Videogiochi

EntARTainment. Quando il gioco si fa duro

di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico |

Il settore dei videogiochi corre quattro volte più veloce dell’economia Usa. I videogiochi sono sempre più realistici e sempre più spesso nel mirino del del cinema.

Parte oggi la nuova rubrica EntARTainment, libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico.

Giocabilità…no, scusate, volevo dire gameplay; che poi, non sono proprio la stessa cosa! Nella traduzione dall’inglese all’italiano, infatti, si perdono le due principali accezioni (gergale e tecnica) che il termine possiede oltreoceano e nel resto del mondo.

 La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Traducendo la parola con giocabilità parliamo del grado di “empatia” che un gioco può suscitare sul fruitore, della fluidità e delle possibilità che ha il nostro personaggio all’interno di quel mondo inventato; di quanto possa interagire con le strutture, gli oggetti, le persone che incontra camminando su una strada di Los Angeles ricostruita ad hoc, con migliaia di dollari di investimento per ogni finta mattonella della pavimentazione urbana che viene calpestata.

Parliamo, insomma, di quanto possa essere totalizzante l’esperienza ludica per una fascia sempre più ampia di giovani e meno giovani, di quanto sia in grado di farci immedesimare con i pixel che formano il nostro alter ego virtuale visto, quasi perennemente, in terza persona sullo schermo.

Invece, mantenendo l’originaria dicitura anglofona (gameplay), possiamo alludere a video che vengono pubblicati sulle piattaforme online (tipo Youtube) e che mostrano l’abilità del giocatore (player), lo svolgimento del gioco, il modo personale, caratteristico e semi-irripetibile che ha una persona di superare le prove che gli si pongono sul suo cammino inventato. Questi filmati vengono spesso corredati di due tracce audio, quella originale ed il commento del giocatore o, addirittura, da un piccolo video “in clausola” che mostra il viso del player durante l’esperienza di gioco.

Qualche dato per dare l’’idea delle dimensioni di questo business in mano a 3 grandi gruppi (Sony, Nintendo e Microsoft) ma che alimenta un numero molto elevato di sviluppatori e software house: nel 2012 il mercato dei videogiochi valeva oltre 6 miliardi di dollari negli Stati Uniti con un tasso di crescita del 10% rispetto al 2009. In pratica, quello dei videogames è un settore che corre 4 volte più veloce dell’economia Usa. Anche nel nostro Paese, a dispetto della crisi prolungata, il mercato dei videogiochi mostra un certo dinamismo: nel 2013 è stato calcolato che ben 21 milioni di persone pari al 35% della popolazione consuma questi prodotti. Percentuale che sale al 60% se ci si restringe al target con meno di 50 anni. Secondo le stime di PWC la spesa in videogames in Italia dovrebbe raggiungere nel 2017 ben 1,3 miliardi di euro con una crescita del 6% rispetto al 2013.

La giocabilità è un fattore non da poco per l’industria ma, con i progressi della tecnica, si è giunti in brevissimo tempo a risultati davvero sconvolgenti non solo sotto il profilo dei costi (una consolle può costare dai 250 ai 400 euro e un titolo appena uscito può arrivare a costare poco meno di un centinaio di euro).

Esistono giochi talmente realistici da essere approdati (di recente anche in Italia) nelle aule parlamentari di mezzo mondo e, scalzando guerre, emergenze umanitarie, minacce terroristiche, hanno attirato l’attenzione dei decision-makers, nel delicato compito di valutare se e in che misura sia giusto porre dei limiti di età alla fruizione di alcuni di questi prodotti giudicati particolarmente violenti e diseducativi (Governo Italiano Vs. Grand Theft Auto 5).

Questi giochi, ben lontani dai Pac-Man, Super Mario o qualsiasi ricordo possano avere dell’intrattenimento domestico i nostri padri, si nutrono di cinema e lo rielaborano, a volte riuscendo persino a migliorarlo.

A prova di questa affermazione vi è l’utilizzo ampliato e migliorato dei cinematic o cutscene. Per cinematic o cutscene si intendono quei filmati ai quali si demanda il compito di spiegare parti della storia (perché si affronteranno queste prove; quali saranno gli ostacoli che incontreremo; quale scopo dovremo perseguire) e di intervallare l’azione del giocatore a momenti di fruizione passiva, e quindi distensiva, dell’opera video-ludica.

All’epoca, poco più di un decennio fa, erano semplici e a “cubetti” come le scene di gioco effettivo; oggi, invece, sono articolati, complessi, spettacolari come veri e propri film in 3D. C’è tutto “l’apparato cinematografico” in quei piccoli saggi di bravura: crane, dolly chilometrici, droni, riprese impossibili nella realtà che trovano la possibilità di concretizzarsi nel non-luogo digitale. Molti attori dello star system internazionale prestano il loro volto e la loro voce ai personaggi che animano la narrazione e ad alcuni giochi è toccato in sorte di poter competere per tecnica e poetica con lungometraggi veri e propri (“E se il prossimo premio Oscar lo vincesse un videogioco?”).

Pertanto, oggi sappiamo che il mondo del cinema guarda a quello dei videogames e se il vettore, in passato, era univocamente rivolto dalla pellicola al dischetto (grandi film diventano successi per console), adesso il trend pare essersi invertito, basti guardare ai vari Max Payne, Tomb Raider, Hitman e chi più ne ha, più ne metta. Ci si approvvigiona di storie alla fonte dell’intrattenimento digitale certi che in sala si possa ottenere lo stesso strabiliante risultato ma spesso, la realtà dei fatti, ha sconfessato le rosee aspettative dei produttori e ha saputo donare loro solo fiaschi colossali (“Dal videogioco al film… al flop!”).

Perché ciò accade? Forse perché il giocatore conosce bene il personaggio che “manovra” quotidianamente e vedere Angelina Jolie fingere di essere la bella Lara Croft non lo convince poi tanto?! Eppure, come si affermava in principio, esiste un flusso di dati gargantuesco nei canali dei gameplayers, ovvero dei giocatori che filmano il loro modo di giocare e lo pubblicano in rete esattamente come se si trattasse di un film del quale sono loro a curare la regia (nei giochi di nuova generazione è addirittura possibile stabilire il tipo d’inquadratura) o di una qualsiasi serie televisiva.

Non c’è tradimento del mondo o del personaggio, l’eroe rimane nel suo iperuranio fantastico e non si sporca dell’immanenza del reale attraverso la “possessione” del corpo di un attore. Al massimo, si può accettare il contrario, ovvero che un attore dia vita ad un personaggio digitale con le sue fattezze a patto che questo rimanga tale.