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I dazi di Pirro, gli USA ci rimettono più di tutti con queste politiche commerciali. Il report OCSE

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L’OCSE stima che oltre il 2% del PIL mondiale è ora soggetto a nuove tariffe, con i consumatori e le imprese USA a sostenere gran parte del costo dei dazi, che sono raddoppiati oggi del 50% su acciaio e alluminio. Il PIL reale degli Stati Uniti è previsto in calo all’1,6% nel 2025. Il documento.

Trump, i dazi e la vittoria di Pirro

Il rilancio delle politiche commerciali protezionistiche negli Stati Uniti, volute fortemente dal Presidente Donald Trump, ha avuto conseguenze di vasta portata, sia all’estero, sia in patria. Contrariamente all’obiettivo di rafforzare l’industria nazionale, l’OECD Economic Outlook di giugno 2025 rivela che sono proprio gli Stati Uniti a sopportare il peso economico maggiore della guerra commerciale da loro stessi avviata.

Trump sono settimane che parla di “vittoria” per gli Stati Uniti, o almeno lui così la racconta, di un’economia americana che non è mai stata così in salute e di un futuro radioso per i lavoratori.

Più passa il tempo, però, più questi risultati ricordano la celebre “vittoria di Pirro”, tanto costosa, da mettere a repentaglio il raggiungimento dell’obiettivo finale, cioè un’ipotetica supremazia su tutte le altre economie da ottenere tramite misure protezionistiche.

A dimostrarlo sono le stesse dinamiche e le conseguenze sia giudiziarie, sia macroeconomiche di questa strategia autolesionista, che sono sotto gli occhi di tutti ormai, con particolare attenzione all’inflazione, alla disincentivazione degli investimenti e alla frammentazione delle catene di approvvigionamento globali.

Raddoppiano i dazi su acciaio e alluminio

A metà 2025, il tasso tariffario effettivo sulle importazioni statunitensi ha raggiunto il 15,4%, il livello più alto dal 1938. Le tariffe sulle merci cinesi sono aumentate di 30 punti percentuali e incrementi simili sono stati estesi a Messico, Canada e altri partner commerciali.

Questa politica segna una rottura netta con la liberalizzazione commerciale, ma le conseguenze — come evidenziato dai modelli dell’OCSE — sono allarmanti.

Dalla mezzanotte di oggi sono entrati in vigore, inoltre, con ordine esecutivo firmato da Trump, i novi dazi su alluminio e acciaio importati negli Stati Uniti, passati dal 25 al 50%.

Secondo il presidente americano, “queste nuove tariffe saranno più efficaci nel contrastare l’eccesso di produzione a basso costo proveniente da paesi stranieri, che sta minando la competitività delle industrie siderurgiche e di alluminio degli Stati Uniti“.

Sebbene i dazi doganali finora imposti abbiano fornito un sostegno essenziale ai prezzi sul mercato americano, essi non hanno consentito a queste industrie di sviluppare e mantenere un tasso di utilizzo delle capacità produttive sufficiente alla loro sostenibilità e in vista delle esigenze della difesa nazionale“, è scritto nel decreto.

I dazi creano o distruggono posti di lavoro?

Un’analisi eseguita nel 2020 ha stimato che i dazi del primo mandato di Trump hanno creato circa 1.000 posti di lavoro nell’industria siderurgica, ma sono costati all’economia 75.000 posti di lavoro in altri settori, come quello manifatturiero e quello edile.

Il manifatturiero americano ora vedrà aumentare i prezzi dell’acciaio importato e questo comporterà un incremento dei prezzi dei prodotti siderurgici richiesti sul mercato interno, con conseguente aumento dei costi per molti settori chiave dell’economia americana, non ultime per le famiglie americane.

La produzione interna di acciaio negli Stati Uniti è calata da 87,8 milioni di tonnellate nel 2019 a 82 milioni nel 2022. Gli Stati Uniti rimangono tra i primi cinque Paesi al mondo maggiori produttori di acciaio grezzo, ma è la Cina il campione del settore, controllando la metà della produzione mondiale, che nel 2022 ha raggiunto 1,9 miliardi di tonnellate.

Secondo dati del Dipartimento del Commercio, gli USA importano il 26% dell’acciaio di cui hanno bisogno e il 44% dell’alluminio, si legge su Semafor.

Inflazione, rallentamento della crescita e crollo della fiducia

Da un punto di vista macroeconomico, si possono notare diversi fenomeni di particolare rilievo economico e finanziario che il Report evidenzia molto chiaramente.

1. Shock Inflazionistico

Le tariffe hanno aumentato direttamente il costo dei beni importati, soprattutto intermedi e di consumo. Il risultato è un’impennata dell’inflazione: l’inflazione core negli USA è attesa al 3,9% entro il Q4 2025, mentre nei Paesi del G20 è in calo.
Le simulazioni dell’OCSE stimano un aumento dei prezzi al consumo tra 1,4 e 2,2 punti percentuali, a seconda della strategia di pricing dei rivenditori.

Questa dinamica inflattiva ha complicato le scelte della Federal Reserve, che non può ridurre i tassi d’interesse come stanno facendo molte altre banche centrali.

2. Rallentamento della Crescita

Paradossalmente, mentre l’obiettivo delle tariffe è proteggere l’economia interna, queste hanno eroso la crescita. Il PIL reale degli Stati Uniti è previsto in calo dal 2,8% nel 2024 all’1,6% nel 2025, con una crescita trimestrale che toccherà solo l’1,1% nel Q4 2025.

Gli investimenti si sono contratti, in particolare nei settori sensibili al commercio internazionale, penalizzati dall’incertezza e dalla volatilità nei costi delle forniture.

L’OCSE stima invece la crescita globale al 2,9% per l’anno in corso.

3. Effetti sulla Fiducia

La fiducia dei consumatori statunitensi è crollata in concomitanza con l’aumento dell’incertezza politica. Gli indici di fiducia delle imprese mostrano anch’essi un peggioramento, con cali negli ordini e aspettative occupazionali in discesa.

I dazi impattano sul 2% del PIL globale

Anche se altri Paesi hanno risposto con misure di ritorsione, l’impatto è stato maggiore proprio per l’economia statunitense. L’OCSE stima che oltre il 2% del PIL mondiale è ora soggetto a nuove tariffe, con i consumatori e le imprese statunitensi a sostenere gran parte del costo.

Inoltre, le catene di approvvigionamento si stanno riorientando, e i partner commerciali stanno cercando alternative regionali. Si assiste a una “de-americanizzazione” delle reti globali.

Prospettiva di mercato e raccomandazioni politiche

Dal punto di vista dei mercati finanziari, la guerra commerciale ha introdotto un nuovo premio per il rischio sugli asset statunitensi. Le imprese esposte al commercio globale sono penalizzate in Borsa e i mercati obbligazionari riflettono un aumento del rischio di credito tra le società più indebitate.

Le raccomandazioni di policy includono:

  • Revoca immediata delle tariffe più distorsive, con impatto minimo sull’industria ma costo elevato per i consumatori.
  • Rilancio del multilateralismo commerciale, tramite accordi che riducano le barriere e ristabiliscano regole condivise.
  • Investimenti mirati in produttività e innovazione, anziché nella protezione di settori strutturalmente non competitivi.

Il crollo delle esportazioni USA e della domanda interna

I grafici di Bloomberg, realizzati a partire dai dati del Bureau of Economic Analysis, mostrano un crollo record delle esportazioni nette degli Stati Uniti nel primo trimestre del 2025, il calo più drastico mai registrato, rafforzando l’allarme dell’OCSE secondo cui la politica commerciale di Trump sta danneggiando in modo sproporzionato l’economia statunitense.

L’allarme giunge in concomitanza con altri crescenti segnali di tensione economica. L’ indice ISM delle importazioni manifatturiere è appena sceso a 39,9, il valore più basso dal 2009, il chiaro segnale di un crollo della domanda, come ha fatto notare Caterina Baab su qz.com.

Lo S&P 500 è in ritardo rispetto alle azioni globali di oltre 12 punti percentuali da inizio anno, la sua peggiore performance relativa dal 1993.

La guerra commerciale del 2025 rappresenta un chiaro esempio di politica economica autolesionista. L’OCSE lancia un messaggio inequivocabile: il protezionismo, nella realtà interconnessa di oggi, finisce per danneggiare in primis chi lo applica. L’economia statunitense, colpita da inflazione, crescita rallentata e perdita di fiducia, ne è la prova.

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