l'analisi

Europa ed Italia ad un bivio fra debito e crescita. Ci giocheremo tutto in 6 mesi?

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Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di non tenere il Paese ancora ingessato su dibattiti di retroguardia, centrati su falsi problemi o su settori che sono diventati irreversibilmente obsoleti, con un censurabile ricorso ad interventi a pioggia che rischiano di diluire l’impatto stesso del PNRR.

Venerdì scorso si è registrato un crollo generalizzato delle borse. Il nostro Paese è stato il più colpito. Cosa succede ora? In realtà, non ci si dovrebbe sorprendere: la correzione al ribasso dei mercati era ampiamente attesa. Ne abbiamo parlato su queste pagine a più riprese a partire da dicembre dello scorso anno: uno scenario che non lasciava molti margini di interpretazione e non doveva essere affrontato con improvvisazione. Non è la prima volta che le dichiarazioni della Presidente della BCE, Christine Lagarde, hanno come effetto quello di innescare una nuova ondata di turbolenze nei mercati finanziari. Ci sono stati errori da più parti: non è prassi preannunciare due rialzi dei tassi di interesse (a luglio e settembre) ed il contestuale stop agli acquisti dei titoli del debito sovrano dei Paesi membri dell’Unione Europea. D’altronde, era solo questione di tempo, perché le banche centrali avevano già in parte esaurito gli strumenti di intervento a loro disposizione. Si è entrati in una fase nuova ed il nostro Paese, più di altri, è stato colto di sorpresa.

Ci si domanda perché la speculazione si stia concentrando sull’Italia.

Occorre sgombrare il campo dalle ricostruzioni complottistiche che in queste ore stanno affollando le pagine della stampa nazionale: i mercati fanno il loro mestiere, gli investitori analizzano i numeri e piani e guardano alle aspettative. Quando i rendimenti sui titoli del debito pubblico riprendono a salire, vuole dire che i mercati si attendono delle sorprese di segno negativo o in termini di crescita dell’economia, o di rialzo dell’inflazione o di entrambi. Non serve a molto gridare al complotto: basterebbe solo fare i conti con la realtà.

Annunciare, come è stato fatto solo qualche mese fa a gennaio 2022, che la crescita dell’economia italiana sarebbe stata di poco superiore al 6% per poi “svegliarsi” a maggio registrando un tasso di crescita intorno al 2,2%, non si direbbe il massimo per tranquillizzare i mercati: a volte, un po’ di prudenza non guasta. La Germania è già da un trimestre in recessione tecnica e non si può escludere che da settembre sarà così anche nel nostro Paese, per il solo motivo che le nostre economie, come nel caso del settore automotive, sono significativamente più interconnesse rispetto alla media dei nostri partner europei. Sarebbe auspicabile che da oggi in avanti non si perdesse tempo in pretestuose schermaglie di retroguardia: non se ne sente il bisogno ed il Paese non se le può permettere. L’estate è alle porte ed i problemi non si possono più nascondere: il timore è che questo clima generalizzato di rilassamento collettivo finisca per contagiare anche i ranghi dell’attuale Esecutivo Con l’estate arrivano come da tradizione più frequenti motivi di distrazione e la messa terra del PNRR è ancora tutta sulla carta: gli investitori internazionali sono sempre più preoccupati di un evidente “gap” di esecuzione che per il momento si direbbe ancora ampiamente sottostimato dall’attuale Esecutivo, ma che i mercati hanno ben chiaro.

Così anche se il nostro Paese è certamente uno dei maggiori beneficiari delle risorse del Next Generation EU, il timore è che a conti fatti si rischi di perdere un’opportunità. Peraltro, meglio non dimenticare che in larga parte si tratta di nuovo debito: quindi non ci sono margini di errore che il Paese si può permettere. Debito e crescita: mai come oggi quasi una “missione impossibile”, dopo due anni di pandemia, problemi di global supply chain, ed il conflitto fra Ucraina e Russia, nel cuore dell’Europa.

Difronte alle turbolenze che stanno mettendo in fibrillazione i mercati finanziari, si pone il problema di individuare una via d’uscita.

Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di non tenere il Paese ancora ingessato su dibattiti di retroguardia, concentrando l’attenzione su falsi problemi, su settori che sono diventati irreversibilmente obsoleti, con un ricorso ad interventi a pioggia che rischiano di diluire l’impatto del PNRR. Come diceva il Presidente Franklin D. Roosvelt: “Ci sono molti modi per andare avanti, ma un solo modo per stare fermi”. Temo che nel nostro caso sia da troppo tempo così. È chiaro che se siamo arrivati fino a qui e se il Paese si è ritrovato in queste condizioni è perché negli ultimi 20 anni non si è investito a sufficienza in innovazione, ma si è scelto di proteggere lo status-quo: scelta di certo legittima, come anche altre che hanno segnato la Storia del nostro Paese, ma non ci si può lamentare se poi i mercati presentano il conto e non si dovrebbe scaricare il conto  delle “non-scelte” sulle generazioni successive.

Viviamo in un’economia globale sempre più interconnessa, dove numeri e dati sono pubblicamente disponibili ed accessibili a tutti: non ci si può nascondere dietro all’ “unicità’” o all’”eccezione” italiana ed è difficile immaginare di censurare la libera circolazione di informazioni market sensitive. Se in Italia si operano scelte inusuali ed in netta controtendenza, che non hanno riscontro in nessun settore o in nessun altro Paese al mondo, forse ci si dovrebbe chiedere se abbia ancora senso sfidare i mercati: certo, non sarebbe la prima volta, ma ci si auspicava che con il tempo avremmo perso il vizio atavico di vivere in una “bolla” avulsa dal contesto globale.

La sfida più difficile è quella di trovare la quadra tra debito e crescita: occorre, in primis, affrontare i problemi per quello che sono.

Il debito è debito e non serve a molto fare distinzioni: dovremmo saperlo bene, considerato che i mercati ci hanno colpito più duramente proprio perché il profilo di rischio del nostro debito sovrano non sembra essere migliorato in questo ultimo anno. Ci potrebbe chiedere dove saremmo se ci trovassimo in altre condizioni: ma queste sono ipotesi di scuola, che sembrano essere chiacchiere da salotto di irriducibili nostalgici del piccolo mondo antico, a cui difficilmente si prestano gli investitori internazionali. Le risorse che il Paese ha a disposizione devono essere investite in innovazione e crescita: dobbiamo recuperare 20 anni di ritardo e bisogna puntare su quei settori che nei prossimi 5/6 anni sono destinati a crescere a doppia cifra.

La convergenza fra automotive, energia e telecomunicazioni è la sfida di questo secolo e non ci si può tirare indietro. Piuttosto sarebbe meglio consigliare all’Esecutivo di creare due SPAC (ndr. Special Purpose Acquistion Vehicles): una per puntare sulla crescita privilegiando quelle società che hanno registrato anche in questi due anni di pandemia tassi di crescita superiori al 20%, ed una per le “bad companies” che hanno vissuto 15/18 trimestri di tassi di crescita negativi e di margini in declino, forse ormai irreversibile.

I complotti, anche se utili per ammansire l’opinione pubblica, servono a poco ed hanno vita breve: è l’accelerazione della convergenza fra automotive, energia e telecomunicazioni che ha rimesso in gioco equilibri ed assetti che erano dati per scontati e che richiede una ridefinizione del ruolo dell’Italia nell’economia globale.

Due settori su tutti sono diventati il cuore del problema: Automotive e Telco, i due indiziati speciali. La mobilità, almeno per questa prima fase di transizione, sarà elettrica: indietro non si torna. L’Europa ha preso una decisione e non cambierà orientamento: inutile farsi illusioni o pensare di alzare barricate. Non si può essere “europeisti” a giorni alterni: i numeri parlano chiaro, il mercato automobilistico ha registrato dagli inizi della pandemia tassi di decrescita del 15-18% trimestre dopo trimestre e da qui a fine anno le previsioni non lasciano margini di speranza che si possa invertire la tendenza. Le preferenze dei consumatori sono cambiate in modo strutturale, e probabilmente in modo quasi irreversibile: e gli investitori ed i mercati si sono adeguati correggendo la loro esposizione al settore. Con le politiche a colpi di “bonus”, che per loro natura sono di corto respiro, non si guarda al cuore del problema: producono solo il risultato di drogare il mercato e di diluire le risorse che dovrebbero essere, invece, investite sulla crescita. Non è un caso che Ford e Renault abbiamo preso la decisione di separare la mobilità elettrica da quella tradizionale concentrata sul motore endotermico. Una soluzione “tampone” potrebbe essere quella legata ai combustibili sintetici, ma potrebbe essere già troppo tardi: non si può ricorrere a soluzioni autarchiche dimenticandosi del fatto che sapere leggere i mercati è un requisito essenziale, per non finire con il ritrovarsi ai margini del cambiamento. Sarebbe poi difficile, quasi antistorico, imporre per decreto ai cittadini di continuare a comprare auto a motore endotermico quando, al contrario, intendono passare all’elettrico.

La sfida più urgente è il rilancio ed il riassetto del settore delle telecomunicazioni su scala europea, dove siamo già in ritardo di due anni sugli investimenti in 5G, necessari per mantenere un livello di competitività adeguato nei settori manifatturieri, che da sempre sono l’avanguardia del nostro Paese nel mondo ed il motore della crescita. A quanto risulta più di un operatore deve ancora pagare l’ultima rata delle licenze 5G: quindi, si può dare per certificato che siamo già in colpevole ritardo. Quando gli amministratori delegati passano più tempo partecipando a convegni che non ad impegnarsi nel rollout delle reti, è chiaro che gli investitori iniziano a nutrire più di un motivo di preoccupazione: difficile dargli torto.

Nel caso in esame, il problema in Europa è l’eccesso di debito del settore nel suo complesso, ormai oltre la soglia dei 570 miliardi con un rating in media intorno a BBB-, quindi ad un passo dall’essere assimilato ai titoli spazzatura (ndr. junk bond). Non è un caso che fra i maggiori beneficiari degli acquisti di titoli tossici da parte della BCE ci siano state le telco europee e nello specifico Telefonica. Tutto questo ha finito per pesare come un macigno sulle capacità di innovazione e di trasformazione del settore, penalizzando la competitività dell’Europa. Con due rialzi dei tassi da parte della BCE previsti fra luglio e la fine di settembre e lo stop all’acquisto dei titoli tossici, si preannuncia un trimestre di fine anno dove il crollo verticale dei ricavi a livello di settore ed il rincaro dei prezzi dell’energia metteranno a dura prova i nervi degli investitori, delle banche che ne sostengono il debito e dei Governi, che dovranno misurarsi con il problema endemico della disoccupazione. Le risorse del PNRR rischiano di arrivare troppo tardi e di non essere più sufficienti per ripristinare l’equilibrio finanziario di un settore che ha bruciato capitali e risorse per quasi 20 anni impegnandosi su battaglie di retroguardia. Per farsi un’idea, occorre solo tenere presente che Cisco Systems, che è considerata generalmente un buon proxy dell’andamento del PIL degli Stati Uniti, ha dovuto di recente correggere al ribasso le proprie stime di crescita: da +5% nell’ultimo trimestre, a -1% fino a -5.5% in termini previsionali da qui a fine anno. C’è ormai un’evidenza schiacciante che le principali società quotate dovranno rivedere al ribasso le proprie stime e che molto probabilmente chiuderanno l’anno in territorio pesantemente negativo. Ci sono pochi mesi di tempo per cercare di correre ai ripari, prima che nel settore telco si inneschi la tempesta perfetta, frutto della convergenza fra rialzi dei tassi, ricavi e margini in declino, e costi dell’energia ancora in salita. È ora di affrontare a Bruxelles il problema dell’eccesso di debito delle telco europee nel loro complesso: è una sfida importante per il futuro dell’Europa a cui non ci si può più sottrarre, perché il ritardo ad oggi accumulato in termini di innovazione non può essere colmato con correttivi una-tantum o in modalità stand-alone.

La sfida per gli investitori e per l’Europa è quella di concentrarsi sulla crescita: il debito accumulato, sia a livello corporate che a livello di debito sovrano non lascia spazi all’improvvisazione.

Da inizio anno hanno sofferto molto i “growth stock”, in particolare quelli legati al mondo delle big tech con correzioni che, se in parte erano date per scontate, sono state dell’ordine del 40-60% sui listini dei principali mercati finanziari. Nella seconda parte dell’anno ipotizziamo una nuota rotazione dei mercati da quelli che sono chiamati i “value stock” a favore nuovamente dei “growth stock”. La crescita sta diventando una risorsa scarsa, ed è proprio per questo che gli investitori sono a caccia dalla crescita. C’è da dire che anche in questa fase di turbolenza segnata da due anni di pandemia, da problemi di global supply chain e dal tragico conflitto fra Ucraina e Russia, si sono affermate società in grado di crescere del 20-30% anno su anno. Ancora oggi Zoom Inc., la piattaforma di video conferenza che in questi due anni è diventata parte del vissuto quotidiano, capitalizza 32,54 miliardi di dollari ovvero come Telefonica e TIM messe insieme (31,28 miliardi di euro), nonostante una correzione in negativo nell’ultimo anno del 70% del proprio valore di borsa.

L’attenzione degli investitori si sta spostando sui servizi, ed è sorprendente che le telco europee non siano state in grado di indirizzare risorse e competenze per intercettare le tendenze del cambiamento in corso e per lanciare una sfida a Zoom Inc.: era un trend ampiamente anticipato e sotto gli occhi di tutti, ma ancora una volta si è persa un’occasione. A quanti errori di valutazione dovremo ancora assistere, in nome di analisi approssimative, di piani non realizzabili, a volte anche in controtendenza, o nell’illusione di un passato che non tornerà?

È ora di essere più seri e concreti. I mercati non fanno sconti, ed il sell-off che ha investito il nostro Paese non è destinato ad esaurirsi in tempi brevi e dovrebbe suonare come un campanello di allarme: non è un complotto, ma semplicemente la forza di gravità dei numeri, che al di là delle parole e dei facili slogan riporta tutti con i piedi per terra. Come direbbe Warren Buffett “è meglio essere approssimativamente giusti, che precisamente sbagliati”. Sarebbe auspicabile che anche per il nostro Paese fosse così.