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Fintech. ‘Buone prospettive per il crowdfunding italiano’. Intervista a Alessandro Lerro (EECA)

Alessandro Lerro

Con l’approvazione del cosiddetto Investment Compact – che ha istituito la categoria delle “PMI Innovative” – sono state estese alcune delle agevolazioni riservate alle startup.

Tra esse spicca, per importanza, la possibilità per le PMI di avvalersi dei portali online per la raccolta di capitale di rischio utilizzando lo strumento del crowdfunding, e accedere al mercato dei capitali e a fonti alternative di finanziamento.

 La rubrica Fintech, in collaborazione con l’Avv. Giulia Aranguena di ADLP Studio Legale e la redazione del blog Iuslab, approfondisce i temi dell’innovazione tecnologica in ambito bancario e finanziario e le nuove tendenze di mercato in questo settore. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

E’ prevedibile, dunque, l’aumento degli utilizzatori di questa nuova forma di approvvigionamento finanziario. E, conseguentemente, ci si attende l’aumento delle possibilità di business per quei soggetti specializzati per l’equity crowdfunding (piattaforme online), che si vedono così allargare il bacino di clientela dalle sole startup, come è stato sino ad ora, alle iniziative imprenditoriali già costituite, avviate e forse più sicure in termini di ritorno sull’investimento.

In un certo senso sembra, quindi, che si vada proprio nella direzione auspicata dall’Avv. Alessandro M. Lerro, General Counsel dell’Associazione Europea di Equity Crowdfunding (EECA), che riunisce  più di 50 soci fondatori provenienti da 16 paesi europei, nonché rappresentante italiano, attraverso AISCRIS, dell’ECSF (European Crowdfunding Stakeholders Forum), il gruppo di 50 esperti di crowfunding creato in seno alla Commissione Europea lo scorso giugno. E’ uno dei maggiori esperti del settore, e per questo ho voluto sollecitare la sua opinione sia sulle prospettive che sembrano aprirsi sul crowdfunding in Italia, sia sugli aspetti critici che ancora permangono e che speriamo possano essere risolti in sede di conversione delll’Investment Compact.

Pochi giorni prima della diffusione delle notizia sull’adozione dell’Investment Compact, Alessandro M. Verro in una intervista rilasciata su Crowfund Insider, ha sottolineato espressamente la necessità dell’estensione dello strumento del crowdfunding oltre il limite delle startup quale linea di evoluzione positiva del sistema normativo italiano del settore.

Giulia Aranguena.   Cominciamo proprio dalle PMI Innovative e dall’equiparazione alle startup. Che ne pensa di quanto è stato introdotto con l’Investment Compact (D.L. 24 gennaio 2015, n. 3)? E’ un accorgimento sufficiente utilizzare la definizione giuridica di PMI per estendere il potenziale del crowdfunding? 

 

Alessandro M. Lerro. La soluzione richiesta dal mercato in realtà era un po’ più incisiva. Ci si aspettava infatti la possibilità di utilizzare l’equity crowdfunding per tutte le PMI, non soltanto per quelle innovative, dal ristorante all’azienda di costruzioni. Sicuramente è un passo avanti l’aver superato la dimensione della sola start-up, che è estremamente rischiosa e quindi in stridente contrasto con la sollecitazione di pubblico risparmio nei confronti di investitori non professionali.

Sotto un altro profilo, invece, il provvedimento è dirompente: per la prima volta al mondo non si parla di raccolta di capitale online soltanto per uno specifico progetto, ma anche e per la capitalizzazione di un fondo di investimento o di una società di venture capital, sempre a condizione che questi investano prevalentemente in start-up e PMI innovative. Il che significa che possono aprirsi degli scenari veramente interessanti

Inoltre, se il provvedimento non fosse stato limitato a start-up e PMI Italiane, e fosse stato più “coraggioso”, l’Italia avrebbe certamente potuto ambire ad un ruolo di collettore internazionale di capitale di rischio, qualificandosi come first mover in un mercato che si affollerà presto.

Giulia Aranguena.   A più di un anno e mezzo dall’entrata in vigore del Regolamento Consob sull’equity crowdfunding, il bilancio non è proprio positivo. Le piattaforme registrate nell’albo dei gestori dei portali non sono più di una decina, quelle già operative sono soltanto quattro (Unicaseed, StarsUp, AssitecaCrowd SmartHub) e, per ora, i progetti finanziati con successo si contano sulle dite di una mano.

Di cosa c’è bisogno in Italia per far crescere veramente il settore? E’ un problema di norme, o manca qualcos’altro che non può essere “creato per decreto”? Insomma, come assicurare le condizioni normative più adeguate?

 

 

Alessandro M. Lerro.   In Italia mancano i capitali, la mentalità di investimento e, soprattutto, l’attitudine al “rischio” e la mancanza di cultura di impresa. E questo non è una novità. Ad esempio, Venture Capital e Angel Investing hanno dimensioni ridicole: meno di 100 milioni di euro, mentre in USA siamo ad oltre 25 miliardi di dollari all’anno.

Se mancano gli investitori professionali ci si può rivolgere al crowd, ma in questo caso entrano in discussione due fattori: educazione e tempo. E’ necessario consentire al Paese reale di assimilare le basi fondamentali dell’equity crowdfunding, di capire rischi ed opportunità offerti da questo strumento finanziario per poterlo utilizzare con serenità. Questo significa che servono significativi investimenti, comunicazione e diffusione culturale.

Peraltro, resto convinto che è difficile creare da zero cultura dell’investimento partendo proprio da progetti che presentano profili di rischio elevato; le PMI Innovative saranno un po’ meno rischiose delle start-up innovative, ma pur sempre complicate da capire. Perché la “signora Maria” non può investire, invece, in una pizzeria o in un centro commerciale? Questo potrebbe essere un buon modo per avvicinare le persone al crowdfunding, dando loro la possibilità di finanziarie iniziative di impresa più “tradizionali”, cioè, in breve, più vicine, all’effettivo tessuto economico italiano.

E, peraltro, l’economia riparte anche con le piccole aziende e con le microimprese commerciali che costituiscono la spina dorsale del Paese. Solamente un’estensione a tutte le PMI indifferenziate e senza alcun limite accelererebbe in modo consistente l’utilizzazione dell’equity crowdfunding.

 

Giulia Aranguena.   In altri paesi, soprattutto negli USA, si sta diffondendo, all’interno del settore Fintech, lo schema dei prestiti al consumo erogati con sistemi P2P del social lending e quello del crowdinvesting per far accedere le imprese anche al capitale circolante e porre rimedio alle attuali anomalie del credito bancario. Strutturalmente, si tratta di modelli diversi dall’equity crowdfunding. Quali sono le maggiori differenze?

 

Alessandro M. Lerro. Chi investe in equity crowdfunding diviene socio di chi lancia il progetto, sottoscrive delle azioni; pertanto, se il progetto avrà successo, l’investimento in equity sarà remunerato molto più pesantemente di ogni altro e potrà crescere di diversi multipli. Quindi vi è una maggior rimuneratività a fronte di una maggior rischiosità.

Il “lending”, invece, è un tipo di crowdfunding nel quale il crowd non sottoscrive quote della società che presenta il progetto, ma le presta denaro ricevendo un interesse e, talora, la possibilità di convertire il prestito in capitale (cioè di rinunciare al prestito ed in cambio prendere azioni). A differenza dell’equity crowdfunding, quindi, se tutto va bene l’investitore riceverà indietro il suo denaro ad una certa data (generalmente breve), evitando il problema della “liquidità” dell’investimento.

Nonostante l’esplosione mondiale del fenomeno, con miliardi di dollari di raccolta, in Italia il lending è consentito solo tra privati e con forti limitazioni che ne colpiscono i “profili crowd” (story telling, engagement, condivisione, …). Evidentemente le banche, oltre a non voler allentare i cordoni delle borse, non vogliono nemmeno cedere spazi di mercato.

 

Giulia Aranguena. A parte le differenze con il prestito al consumo, per il crowdinvesting, invece, pensa che siano opportune iniziative di raccolta anche crossborder, che facciano coesistere l’opzione di finanziare il capitale di rischio oppure dare prestiti cosiddetti “without equity” di cui possono comunque avere bisogno le startup, e ora le PMI innovative? E’ configurabile nel sistema italiano una simile coesistenza?

 

Alessandro M. Lerro. La dimensione crossborder è vitale poiché, al contrario del crowdfunding reward, spesso territoriale, quello equity-based non ha scalabilità in una singola nazione (USA a parte).

Tuttavia, dal punto di vista dell’investitore, le normative finanziarie in genere non tollerano invasioni estere: nonostante il web ci abbia abituato ad acquistare online ovunque nel mondo, non possiamo investire ovunque, senza rispettare le norme locali o quelle del nostro Paese.

Dal momento che la ragione di tale disciplina sta nella protezione dell’investitore, si potrebbe definire una soglia di irrilevanza, in modo da consentire libera circolazione di investimenti fino a determinati importi. Per cifre superiori è purtroppo necessario verificare con attenzione le normative applicabili ed i loro potenziali conflitti.

La normativa italiana, comunque, consente la raccolta di qualsiasi importo negli Stati UE per i quali la banca o la SIM che cura la raccolta con la piattaforma di equity crowdfunding abbia il c.d. passaporto europeo.

Dal punto di vista di chi richiede denaro, invece, non ci sono particolari limitazioni se non pratiche: ad esempio, difficilmente investitori americani metteranno denaro in una società in Italia che ha una governance che non capiscono e che opera in italiano a migliaia di chilometri. E’ quindi consigliabile utilizzare un veicolo societario compatibile con le esigenze degli investitori.

 

Giulia Aranguena. A dicembre scorso, l’ESMA, European Security Markets Authority ha rilasciato una opinion sull’investment based crowdfunding. In  quel documento viene posta in luce l’esigenza di consentire al crowdfunding di raggiungere il suo vero potenziale come fonte di finanziamento garantendo, al contempo, che i rischi per gli investitori/utenti siano affrontati in modo convergente. Si parla di un pacchetto di norme che spaziano dalla MIFID alla direttiva per i gestori di fondi di investimento alternativi (AIFMD). Come vede la possibilità di applicare una regolamentazione del regime del crowdfunding così stratificata e “pesante” come è quella europea appena citata? Non sarebbe meglio avere uno strumento normativo armonizzato ad hoc in sede europea, più leggero e meno oneroso per le piattaforme di crowdfunding?

 

Alessandro M. Lerro. Le indicazioni che abbiamo ricevuto dalla Commissione Europea nell’European Crowdfunding Stakeholders Forum sono chiare: per almeno un paio d’anni non c’è nessuna intenzione di intervenire a livello normativo.

La posizione assunta dall’ESMA è chiara e coraggiosa e francamente anche molto razionale: l’applicazione della MIFID in tutta l’Unione, secondo il “modello italiano”, consentirebbe di creare un mercato comune dell’equity crowdfunding, di dimensione quantomeno comparabile con il mercato americano, consentendo livelli di raccolta accettabili per avviarsi realmente ad un confronto competitivo con i giganti USA.

Rimangono due temi però: se e come disciplinare una soglia di esenzione e come trattare gli investimenti provenienti da fuori EU. Per piccoli investimenti, infatti, avrebbe molto senso offrire una generica esenzione dalla procedura MIFID, prevedendo magari delle forme di investor education che temperino l’assunzione dei rischi. Personalmente, fisserei un livello di esenzione almeno a 5.000 euro all’anno.

Per gli investimenti extra-UE non si può prescindere da un’analisi comparata delle normative ed eventualmente da soluzioni politiche, come, ad esempio, nell’ambito del Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).

Giulia Aranguena. In una sua recente intervista lei mette in luce che, nonostante la scelta di individuare delle soglie di esenzioni dalla MIFID, tale normativa armonizzata garantirebbe comunque l’attrazione di investimenti esteri (crossborder), consentendo alle piattaforme di beneficiare del cosiddetto passaporto UE. Può chiarire questo punto?

 

Alessandro M. Lerro. E’ proprio così: la soluzione apparentemente rigida della MIFID non solo protegge l’investitore, ma massimizza le opportunità di raccogliere investimenti in tutti i Paesi UE, purché la raccolta dell’investimento sia effettuata in regime di passaporto comunitario. Le soglie di esenzione sono sicuramente opportune per facilitare transazioni di importo modesto, tuttavia rischiano di essere un boomerang sulla scalabilità delle capitalizzazioni.

Peraltro, l’esperienza internazionale attuale sull’equity crowdfunding dimostra che gli investitori sono piuttosto esperti, spesso con una buona capacità di analisi finanziaria e consistenti disponibilità; l’investimento medio è ben al di sopra delle soglie di esenzione generalmente prese in considerazione; addirittura, l’investimento medio per deal in alcuni Paesi come Italia o UK (superiore ai 3.000 euro) è maggiore del limite massimo di investimento annuo  previsto dal JOBS Act in USA per gli investitori retail (2.000 dollari), o degli analoghi limiti previsti in alcuni Paesi europei.

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