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Festa del Cinema di Roma. Esordio alla regia per Paola Cortellesi con “C’è ancora domani”

Delia, interpretata da Paola Cortellesi, madre e moglie di una famiglia di ceto basso a Roma nel dopo guerra, vive in una dimensione di silenzio forzato. Delia non può parlare, rompere oggetti o tenere per sé i soldi che guadagna. Ivano, il marito di Delia, interpretato da Valerio Mastandrea, è violento verbalmente e fisicamente.

La coppia ha due figli maschi ed una figlia più grande in età da marito. Madre e figlia, hanno un rapporto importante: la figlia detesta vedere il silenzio della madre agli abusi del padre, mentre la madre cerca di proteggerla come può, di modo da non farle fare il suo stesso destino.

Tre generazioni di uomini vengono messe a confronto, e tutte hanno una cosa in comune: la violenza. Il padre di Ivano, Ottorino, interpretato da Giorgio Colangeli, è il risultato di un tempo in cui la donna andava rimessa al suo posto e con Ivano questo esempio viene, in modo evidente, imitato e perpetuato. L’amicizia di Delia con Marisa, Emanuela Fanelli, e l’amore passato ed impossibile con Nino, Vinicio Marchioni, danno sicuramente un tocco di speranza e leggerezza alla storia.

Delia riceve una lettera che diventa un simbolo di libertà. E sarà proprio quella lettera a dare a Delia la consapevolezza di poter parlare, di poter far cadere delle cose e di poter utilizzare i suoi soldi.

Il film cattura da subito l’attenzione: una coppia è a letto che dorme, lei si sveglia e, anziché iniziare la sua giornata con un “buongiorno”, il marito Ivano, le tira uno schiaffo.

La donna comincia così la sua giornata, citando una frase della regista in conferenza stampa: “Come niente fosse”. E possiamo dire che questa frase si ripete, a livello morale ed interno, per tutta la durata del film. La scelta del bianco e nero e il momento storico del dopo guerra, rimandano sicuramente al neorealismo, attraverso però il doppio registro del comico-drammatico, il film diventa anche molto moderno. Paola Cortellesi, assieme ai co-sceneggiatori Giulia Calenda e Furio Andreotti, racconta il ruolo della donna nel dopo guerra, o meglio, nella società del dopo guerra. La regista ci fa affezionare a Delia, personaggio principale da lei interpretato, ma soprattutto ci fa venire voglia di rispondere ad Ivano, il marito. Le parti più particolari del film sono sicuramente i momenti in cui Ivano e Delia iniziano a danzare: Ivano la prende per il collo, i lividi da nero scompaiono ed è come se la musica trasformasse la violenza, in normale e quotidiana.

Delia, come molte persone che subiscono, è ormai abituata a stare in silenzio, e quindi a danzare e a rendere questa violenza un rito nelle sue giornate. Anche le scuse di Ivano sono una danza, una canzone, una cosa diventata normale.  Più cresce la consapevolezza di Delia, più i segni restano evidenti su di lei. Come se l’accettazione del gesto è proprio lo smettere di nasconderlo ed eliminare quel classico “Come niente fosse”. Nino, che da sempre ama Delia ma che se l’è, ahimè, fatta scappare, e Marisa, migliore amica di Delia, rappresentano l’antitesi dei protagonisti: lui amante delle donne non violento, lei ribelle e innamorata di un uomo che la tratta come pari. Sono quell’eccezione di cui abbiamo bisogno e quella speranza in cui Delia si rifugia.

Delia riceve una lettera misteriosa, che la fa sospirare, diventa il simbolo e la chiave della sua fuga. Nel corso della storia ci aggrappiamo a quella lettera, non tanto interessandoci al suo contenuto, quanto alla possibilità per Delia di un destino diverso.

La circolarità del film si apre e si chiude con dei carrelli che la seguono. All’inizio vediamo in scena Delia e la società e alla fine lei che corre verso la sua scelta nella società.

E cosa c’è di più bello, e così poco scontato, del poter scegliere?

Direi quindi un ottimo primo film e speriamo fortemente di vederne degli altri domani.

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