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Il “calcio malato” e le scommesse dei calciatori: “devianza” di pochi o “patologia” di molti ?

L’ “affaire” scommesse nel calcio che ha coinvolto diversi calciatori e anche la Nazionale segue ad altre vicende emerse nella storia recente e meno recente come l’uso di sostanze dopanti o il sesso “estremo” e che segnalano ancora una volta le debolezze e le fragilità di questo mondo sportivo che vanno indagate.

Al di là delle responsabilità che la giustizia sportiva verificherà e sanzionerà nei casi specifici per gli evidenti “conflitti di interesse” e “le pratiche corruttive” che ne discendono ci si deve tuttavia chiedere se quanto emerso nel calcio è la “devianza di pochi” o la “patologia di molti” e di cui noi tendiamo tuttavia a vedere solo la punta dell’iceberg avendo coinvolto calciatori di rilievo nazionale e internazionale di tipo professionistico, ma che chiaramente rappresenta fenomeni più estesi e profondi

Le informazioni diffuse sembrerebbero pendere più verso la seconda ipotesi e dunque alla necessità di capirne la natura e quali possibili soluzioni. In generale attorno al calcio – come noto – si affollano interessi miliardari (i diritti) ma anche interessi mediatico-politici per le saldature tra consenso e tifoserie e che lo pongono sotto i riflettori quotidiani dei grandi media planetari e che certo sottopongono a stress moltissimi dei soggetti coinvolti compresi i calciatori (spesso vittime) bersagliati anche da tifoserie violente e che le orribili vicende di Marsiglia di attacco ai pullman della squadra avversaria del Lione da parte di una minoranza di facinorosi confermano ancora una volta.

Ma è chiaro che la fonte di queste patologie diffuse sia nei fiumi di denaro che lo attraversa con effetti distorsivi diffusi (trasparenza, contratti, gestione sportiva) in un mondo dove i sistemi di valore e l’etica della responsabilità tendono a farsi fragilissimi per forme di corruzione diretta e/o indiretta che ne discendono e c’è da interrogarsi ancora una volta sulle ragioni.  

Limitandoci al caso scommesse, innanzitutto, si rileva uno stato di “isolamento sociale e culturale” nel quale vengono rinchiusi i calciatori che hanno spesso come unico contatto con il mondo esterno (oltre alla propria famiglia) solo il video di un cellulare. Non dimenticando che il tasso di istruzione media dei calciatori di Serie A é piuttosto basso con il livello di laureati inferiore al 4% e di diplomati che non supera il 50%. Quote bassissime rispetto ad altri sport per carriere che spesso iniziano in età scolare (primaria) e che portato poi a trascurare gli studi da parte innanzitutto delle famiglie e delle società sportive che guardano al futuro del giovane da un punto di vista del successo sportivo ed economico piuttosto che etico-culturale isolandolo fin dalla tenera età in bolle esistenziali distorsive di profili efficaci e adatti.

Un livello di istruzione e di cultura mediamente basso che dunque influenza poi il rapporto con lo stress e con le risposte alla pressione mediatica oltre che con bilanci personali elefantiaci il cui controllo è fragile e/o incompetente o delegato a “consulenti-procuratori” di scarsa lungimiranza.

Una condizione che porta molti calciatori a rispecchiarsi i solitudine nel solo video del loro cellulare e nelle pratiche da li accessibili per vincere noia e appunto stress disconoscendo forza e dinamica delle emozioni essendo il calcio l’unico “alimento vitale” di una esistenza tanto dorata quanto routinaria e isolata da altri interessi socio-culturali, spirituali o ambientali sotto le spinte asimmetriche di società sportive spesso interessate alle sole performance calcistiche.

Dimenticando che i calciatori sono innanzitutto persone  con emozioni e sentimenti  e che rappresentano spesso preziosi veicoli di educazione per milioni di persone e soprattutto bambini in tenera età. Da qui molte devianze e patologie non avendo questi sportivi “esperienze fortificanti” della vita oltre i campi verdi che ne potrebbero forgiare la mente e lo spirito e non solo il corpo per una crescita responsabile.

Le squadre di calcio sono spesso macchine complesse che sottovalutano (o sopravvalutato?) le capacità di adattamento dei calciatori pensando di fare il loro interesse “isolandoli in una bolla” autoreferenziale solo apparentemente lontana da distrazioni “esterne” ma incapace di trasmettere valori etici e comportamentali e il senso di una “vita buona”. Lavorando sulla separazione cartesiana tra corpo e mente, tra forza ed emozioni nella convinzione di rafforzare gli obiettivi di performance sportiva come negli “allevamenti intensivi“ con i risultati che conosciamo.

Mentre dovrebbero agire per monitorare costantemente la consapevolezza di questi sportivi che sono innanzitutto persone, con bisogni umani che non si risolvono nel solo “benessere economico” o dell'”apparire” in ostaggio di mondi mediatici a volte troppo intrusivi e distorsivi incapaci di rispettare privacy e bisogni pensando sia utile a qualche punto in più in classifica e al supporto distorsivo delle tifoserie (e a volte violento anche per inquinamento da criminalità organizzata utilizzata anche a scopi di consenso politico).

Ecco perché le squadre dovrebbero dotarsi di personale specializzato in psicologia e in psichiatria per mettersi in ascolto dei “malesseri” che galleggiano sotto la schiuma di un mondo dorato e sotto i riflettori per agire con interventi mirati e personalizzati ai diversi contesti personali e/o di squadra intesa come una comunità coesa e con una identità che sia rispettosa della dignità umana.

Evitando in questo modo le devianze più patologiche e soprattutto riducendo gli effetti di contagio che si riproducono in mondi relazionali spesso troppo fragili oltre che piccoli e ristretti, culturalmente ed eticamente poveri e asfittici. Le squadre di calcio più avanzate infatti si sono dotate da tempo di strumenti educativi e formativi capaci di produrre “sense making” per trasmettere identificazione, senso di lealtà e rispetto, verso se stessi, la squadra e gli altri, oltre che verso il pubblico dei tifosi con una adeguata compliance.

Questa la strada da percorrere per aiutare questi sportivi a prendere consapevolezza dei contesti nei quali operano (e dai quali spesso devono difendersi) per crescere nella responsabilità. Contesti che non sono fatti solo di campi di calcio, spogliatoi, prime pagine sportive sulla stampa e cellulare, ma di una vita vera e autentica alimentata da valori etici e di responsabilità verso di sé, la propria famiglia, il pubblico dei sostenitori/ tifosi e le istituzioni del calcio al servizio di una “vita sana” che valga la pena di essere vissuta. Dunque, squadre che sappiano aiutare questi calciatori a relazionarsi con il mondo che li circonda e non a separarsi da questo pensando di migliorare le loro performances.

Una ossessione nello sport professionistico e non solo (vedi caso recente dei metodi “inumani” adottati per la ginnastica artistica femminile) che le neuroscienze e la psicologia comportamentale smontano da anni, spesso inascoltate. Infatti, è solo ricongiungendo questi sportivi con il loro contesto e con la realtà che si potranno migliorare anche le loro performance aiutandoli a riconoscere e governare le proprie emozioni, separando le negative dalle positive e costruendo – su queste ultime – sentimenti forti di identità personale e di spirito di squadra per divenire esempi di sport e di vita nelle comunità.

Per esempio, legando le attività delle società e degli sportivi al volontariato sociale e/o ambientale come attori di una crescita civica alleviando le tante sofferenze (negli ospedali, nelle carceri, nella scuola) che può essere di aiuto ai calciatori a capire la realtà in cui vivono sentendosi utili e non solo “adorati o santificati” oppure usati come nel marketing del consumismo di massa.

Valorizzando così lo sport come fonte di civismo solidale e coesivo trasformandolo in un cantiere di “umanità partecipata nuova, attiva e viva” in un mondo sostenibile dove non si debba solo vincere ma soprattutto partecipare come nel messaggio olimpico. Producendo in questo modo un benessere che non è solo fisico e mentale ma anche cognitivo, culturale e spirituale, perché le doti fisiche (con le hard competences) non sono mai separabili dalle virtù (e dalle soft competences).

Ma se le prime sono un dono da proteggere e curare, le seconde vanno formate, coniugandole in uno “sportivo sano” che per esserlo dovrà diventare innanzitutto un “uomo/donna consapevole e responsabile” per il quale i goal in campo si possano accoppiare con i goal nella vita e viceversa in un calcio come industria sana, trasparente e formativa.

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