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Fattore umano, il vero tallone d’Achille della cybersecurity?

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Secondo un rapporto 2015 condotto dalla PwC, il 50% delle peggiori violazioni della sicurezza (data breach ndr.) sono stati causati da un (involontario ndr.) errore umano.

Parlando di cybersecurity si tralascia molto spesso il fattore umano,  che è una parte integrante di questo settore ma anche un elemento che crea forte instabilità se preso alla ‘leggera’.

Secondo un rapporto 2015 condotto dalla PwC, il 50% delle peggiori violazioni della sicurezza (data breach ndr.) sono state causate da un (involontario ndr.) errore umano. Lo scorso anno questa percentuale era di ben 19 punti percentuali più bassa.

Nel 2014, sempre secondo il rapporto, il 58% delle grandi aziende e il 22% delle PMI hanno sofferto di violazioni informatiche causate dal fattore umano (dipendenti che inconsapevolmente hanno aperto un’email con un malware o personale che volontariamente ha voluto infettare il sistema informatico al lavoro ndr.) un numero che però è cresciuto a dismisura  nel 2015, passando al 75% nelle grandi aziende e al 31% per le PMI.

Ad ogni modo, le aziende sono ben consapevoli di questa escalation. Qual’è quindi l’unico modo per combattere questo fattore umano a livello aziendale?  Lo scorso anno il 72% delle grandi organizzazioni e il 63% delle PMI hanno investito in una campagna di formazione e sensibilizzazione di sicurezza informatica rivolta al personale (nel 2014 i dati erano leggermente più bassi tra il 68% e il 54% ndr.)