Finanza

Fintech. Big Data ‘vitali’ per il futuro delle banche

di Giulia Aranguena, ADLP Studio Legale |

L’uso dei Big Data nel settore bancario può ridefinire in pochissimo tempo i futuri leader dell’industria finanziaria, alla luce della crescente diffusione delle ‘Social Net-Banks’  fra cui Google e Facebook.

Il valore dei Big Data in ambito finanziario è a dir poco enorme. O, meglio, è “too Big to ignore”, come è stato scritto tempo fa da Phil Simon.[1]

Da un recente studio di Capgemini si evince che più del 60% delle aziende finanziarie del Nord America sono convinte che le analisi dei Big Data offrano vantaggi competitivi “vitali” per il futuro delle banche; e più del 90% crede che l’utilizzo dei Big Data sia in grado di ri-determinare in pochissimo tempo i futuri leader dell’industria finanziaria.

 La rubrica Fintech, in collaborazione con l’Avv. Giulia Aranguena di ADLP Studio Legale e la redazione del blog Iuslab, approfondisce i temi dell’innovazione tecnologica in ambito bancario e finanziario e le nuove tendenze di mercato in questo settore. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Né si fatica a condividere tale visione, se si pensa che con i Big Data le banche “smart” potrebbero ricavare sia una visione a 360 gradi su ciascun cliente in base a come usa i suoi servizi di telefonia mobile o i servizi finanziari online sia informazioni sulle condizioni economiche e tassi praticati dai concorrenti, decisamente utili a confezionare offerte “tagliate su misura” per il mercato.

Tuttavia, mentre astrattamente quasi tutte le banche riconoscono globalmente il vantaggio competitivo dei Big Data, in concreto l’utilizzo tecnologico degli strumenti di analisi dei Big Data, come evidenziato da un’altra ricerca, ha ricevuto il più alto livello di insoddisfazione proprio da parte delle banche.[2]

Il che significa, praticamente, che la stragrande maggioranza delle imprese bancarie, nonostante siano più che consapevoli dell’importanza della posta in gioco, ha appena cominciato ad esplorare le potenzialità dei Big Data o non ha alcuna fretta di entrate in fase operativa in questo settore.

Del resto, poiché l’impegno sui Big Data, più che come questione tecnologica, è percepito dalle banche tradizionali come un cambiamento di mentalità, queste si muovono con cautela e lentezza.

Senza contare il fatto che l’utilizzo dei Big Data – sollevando una serie di complessi problemi giuridici, come la sicurezza informatica e la privacy – assorbe ingenti risorse finanziarie, che le banche – in quanto appartenenti ad uno dei settori più heavily regulated e conservatori al mondo – preferiscono impiegare per mantenere il passo della compliance regolamentare anziché per lo sviluppo strategico e la crescita.

Invece, dall’altra parte della barricata, il panorama è completamente diverso e molto più assuefatto all’uso economico dei Big Data.

Infatti, da un lato, si assiste alla saldatura sempre più stretta dei Big Data alle grandi piattaforme ed alle c.d. reti sociali che – pur non essendo banche – proprio grazie alla combinazione di questi al patrimonio informativo raccolto dagli utenti, stanno guardando e in alcuni casi entrando pesantemente nel mercato dei servizi finanziari; e, dall’altro, si osserva il grande sviluppo di entità finanziarie alternative e startup fintech che utilizzano in maniera nativa i Big Data.

Quindi, al contrario delle banche che iniziano solo ora ad aprire gli occhi sui Big Data, c’è un blocco granitico – che sfugge quasi del tutto ai controlli della regolamentazione bancaria – fatto sia dai giganti data-centric che hanno cominciato ad integrare servizi bank-like nelle loro funzioni, sia da imprese e startup fintech che li utilizzano di default per offrire servizi finanziari in senso stretto.

Pensiamo, ad esempio, ai casi di Amazon, Apple o Google, o ai recenti ri-posizionamenti degli sterminati territori di Big Data come Facebook e Twitter in termini di veri e propri “Social Net-Banks” con funzioni di pagamento diretto fra gli utenti, o, ancora, alla gigantesca alleanza cinese tra Alibaba e Weibo che ha dato vita ad una banca web-based in grado di coprire dalla micro-finanza fino all’investment management.[3]

 

In questo quadro, sembra quasi che l’ingresso e l’espansione dei grandi “golia” di Big Data e delle reti sociali nei servizi finanziari siano arrivati con un tempismo perfetto: appunto quello di facilitare le cose e aprire la strada alle aziende fintech ed a tutti i competitor diretti di quel modello di banca noto come “sistema bancario moderno”, che ha smesso di essere tale nel giro di pochissimo tempo.

Attualmente, infatti, la banca tradizionale – per quanto abbia appena terminato di metabolizzare l’impiego dei Social Network per ispirare e sollecitare la clientela -,[4] utilizza ancora tecnologie operative “out-of-date” e deve ora ricominciare da capo a confrontarsi con un altro “strappo” tecnologico, quello dei Big Data che per i suoi nuovi concorrenti rappresentano già il pane quotidiano da anni.

Il tutto, in un contesto dove la concorrenza delle entità finanziarie alternative e startup di fintech guida il cambiamento nel settore dei servizi finanziari a livello globale “galoppando” su una utenza ormai perfettamente abituata all’ambiente 2.0, che – dopo anni di “svezzamento” sulle grandi piattaforme e sui Social Network, definitivamente trasformati da meri giocattoli di intrattenimento a strumenti strategici di supporto del business -, trova sempre più normale e comodo che servizi e prodotti finanziari vengano forniti al di fuori del sistema bancario tradizionale.

Tale “spostamento” del banking dal suo consueto contesto economico – definibile da qualcuno come effetto “disintermediazione” – a cui ci stiamo tutti abituando velocemente, ha una radice profonda e dipende, principalmente, dal vecchio equilibrio tra le banche e le autorità pubbliche che non accenna a cambiare.

Infatti, storicamente, le autorità di regolamentazione hanno sempre usato le leggi al fine di meglio monitorare, controllare, e frenare il settore bancario, soprattutto dopo lo scoppio della crisi economica del 2008 e dei grandi scandali finanziari come quello del Libro del 2012. E la situazione non è mutata, neanche con l’ingresso nel mercato di una vasta gamma di soggetti commerciali che svolgono molte funzioni tradizionalmente associate alle banche senza essersi mai costituiti sulla base delle leggi bancarie.

Ma, mentre le banche sono da sempre state oggetto di regolamenti e provvedimenti di vigilanza da parte delle istituzioni finanziarie pubbliche, la maggior parte delle “non banche” non lo sono affatto; come, ad esempio, Paypal che, dal 1998 ad oggi, nella massima libertà (di “autoregolarsi” come una banca), ha conquistato oltre 152 milioni di utenti in tutto il mondo ma che, ancora adesso, non è legalmente considerata una banca in senso stretto e non è controllata dalle autorità di regolamentazione bancaria, finendo sotto i radar solo agli inizi del 2013.[5]

Tale diverso trattamento dato ai diversi provider non bancari di servizi finanziari, peraltro, nasce da una visione di lunga data che il potere legale mantiene tuttora, continuando ad identificare l’attività bancaria esclusivamente come la capacità di ricevere e custodire depositi nonostante la forma fisica e materiale del denaro abbia inforcato la parabola discendente da un pezzo.

Ed è questo, secondo me, il problema principale perché tale visione antiquata non fotografa la complessità delle attività a cui sono chiamate ogni giorno le banche ben al di là della custodia dei depositi. Né, tantomeno, giustifica la disparità di trattamento che si è venuta a creare a favore dei nuovi entranti e che non aiuta, affatto, quella doverosa avanzata che le banche dovrebbero fare sul terreno dei Big Data e che invece non fanno, anche per quegli ostacoli normativi che incontrano su temi delicati come la privacy, la sicurezza e la tutela dei consumatori che altri possono largamente ignorare.

Così, ritardando il matrimonio tra le banche e i Big Data in attesa che il potere legale decida di “scaricare l’aggiornamento” del proprio concetto antidiluviano di banca, le “non banche” – sebbene  svolgano sempre più servizi finanziari bank-like – in forza dell’inesistente peso regolamentare continuano tranquillamente a consolidare i loro modelli di business fondandosi su un concetto di “apparenza” bancaria creato con l’ausilio di strumenti tecnologici sempre più sofisticati e proprio grazie all’evoluzione digitale della moneta (di invenzione tutta bancaria, peraltro).

Ma il matrimonio con i Big Data è strategico; è “too Big to ignore”, appunto, e non può non essere fatto.

[1] Ci si riferisce titolo del noto libro di Phil Simon: Too big to ignore. The Business Case for Big Data”.

[2] Si veda anche il primo Rapporto dell’Osservatorio Digifin 2015 dell’istituto di Competitività (ICOM), del 17.2.2015.

[3] Leesa Shrader, Microfinance, E-Commerce, Big Data and China: The Alibaba Story, CCAP (Ottobre 2013).

[4] Si pensi che mentre le istituzioni finanziarie americane (i.e. il Federal Financial Institutions Examination Council – FFIEC) hanno concluso – soltanto a fine dicembre del 2013 – la predisposizione delle linee guida per gli istituti finanziari sugli usi autorizzati di social media, mettendo le banche nelle condizioni di “iniziare” a comunicare con i propri clienti attraverso i networks sociali, in Italia siamo ancora a livello di analisi della questione.

[5] Alexander Eule, EBay and PayPal: The Split Could Be a Loser for Both Companies, Barons (Ottobre 2014).

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