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Elezioni Francia, Google aiuta o minaccia la democrazia?

Roberto Capocelli

Se qualcuno avesse ancora dubbi circa le mire della grande G, è ora di sgombrare il campo: l’ultima trovata della Silicon Valley si chiama “Protect your elections”.

In previsione delle elezioni francesi, infatti, Google ha messo a disposizione un servizio, gratuito naturalmente, per proteggere siti di informazione ritenuti chiave nel processo elettorale.

Il meccanismo è semplice; tramite una richiesta online si dà a Google l’autorizzazione di ridirigere il traffico del proprio sito sui server Google così da essere protetti dagli attacchi DDoS (Distributed Denial of Service).

Leggendo i termini e condizioni c’è scritto naturalmente  che l’azienda raccoglie log del traffico e altri dati per migliorare il servizio. C’è anche scritto che i dati non verranno utilizzati a fini pubblicitari  ne’ per migliorare i risultati delle ricerche. Ma nessuno, anche giustamente, può impedire a Google di analizzare quel traffico e farsi un’idea su tendenze,  relazioni, e altre informazioni cruciali.

“Un’opportunità” si usa dire nel mondo del business, e di opportunità si tratta senza dubbio; mentre si garantisce la libertà di espressione, infatti, accade anche che si entra anche in possesso di informazioni strategiche. Un’opportunità eccome. Soprattutto un’opportunità persa per le istituzioni democratiche che vengono sempre di più relegate al margine dei processi che contano: lo ricordava lo scomparso Alfredo Reichlin in una bellissima intervista su Repubblica, “i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione”.

Innanzitutto viene da chiedersi quante elezioni siano state influenzate da attacchi DDoS e la risposta non è ovvia.

Ma abbandoniamo pure i dubbi circa il processo di creazione di bisogni ed entriamo nel merito: l’idea è nobile, ma il diavolo come sempre è nei dettagli.

La libera circolazione delle informazioni è necessaria (e non sufficiente) per la democrazia, non ci piove. Ma il fatto che una sola azienda privata abbia accesso e gestisca le informazioni di miliardi di persone, incluse quelle di altre aziende e di istituzioni, non rappresenta forse una minaccia proprio a questo processo democratico?  Intendiamoci l’argomento non è che Google sia cattivo anche se gli escamotage fiscali adottati in Europa non sono proprio roba da buoni: anche se lo fosse, comunque, rimane sempre di gran lunga meglio dei regimi autoritari di vario genere e natura che impongono controlli e censura sulle informazioni.

Ma l’idea alla base della democrazia (e del libero mercato) è, e resta, quella della divisione dei poteri: non è una caso che si sia arrivati alla separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

Non c’è ragione per cui il potere algoritmo che ogni giorno di più si impone come strategico al funzionamento degli altri poteri debba essere concentrato in poche corporation private e tutte di uno stesso paese. Semplicemente non è logico che nella disputa fra profeti della rivoluzione made in Silicon Valley e governi repressivi che puntano alla censura, i paesi europei non uniscano le forze per lanciare un modello alternativo di internet in cui la sovranità delle informazioni appartiene ai cittadini.

Stiamo assistendo, in diretta, a quello che è a tutti gli effetti un primo passo chiave da parte di corporation multinazionali di accreditarsi addirittura come garanti del regolare svolgimento del dibattito democratico e forse, un domani non troppo lontano, della stessa democrazia.

Cioè tanto per essere chiari, un’azienda privata offre di fare da garante del processo democratico di paesi stranieri: la stessa azienda che, quando ha potuto, ha utilizzato sofisticate tecniche di triangolazione per non pagare le tasse in Europa colpendo la base stessa del processo democratico, cioè la creazione e distribuzione di ricchezza che garantisce la pluralità. Su ben 22 miliardi di revenue nel 2015, infatti, Google ha pagato 47 milioni di euro di tasse sfruttando espedienti vari.

Tanto per essere chiari, è come se un lavoratore che guadagna 22.000 euro lordi all’anno pagasse circa 400 euro di tasse oppure uno che guadagna 1800 euro lordi al mese ne pagasse 33. Un bell’affare senza dubbio, forse non molto democratico. La promessa “don’t be evil” è già stata tradita.

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