il commento

eSports, quando i videogames diventano un lavoro

di Vittorio Zicolella, digital consultant |

Possiamo parlare di Daniele Di Mauro (alias Jizuke) che, a poco più di 20 anni, ha lasciato l'Italia ed è andato in Spagna per potersi allenare al suo gioco preferito in maniera professionale.

Sempre più spesso leggiamo di genitori che si scagliano con estrema cattiveria verso videogame e piattaforme di streaming con l’accusa di creare danni ai propri figli. Leggiamo di bambini e ragazzi “intrappolati” nei propri PC e cellulari e che hanno sempre più difficoltà a interagire con gli altri. Ci sono addirittura personaggi pubblici schierati contro il nemico comune, ovvero videogiochi e social. Spesso, quindi, ci si focalizza solo sugli aspetti negativi e non si prende in considerazione alcuna possibilità positiva.

Nel periodo storico in cui ci troviamo i due problemi principali che si affrontano sono la mancanza di lavoro per i giovani e il loro attaccamento a queste piattaforme. Esiste una soluzione unica che possa risolvere entrambi i problemi? Non si potrebbe sfruttare tutto quel tempo che i ragazzi usano su queste piattaforme in modo più costruttivo? Perché invece di remare contro i nostri figli non proviamo a spingerli verso un futuro che concilia le loro passioni e uno sviluppo lavorativo personale?

La risposta a queste domande è sì, si può fare, ma partiamo dall’analisi del problema su due fronti: perché ci si scaglia su questi mezzi e perché sempre più ragazzi rimangono “intrappolati” su queste piattaforme.

Anche se poco elegante, la risposta al perché molte persone si scagliano con veemenza contro questi mezzi è semplicemente l’ignoranza di non conoscerli. La maggior parte di coloro che screditano questi mezzi sono spesso persone che superano i 40 anni di età e, nella maggior parte dei casi, hanno solo sentito parlare di una piattaforma seguendo il TG. Si può dire quindi che parte della responsabilità è proprio sulla TV? Con molta probabilità, sì: sono numerosi gli articoli, le dirette e i servizi al TG che mostrano un mondo videoludico marcio e che porta le nuove generazioni verso la chiusura e l’isolamento. Molto rari, invece, sono quelli che parlano di questo mondo per come meriterebbe.

Sottolineamo però che in quei servizi non si raccontano falsità, infatti bisogna precisare che la loro “colpa” sta nel fatto che mostrano solo il lato negativo di quel mondo, facendo passare l’idea che esista solo quello. Sarebbe auspicabile vedere un giorno anche servizi che parlano di come questo mondo abbia invece aiutato le persone. Un esempio orgogliosamente italiano è il progetto WildCard, ideato da due giovani ingegneri, Daniele Montesano e Daniele Occhiuto, presso il politecnico di Milano. Il progetto si basa sull’utilizzo della realtà virtuale in modo terapeutico per aiutare ragazzi e ragazze con disabilità intellettiva come autismo, ritardo psicomotorio, disturbo specifico dell’apprendimento, sindrome di Down e sindrome di Sotos.

Il progetto utilizza la realtà virtuale, usata sempre di più anche in ambito videoludico, per permettere ai bambini di mettere a fuoco immagini 3D scelte accuratamente. Il visore ha un sistema che permette ai medici di capire quali immagini l’occhio del bambino sta mettendo a fuoco e quali no. Alla fine del primo ciclo del progetto, gli esperti hanno potuto notare un aumento della soglia dell’attenzione e della focalizzazione dei bambini e hanno potuto ricevere moltissime informazioni direttamente dagli occhi dei piccoli pazienti.

Passiamo al secondo punto, ovvero perché sempre più ragazzi si ritrovano “intrappolati” sui social. In questo caso purtroppo non parliamo di un semplice attaccamento, il fenomeno è stato definito una vera e propria malattia che porta il nome di FOMO (Fear of Missing Out) ovvero la “paura di essere tagliati fuori”. Anche in questo caso una buona parte di responsabilità è anche dei genitori di queste nuove generazioni, i quali non riescono più a interagire con i propri figli. La malattia infatti si basa sulla sensazione che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante di quello che stiamo facendo noi. Secondo Andrew Przyblski, uno dei maggiori studiosi di FOMO, le cause della malattia sono da rintracciarsi nel tentativo di soddisfare alcuni bisogni di base propri degli esseri umani, mancati in età adolescenziale. Essere quindi più presenti durante questi anni molto delicati può definirsi una cura effettiva per la FOMO.

Quando un ragazzo trova piacere nel rimanere al PC, però, sia nel mondo dello streaming che in quello dei social, potrebbe trasformare la sua passione nel suo futuro lavoro. Esistono diversi esempi di ragazzi che hanno dato il massimo per la propria passione e hanno raggiunto i loro obiettivi. Possiamo parlare di Daniele Di Mauro (alias Jizuke) che, a poco più di 20 anni, ha lasciato l’Italia ed è andato in Spagna per potersi allenare al suo gioco preferito in maniera professionale. Questo principalmente perché in Italia non si seguono molti sport oltre al calcio (secondo Sisal, il 92% del fatturato sportivo 2022 deriva dal calcio). Daniele ha quindi giocato in tornei minori fino al 2016 dove è riuscito ad entrare nel circuito competitivo e oggi è un giocatore professionista a tutti gli effetti con uno “stipendio” di tutto rispetto. Un altro esempio è Giorgio Calandrelli (alias Pow3r) che, ad oggi, è lo streamer più seguito in Italia con la bellezza di 1,6 milioni di follower. Esattamente come Daniele, è partito dal niente con pochissimi amici a sostenerlo e la famiglia contro. Ignorando ciò che i parenti gli dicevano, ha continuato nella sua passione e oggi è uno degli streamer più pagati in Italia.

Negli esempi sopra citati abbiamo due ragazzi che sono “esplosi” nella loro carriera partendo dal nulla, ma purtroppo non tutti riescono a raggiungere quei livelli di popolarità. I ragazzi che vogliono comunque affacciarsi a questo mondo non devono scoraggiarsi, perché ciò che questi ragazzi hanno costruito non viene portato avanti in maniera solitaria. Esistono infatti moltissime figure che supportano e ottimizzano il progetto: c’è la figura del Social Media Manager, che gestisce i profili social e migliora le interazioni con chi segue questi ragazzi; il Copywriter, che rende i contenuti pubblicati molto più fluidi e di facile comprensione; l’Advertiser, che pubblicizza gli eventi e moltissime altre figure. Basti pensare che i team professionisti come i Fnatic comprendono, solo nello staff, più di 40 ruoli secondo lol.fandom.com. Un altro dato positivo è quello fornito dallo studio VoiceNation che ha stilato la lista dei lavori più richiesti inserendo nelle prime 10 posizioni il Social Media Manager con oltre 3,3 milioni di ricerche nel web per tale posizione in 10 anni.

C’è da specificare che questi ruoli richiedono competenze e conoscenze ben specifiche: nel mondo videoludico e, più in generale nel digitale, le possibili carriere disponibili sono molte ed estremamente ricercate, ma è anche vero che non ci si può presentare senza alcuna formazione. Fortunatamente esistono scuole che permetto la formazione di queste figure particolari, ad esempio Digital Coach che offre corsi specifici per gran parte delle figure richieste nel digitale.

Starà anche a voi ora decidere se spingere un ragazzo, facendogli apprendere quelle competenze e conoscenze richieste per rendere le sue passioni un lavoro, oppure diventare voi stessi una delle figure che lo supporta dietro le quinte. Solo una cosa è certa: esiste un lato positivo nel mondo videoludico, basta solo avere le conoscenze giuste per potervisi approcciare.