l'analisi

Gogna mediatica e odio online, i dubbi che dovrebbero venirci prima di fare click

di Roberto Bortone, Sociologo, esperto di fenomeni discriminatori e odio on-line |

Non lasciamo che siano gli algoritmi oppure, ancora peggio, soggetti malintenzionati, a decidere quale informazione sarà usata contro di noi nella vita reale. Serve educazione al digitale per tutti, per chi usa i social media, per chi esercita la professione di giornalista, per chi ha milioni di follower.

Ognuno di noi, al di là della suo essere più o meno nativo digitale, del suo uso quotidiano o sporadico dei social, mosso da un mix sdegno e indignazione, ha sperimentato almeno una volta nella vita la tentazione di “denunciare” online un episodio, una circostanza personale di cui siamo stati vittime o testimoni. Potremmo fare centinaia di esempi. Eppure, se ci riflettiamo, sono più le volte che alla fine non lo abbiamo fatto, resistendo alla tentazione di quel click. Perché? Rispondere onestamente a questa domanda potrebbe aiutarci a comprendere alcune dinamiche che si avviluppano attorno alle tragiche vicende a cui stiamo assistendo in questi giorni.

C’è il video del gatto Grey lanciato – e non ucciso, si badi bene – nella fontana ad Alberobello da una ragazza sedicenne, della quale sono circolati nome, cognome e fotografia,  suscitando reazioni tanto forti da arrivare a minacciare di morte lei e tutte le omonime presenti in Rete.

Per passare alla vicenda ben più tragica di Giovanna Pedretti, ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano, prima esaltata da migliaia di like e commenti per aver stigmatizzato una recensione discriminatoria – “esempio di umanità da seguire” – anche di ministri e politici, poi nel mirino degli haters per essersi inventata tutto e, infine, morta suicida. Era finita al centro di quello che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han definisce come lo sciame digitale senza anima, che “si forma rapidamente ed altrettanto rapidamente si dissolve”. La maggior parte di coloro che hanno partecipato a questi veri e propri raid, ai “due minuti di odio” per dirla con Orwell, lo hanno fatto animato spesso dalle migliori intenzioni, sinceramente convinti che qualcuno si sia comportato male e che quindi si abbia il dovere di correggerlo, pubblicamente. Il problema è che l’effetto ottenuto è peggiore della causa, perché si mira sulla persona e non sul comportamento da stigmatizzare.

Come ha scritto Mons. Zuppi, da tempo particolarmente attento a questi temi, la Rete è divenuta “una sorta di eternità senza perdono. Si può essere inchiodati a un momento della propria vita, a un errore, a una frase (…) e l’odio sa come utilizzare tutto questo”. Ecco perché bisogna contare fino a dieci prima di fare “quel” click. E bene ha fatto il Sindaco di Alberobello ad appellarsi al buon senso, scrivendo quanto sia importante “cessare anche la gogna mediatica perché ogni tipo di violenza anche verbale, al pari dei gesti che attentano alla sicurezza degli esseri viventi, umani o animali, non rappresentano un comportamento civile da parte di una Comunità che – da sempre – si è distinta per accoglienza e comprensione, valori e principi etici e morali che l’hanno resa Patrimonio mondiale dell’Umanità». 

I social media danno sfogo ad una “sottocultura della denuncia”, nella quale una parte degli utenti più attenti dei social media, anche tra coloro che si professano più sensibili ai temi della discriminazione e dei diritti, protetti dall’anonimato della loro tastiera, hanno manifestato comportamenti brutali e un’aggressività straordinarie, pari a quella delle loro anonime controparti, guidati dal desiderio di scomunicare e condannare, da quello pedantemente accademico di essere i primi a individuare un errore o da quello di essere parte delle persone che “contano”.  Alcuni recenti studi di psicologia comportamentale hanno dimostrato che, sebbene siamo abituati a pensare che manifestare oltraggio morale su questioni oggettivamente condannabili sia una forma altruistica di comportamento, quando tale manifestazione avviene sui social media è bene tenere in mente che chi manifesta con una certa frequenza e, soprattutto, con virulenza, probabilmente ha in mente anche il vantaggio personale prodotto da tale forma di autopromozione.

I processi digitali a cui abbiamo assistito sono un’evoluzione (o involuzione) di quelli televisivi a cui eravamo abituati da anni. Tuttavia, affinché raggiungano una virulenza tale da trasformare non-notizie in qualcosa di notiziabile, pruriginoso ed emotivamente acchiappa-click, il mondo del giornalismo “tradizionale” deve metterci il suo, rimbalzando la notizia. È così che in un mondo sconvolto dalle guerre, dal clima impazzito, dalla crisi delle democrazie e dalle sparatorie nelle periferie abbandonate, il desiderio di schiacciare tutto sulla cronaca cerca le sue vittime e compie le sue traiettorie, trasformando atteggiamenti deplorevoli in notizie da prima pagina. Al di là degli eccessi attribuibili al debunking, l’altro aspetto che emerge è che molte testate controllano sempre meno fonti e veridicità delle notizie.

In conclusione, cosa resta da fare? In una sola parola: consapevolezza. Nel tempo dei social media tutto è pubblico, anche un messaggio inviato su una chat personale di WhatsApp. E non sarà solo ciò che noi abbiamo scritto a definire o compromettere la nostra reputazione (online come offline) ma quello che, all’occorrenza, verrà estrapolato dal contesto e pubblicato successivamente.

Non lasciamo che siano gli algoritmi oppure, ancora peggio, soggetti malintenzionati, a decidere quale informazione sarà usata contro di noi nella vita reale. Serve educazione al digitale per tutti, per chi usa i social media, per chi esercita la professione di giornalista, per chi ha milioni di follower.