quello che procede per tesi e antitesi, si invita il lettore a riflettere su altre quattro dinamiche ugualmente in atto:

a) il processo di switch tecnologico sarà meno lineare di quanto abitualmente viene descritto e più complesso e lungo di quanto comunemente si pensi;

b) occorre fare molta attenzione agli effetti sociali di questo processo, sia in relazione al rischio di marginalizzazione di pezzi di società civile in situazione di divide economico e culturale, sia quanto alle conseguenze suscettibili di determinarsi in ragione delle dinamiche dei mercati coinvolti, dei processi concentrativi che ne derivano, della stessa prospettiva di dominio del nostro immaginario da parte di pochi signori dello streaming;

 c) è necessario guardare ai processi planetari di disintermediazione della comunicazione e dell’informazione, e capire quali reazioni e quali contromisure regolamentari adottare nei confronti delle piattaforme digitali e dei social network globali che – nella condizione di conoscere ogni più minuta abitudine degli utenti e di determinarne attitudini e propensioni – si candidano a governare i processi informativi, a formare le opinioni pubbliche dei prossimi decenni, a controllare i mercati pubblicitari e i mercati delle idee, sia nella forma classica dell’influenza dominante, sia in quella emergente di gatekeeper;

d) infine, e soprattutto, occorre imbastire una reazione adeguata rispetto a questi processi, per contrastarne, e se possibile invertirne, il senso di marcia. È il compito più sfidante per una politica degna di questo nome e per policy pubbliche capaci di mettere lavoro, istruzione, formazione, informazione, sostenibilità, diritti di cittadinanza, al centro della propria agenda. Nell’economia del libro, si tratta di un compito che spetta in primo luogo al servizio pubblico radiotelevisivo.

Per quanto stabilire equazioni fuori dal perimetro del ragionamento matematico possa esporre al rischio di qualche approssimazione di troppo, non si sfugge alla sensazione che le dinamiche di impoverimento che colpiscono porzioni crescenti della nostra società civile (e nel libro si parla al tempo stesso di povertà in senso stretto, ma anche di deficit di cultura digitale, di processi di invecchiamento e di emarginazione, di azzeramento dei consumi culturali), espongono pezzi rilevanti di opinioni pubbliche alle derive della disinformazione, dei linguaggi dell’odio, della polarizzazione irragionevole. Internet non è la causa, ma è certamente il mezzo, il terreno di coltura, ove questi fenomeni possono agevolmente espandersi e assumere dimensioni critiche per le nostre stesse democrazie, tanto più in una prospettiva di utilizzo sempre più massivo dell’IA.

In definitiva, e forse per la prima volta dalla fine della guerra fredda si percepisce in questa nostra parte di mondo – e gli scenari di guerra in Europa illividiscono il quadro – il carattere transeunte delle nostre conquiste democratiche; la necessità di consolidarle e difenderle; il dubbio sinistro che possa prevalere un pensiero di segno opposto, frutto dell’ineffabile saldatura tra un nuovo capitalismo globale, insofferente alle regole, e plebi senza bussola e senza domani; un pensiero che si alimenta del dubbio che forse non è vero che la democrazia politica sia il migliore dei mondi possibili. Il documento European Media Freedom Act reso pubblico dalla Commissione Ue il 16 settembre 2022 – un cui rilevante passaggio si concentra peraltro sul tema dell’indipendenza e della certezza delle risorse per i media di servizio pubblico – appare permeato da queste preoccupazioni.

Potremmo ripetere con Stiglitz che «la diseguaglianza è una scelta. Non è inevitabile». E a partire da questa elementare verità verrebbe da dire che qui in Italia, come ovunque, non esiste soluzione democratica di un qualsiasi processo – tantomeno del travolgente processo di innovazione tecnologica cui stiamo assistendo – se si lascia indietro, dal punto di vista culturale, economico e sociale, un terzo del paese. In questa prospettiva, pensare allo switch tecnologico che si sta realizzando nel mercato dei contenuti audiovisivi e al declino delle piattaforme tecnologiche mature a beneficio della piattaforma Internet, solo in termini ingegneristici o economici, costituirebbe un errore fatale. Perché questo passaggio inneschi dinamiche virtuose, e non si traduca in un indebolimento complessivo del tessuto democratico del paese, con i rischi che ne conseguono, occorre che la politica trovi e adotti le misure sociali, economiche e tecniche idonee a mettere ognuno nella condizione di esercitare i propri diritti di cittadinanza digitale.

In questi ultimi decenni abbiamo assistito a molte narrazioni autorevoli, alcune semplicemente fallaci, come la celebrata tesi di Fukujama sulla fine della storia, secondo cui, al chiudersi del XX secolo, crollato l’impero sovietico, avremmo assistito a un culmine irreversibile di civiltà e di trionfo della democrazia grazie alla definitiva vittoria del liberalismo (e del capitalismo); altre intenzionalmente mistificanti, come la teoria del trickle-down, l’idea cioè che è bene che i ricchi si arricchiscano sempre più, anche attraverso appropriate e ineguali politiche fiscali, perché a trarne beneficio sarà l’intera società civile, compresi i più poveri.

Si tratta di teorie di cui l’analisi storica ed economica – oltre che le evidenze dell’ultima crisi finanziaria globale e lo scenario devastante di una guerra guerreggiata nel cuore dell’Europa – hanno svelato l’illusorietà. Ciò che abbiamo sotto gli occhi è in realtà un pianeta che galoppa verso una vera e propria esplosione dei conflitti globali a tutti i livelli: aumento delle disuguaglianze; crescita dei conflitti locali, interetnici e religiosi; moltiplicazione delle falangi estremiste; espansione e perfezionamento di modelli antidemocratici persino ai margini e dentro l’Europa; derive di depauperamento delle risorse del pianeta; cambiamenti climatici connessi alla insostenibilità dei prevalenti modelli di sviluppo.

In questo contesto, i processi di innovazione tecnologica non sono affatto neutrali. Essi – per dirne una – sconvolgeranno, letteralmente il mondo del lavoro, e dunque le economie familiari e l’organizzazione sociale di milioni e milioni di persone. Spariranno intere categorie di lavori e di lavoratori, e non ci sarà un nuovo lavoro per tutti. Ci saranno sussidi, catene di prepensionamenti, espulsioni traumatiche. Tutto questo per molte persone significherà la perdita del senso di appartenenza a una comunità. Assisteremo all’acuirsi di un problema di coesione sociale, con quanto ne discende in termini di esplosione del dissenso, frammentazione delle rivendicazioni, tenuta del tessuto democratico.

Fronteggiare fenomeni di questa portata richiede soprattutto politiche sociali, welfare, lavoro, riforme profonde dei percorsi scolastici e formativi. Un ruolo, certamente minore, ma non secondario, spetterebbe tuttavia anche ai nostri mezzi di informazione. Ci sono molte buone ragioni per pensare che sia inutile affidare ai media un qualche compito in questa partita: grandi giornali (sempre meno grandi, peraltro) ormai infeudati a quel poco che resta del capitalismo familiare nazionale. Piccoli giornali, alcuni dei quali alla mercé di magri sussidi statali. La svolta digitale che tarda a realizzarsi anche per assenza di un modello di business sostenibile. Soprattutto, un servizio pubblico radiotelevisivo storicamente impigliato negli equilibrismi e nel piccolo cabotaggio imposto dai partiti di governo di turno.

Eppure – come il libro cerca di dire – ricostruire un immaginario collettivo, rinsaldare appartenenza e coesione sociale, fornire strumenti di discernimento è, e deve essere, anche compito dei media, e in primis di un servizio pubblico radiotelevisivo degno di questo nome. Il rispettabile esercito degli apoti di prezzoliniana memoria; le legioni di snob e disincantati che storcono il naso di fronte alla solita vecchia tirata sul ruolo insostituibile del servizio pubblico televisivo, ricorderanno che il secolo dei Lumi, prima ancora che sulle picche dei rivoltosi della Bastiglia, vinse la sua battaglia contro le monarchie di diritto divino d’Europa, allorché la cultura prese a uscire dalle corti, dalle accademie e dai monasteri, per farsi incontro alle persone, attraverso i giornali, i caffè, i circoli letterari.

Ciò che serve è una Encyclopedie per il terzo millennio, una cosa, per dirla con Diderot, «capace di sommuovere tutto, senza eccezioni e senza riguardi», come tutto sommossero, senza riguardi, «Il Caffè» dei fratelli Verri, il sarcasmo antinobiliare del Parini, la rivoluzione giuridica di Beccaria. Quale ruolo giocarono allora la cultura e i mezzi di informazione per far compiere passi giganteschi agli ordinamenti, alla società civile e a quel tanto di opinione pubblica allora nascente, è del tutto fuori discussione. Nel contesto che abbiamo inteso descrivere, di povertà vecchie e nuove, e di espansivi processi di esclusione sociale, esiziali per le sorti delle nostre democrazie, ritrarsi dal convincimento che, per contrastare queste derive, occorre puntare anche su una nuova stagione dell’informazione, e in particolare sul ruolo di servizi pubblici radiotelevisivi profondamente riformati, sarebbe un gesto di imperdonabile snobismo.

Forse non accadrà. Effettivamente non si vedono in giro forze ed energie in grado di rovesciare le derive dominanti. Eppure, non bisogna stancarsi di ripeterlo. Perché qualcosa dovremo fare accadere se non vorremo abdicare ai valori di democrazia e partecipazione faticosamente costruiti qui in Europa negli ultimi 80 anni. Può apparire illusorio pensare di invertire la rotta. Di sottrarre a Google, Facebook, Instagram e TikTok il loro fatale destino, ciascuno a suo modo, di dominus dell’informazione e della comunicazione globale. O di vincere la battaglia per la trasparenza e la negoziabilità degli algoritmi. O di assicurare un effettivo controllo umano sull’IA. Anche perché è probabile che per controllare quella incommensurabile potenza di calcolo serva un’eguale potenza di calcolo, essa stessa non umana, evidentemente. E però qualcosa va fatto. E questo qualcosa passa inevitabilmente per una forte presa di coscienza collettiva, per un lavoro culturale di lunga lena capace di svegliare la politica dal suo torpore e di ingaggiarla in policy pubbliche intese a restituire dignità e ruolo a eserciti di esclusi, altrimenti destinati ad abitare in numero crescente il campo dell’irrazionalità, della pseudo scienza e della pseudo informazione, dell’analfabetismo digitale.

In definitiva, parlare del futuro della televisione all’interno dei processi di innovazione digitale, è l’occasione per parlare del futuro delle nostre democrazie.