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Governo “garante” della rete unica? Ma chi ci mette i soldi e in mano a chi rimane l’infrastruttura?

Il dibattito sulla rete unica continua a svolgersi con modalità irrituali e dando per scontate circostanze che risulterebbero in altri contesti del tutto inverosimili. E ogni giorno si rischia di leggere affermazioni che in via ordinaria non verrebbero considerate come plausibili.

Ad attirare la nostra attenzione sono oggi le affermazioni di Salvatore Rossi, presidente di TIM. Su quale argomento? Ma rete unica naturalmente.

I divari digitali e tecnologici vanno colmati, la disponibilità della connessione e dei mezzi per usarla va diffusa. Uno strumento per fare questo è la cosiddetta rete unica. Una questione che è di interesse specifico del Paese tutto. Si tratta di un interesse pubblico strategico, ed è giusto che sia il governo a farsi promotore e garante di questa rete”.

Questo quanto riportato da La Stampa di Torino che ha riportato quanto affermato da Salvatore Rossi all’evento “L’alfabeto del futuro” promosso dal quotidiano torinese in collaborazione con la GNN (Gedi News Network).

Le affermazioni del presidente di TIM potrebbero sembrare fuori dalle righe se non fosse per il fatto che l’intero argomento è fuori controllo: “Il Re è nudo”, ma non c’è nessun giovane suddito a gridarlo alla testa del corteo.

Rete unica si, ma chi ci mette i soldi? E chi controlla?

Secondo Salvatore Rossi, il governo dovrebbe essere “promotore” e “garante” di una rete finanziata con soldi pubblici (presi anche dal Recovery Fund, immaginiamo, da qui forse l’esigenza di garanzia) e messa in mano a chi? Il presidente di TIM non pare molto chiaro al riguardo.

Ora, dal momento che il governo pro-tempore sta perorando, per parte rappresentativa della propria compagine, un progetto di rete unica in capo a TIM, proviamo noi a semplificare, perché il ragionamento può ridursi a pochi concetti:

Non esiste da nessuna parte al mondo una condizione in cui lo Stato (attraverso il governo in carica):

  1. gestisca soldi pubblici per
  2. fare investimenti pubblici e
  3. consegnare poi (regalandola?) l’infrastruttura all’azienda privata che l’ha realizzata con soldi pubblici, in barba a qualunque regola elementare di ordinaria concorrenza.

I soldi pubblici e gli investimenti pubblici non possono essere usati come un servizio agli azionisti di una singola azienda privata e per di più con una percentuale di azionisti esteri pari al 75%.

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