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G20 e clima, una grande ipocrisia

Il G20 appena conclusosi a Roma, vale un famoso aforisma di Ennio Flaiano: “la situazione è grave ma non è seria”. Flaiano si riferiva alla politica italiana, ma, a distanza di quasi sessant’anni, quel caustico giudizio può bene attagliarsi alla sagra delle banalità celebrata nella capitale italiana in occasione del G20, con uno spiegamento di inutili mondanità mai visto prima. Tant’è che anche le manifestazioni di protesta parevano finzioni inventate dai coreografi dell’evento. I media, con in testa la tv di Stato, tutti adoranti ed inebetiti dinanzi agli insignificanti dettagli di una messa in scena degna della migliore commedia hollywoodiana. Una sorta di “isola dei famosi” dedicata ai potenti (pardon, ipocriti) della Terra, che però non dovevano superare alcuna prova per procurarsi da mangiare.

La sintesi l’ha fatta il presidente francese Macron sul tema più scottante, i cambiamenti climatici: gli USA, dopo l’abiura di Trump, ritornano negli accordi di Parigi; un auto-elogio dell’UE divenuta pioniera della svolta green a suon di miliardi da regalare ai soliti noti; parole incoraggianti per i paesi recalcitranti, come Cina, India e Russia; la speranza di un impegno da concretizzarsi alla appena iniziata conferenza di Glasgow, per impedire che nei prossimi decenni la temperatura del pianeta non si alzi più di 1,5 gradi (!). Tutto qui. Tanto baccano, tanto sfarzo, tanto dispendio per nulla.

Il pianto dei coccodrilli occidentali (USA ed UE in prima linea), che dopo anni di tracotante negazione dei cambiamenti climatici, di arricchimenti illeciti sulla pelle del Pianeta, di furti delle risorse dei paesi poveri, suona grottesco: gli ex padroni del mondo vorrebbero dettar legge a quegli altri stati che hanno solo la colpa di imitarli, l’ambizione di raggiungere il loro stesso livello di consumi, il desiderio di un identico stile di vita. È la più smaccata messinscena dall’era delle commedie plautine. Tant’è vero che i potenti della Terra con relative consorti hanno scelto proprio gli antichi monumenti dell’Urbe come scenografia per le loro esilaranti recite.

Perché mai Cina, India, Russia e via via tutti gli altri, dovrebbero dismettere i loro imponenti impianti di produzione energetica da combustibili fossili? Proprio loro che hanno le materie prime, che possono contare sulle economie più performanti, che si stanno comprandosi il mondo. Proprio loro che hanno miliardi di sudditi cui noi occidentali abbiamo inculcato il desiderio di consumare di più, l’idea che a contare fosse solo il PIL, la tesi che senza crescita non può esservi benessere. Ditemi, Draghi, Biden, Merkel, Macron, perché Xi Jimping, Modi e Putin dovrebbero prendere ordini da voi? Senza contare l’America Latina e l’Africa: nei tanti Sud della Terra la gente non è ancora sazia e bulimica come qui da noi e per far crescere il PIL ha bisogno di sempre più energia!

E intanto che voi vi improvvisate commedianti (ma in fondo lo siete sempre stati), gli ultimi dieci anni sono stati in assoluto i più caldi della storia – come emerge da dati resi pubblici di recente dalla NASA e dalla NOAA – causa l’effetto serra prodotto dalle emissioni di CO2 provenienti dalle nostre fabbriche del superfluo, dalla nostra ingordigia, dalla endemica incapacità dell’uomo di scegliere la sobrietà come stile di vita, come si ostina a predicare l’inascoltato ex presidente-contadino dell’Uruguay José Alberto Mujica. Lo scioglimento dei ghiacci sta producendo l’innalzamento del livello dei mari e l’inondazione di intere regioni costiere. Le catastrofi naturali estreme sono ormai all’ordine del giorno anche in regioni, come il Mediterraneo, che non le aveva mai conosciute. La desertificazione, la distruzione delle grandi selve tropicali e di quelle boreali avanza indisturbata. Interi popoli attanagliati da carestie, guerre, cambiamenti climatici migrano da sud a nord, invadono quegli stessi stati che per secoli hanno depredato le loro terre con il colonialismo prima e col neo-colonialismo ora.

Ma di queste cose si dibatte da anni inutilmente. Nel 1974, l’ecologo Lester Brown fondò a Washington il Worldwatch Institute, che dal 1984 pubblica un annuale rapporto significativamente denominato “State of the World” e da sempre è impegnato sulle problematiche globali, primi fra tutti i cambiamenti climatici. In Italia, sul pericolo che correva e che corre la Terra, sarebbe bastato seguire le indicazioni del compianto Aurelio Peccei, fondatore del “Club di Roma”, che nel 1981 diede alle stampe un libro fondamentale del titolo “Cento pagine per l’avvenire”, o tenere in seria considerazione l’allarme lanciato da Aldo Sacchetti nel suo libro del 1985 “L’uomo antibiologico”.

Fatto sta che mentre la messinscena dei potenti della Terra nella città eterna andava in onda a reti unificate e stolidamente compiaciute, già si pensa a nuovi mondi da colonizzare negli spazi siderali, poiché nessuno di quei potenti ipocriti pensa “seriamente” (per tornare a Flaiano) di voler salvare il nostro piccolo Pianeta Azzurro. Scriveva l’antesignana dell’ecologismo americano Rachel Carson a conclusione del suo famoso libro “Primavera silenziosa”, nel 1962: “«Il controllo della natura» è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’«Età di Neanderthal», quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo.” 

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