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Fintech e social lending: la tempesta perfetta sul vecchio sistema bancario

Social lending

L’innovazione tecnologica finanziaria in atto, la cosiddetta Fintech, mira a cambiare radicalmente il modo in cui i consumatori si avvicinano e si relazionano ai servizi finanziari.

Da un lato, con l’aumento dell’accesso alle informazioni, gli utenti sono più tech-savvy del passato, e si trovano nelle condizioni di prendere decisioni migliori, con maggiore conoscenza finanziaria e consapevolezza dei rischi. Dall’altro, i player emergenti non utilizzano le infrastrutture tecnologiche bancarie esistenti, basandosi invece su reti peer-to-peer, sulla comunicazione crittografica o su soluzioni cloud ed acceleratori di infrastruttura a basso costo (come ad esempio succede per il Bitcoin o M-Pesa in Kenya, per quanto riguarda le cripto-valute, e come storicamente è avvenuto per i servizi di pagamento Visa, Mastercard, Paypal e come avviene ora per Square).

 La rubrica Fintech, in collaborazione con l’Avv. Giulia Aranguena di ADLP Studio Legale e la redazione del blog Iuslab, approfondisce i temi dell’innovazione tecnologica in ambito bancario e finanziario e le nuove tendenze di mercato in questo settore. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Ne risultano ridotti i tempi, i costi e l’attrito dell’esecuzione delle transazioni. Si disintermediano le barriere della fiducia, familiarità e credibilità di un operatore convenzionale. E si abbattono le tariffe sulle transazioni attraverso l’utilizzo di pochi beni strumentali e di un management low cost, fatto cioè di middle-man ugualmente affidabili ma molto meno costosi.

La disintermediazione operata dagli attuali sfidanti Fintech incide sia sui modelli di business, sia sui sistemi di organizzazione del lavoro dei fornitori storici di servizi bancari e finanziari. E questo processo, più conosciuto nel settore dei prestiti peer-to-peer (ancorché non limitato a questo), pare inarrestabile, con sempre più consumatori disposti ad utilizzare i nuovi soggetti malgrado i limitati livelli di compliance e la mancanza di garanzie statali a protezione dei depositi al dettaglio (derivante dalla natura non bancaria dei nuovi soggetti).

Dunque, non può che dirsi apertamente come la nuova tecnologia finanziaria stia muovendo una sfida competitiva ben precisa al vecchio sistema bancario.

Giova sottolineare in proposito che la Deloitte, in un suo recente rapporto, non esiti a definire l’avvento della Fintech come “real danger” o “banking disruption”, in grado di minacciare tutto il sistema della banca retail (soprattutto europea) in maniera completamente diversa rispetto alla fine degli anni ’90, quando Internet divenne un canale commerciale e vi fu l’invasione dei mercati mobiliari.

Una sfida quest’ultima, che la Deloitte stessa invita caldamente i banchieri a non vedere in maniera scettica o dall’alto della loro storica capacità di resistere ai cambiamenti (come accadde con la reazione dell’home banking a seguito di quanto avvenuto con la “commercializzazione di Internet” tra la fine degli anni ‘90 e il 2000); e ciò, considerato che i nuovi sfidanti Fintech sono molto più forti dei loro predecessori 1.0, e l’innovazione tecnologica è diventata talmente più diffusa di prima da mettere in serio pericolo la sopravvivenza dello stesso modello di banca integrata ed universale.

In un articolo apparso su Formiche il 21.12.2014, a commento delle operazioni di collocamento delle due famose piattaforme di social lending, il Lending Club e OnDeck, sono state riportate alcune delle ragioni (indicate dal Financial Times) per cui le banche non debbono più avere un atteggiamento passivo nei confronti di un fenomeno, che solo per il momento può definirsi ancora di “nicchia”.

Ma non si coglie nel segno se il quadro di riferimento rimane limitato, come accade in Italia, alle sole attività di prestito tra privati via Internet o ai sistemi di pagamento elettronico, sottovalutando l’intera portata del cambiamento strutturale in atto sui servizi finanziari nel loro complesso.

Come scritto in una ricerca della Deutsche Bank, dal titolo Fintech – The digital (r)evolution in the financial sector, la nuova tecnologia finanziaria sta investendo strutture, vantaggi competitivi, processi organizzativi e modelli di business facendo emergere una questione di tipo strategico fondamentale, che non può più essere gestita dai soli reparti IT delle banche come è stato sino ad ora.

La somma dei cambiamenti derivanti su tutto il processo di creazione del valore, infatti, costituisce un cambiamento di paradigma e come tale va considerato, se si vuole evitare che una “tempesta perfetta” si abbatta sulla catena del valore del banking integrato con una spinta competitiva mossa su più fronti – incluso quello monetario derivante dal nascente mercato delle cripto-valute, e che sembra idonea a travolgere tutte quelle tipiche funzioni che le banche commerciali hanno svolto storicamente (offerta monetaria e di strumenti di pagamento, funzione creditizia e tutela del risparmio).

D’altronde, in molti settori e in molte aziende tradizionali ci si è ormai resi conto da tempo della necessità di seguire la rivoluzione digitale per rimanere competitivi per il futuro. E questo è quello che deve accadere anche nel settore finanziario, consapevoli del facile parallelo con quanto accaduto in questi anni nel settore dei media tradizionali –  soprattutto, giornali e riviste -, nel quale gli operatori hanno ricevuto per lungo tempo profitti oligopolistici e si sono cullati su un (falso) senso di superiorità rispetto a player emergenti organizzati con pratiche manageriali molto più povere ed efficienti.

Quindi, nonostante le ricadute della crisi finanziaria – ossia malgrado quello che la Deloitte chiama la stanchezza derivante dalla lunga gestione del periodo di crisi finanziaria e dall’applicazione dello “tsunami regolatorio” che le ha investite in questi anni – il settore bancario deve accettare la lotta di generare rendimenti superiori al costo del capitale investito accaparrandosi una clientela più tech-savvy e consapevole del passato; e che ha già manifestato che non ha più bisogno di una banca universale, bensì di rapporti più stretti, di assistenza sulle questioni finanziarie e di soluzioni che soddisfino la domanda di mobilità, networking, comunicazione, e interazione.

Gli specialisti della Deloitte e della Deutsche Bank – nei documenti sopra menzionati, di cui si consiglia la lettura – danno la loro ricetta sintetizzabile, in entrambi i casi, nella necessità per il settore bancario e finanziario tradizionale di mettersi le mani in tasca ed investire, dopo aver individuato gli aspetti ancora sostenibili dei vecchi modelli di business e deciso di valorizzare il patrimonio informativo proveniente dalla loro clientela e dalla loro tipica presenza sul territorio; entrando in una più stretta collaborazione con i leader dell’innovazione e ideando prodotti più specifici e magari anche trans-nazionali.

Ma a proposito di ricette, il ragionamento non sarebbe completo se non si considerasse anche un aspetto più generale, diretto non tanto agi operatori quanto piuttosto ai regolatori ed alla politica.

Ecco perché è particolarmente interessante quel che ha scritto per il suo Blog su Finextra, Brett King il tecnologo australiano, fondatore di Moven, autore di numerosi best seller come Bank 3.0 e ideatore per Voice of Amercia del programma radiofonico, Breaking Banks”. Brett King, sottolineando l’abnorme disparità tra la compliance patrimoniale richiesta ai banker tradizionali per sostenere i depositi (facendo l’esempio della capitalizzazione di JP Morgan), rispetto all’assenza (o quasi) di vincoli delle start-up di Fintech sostenute da Venture Capital,  ha fatto una considerazione che, specie in Europa, dovrebbe essere soppesata con tutta l’attenzione possibile, dato che per lui con gli eccessivi vincoli regolatori si finanzia la compliance e non certo la crescita.

Ed è forse per questa maggiore leggerezza rispetto ai pesi regolatori europei che Londra pare in procinto di decollare di nuovo!

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