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elex. Il Primo emendamento protegge Google?

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È una decisione interessante quella resa dalla Superior Court dello Stato della California, nella quale si afferma, forse per la prima volta (se si esclude un isolato precedente del 2007), che l’elenco dei risultati della ricerca di Google e i relativi criteri di indicizzazione rientrano nell’alveo del Primo emendamento della Costituzione americana e sono espressione del free speech.

#elex è una rubrica a cura dello Studio Legale E-Lex – Belisario, Scorza, Riccio & Partners, si occupa di leggi, norme e aspetti legali che riguardano il mondo del digitale con particolare attenzione al tema della privacy e dei diritti degli utenti.
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Il caso è il seguente. CoastNews, un sito che si occupa di food, lamenta che il proprio posizionamento sul più grande motore di ricerca sarebbe penalizzante: il sito, infatti, sarebbe collocato molto in basso tra i risultati della ricerca, a differenza di quanto avviene su Bing e Yahoo. Secondo il gestore del sito, ciò sarebbe dovuto ad una precisa strategia di Big G, che punterebbe a danneggiare un suo potenziale concorrente.

Analoghe accuse, nel recente passato, sono state mosse anche da Yelp e Travelocity: Google sta investendo nel settore dell’intermediazione per la ristorazione e nei viaggi e collocherebbe volutamente prima i propri servizi e solo successivamente quelli dei competitor.

Secondo i giudici californiani, però, Google non avrebbe alcun obbligo di indicizzare in maniera neutrale i siti internet, in parte contraddicendo la tesi da sempre sostenuta dal gigante di Mountain View.

La difesa, nel caso di specie, è stata però diversa. Google si è appellata alla legge anti-SLAPP dello Stato della California, che punisce tutte le azioni giudiziarie dirette a scoraggiare la libera partecipazione democratica al marketplace of ideas da parte di imprese e cittadini. L’acronimo SLAPP significa, infatti, strategy law against public partecipation e condotte simili sono sanzionate nella maggior parte degli Stati della federazione americana.

Trincerarsi dietro la neutralità tecnica e l’impossibilità pratica di governare gli algoritmi che producono i risultati della ricerca avrebbe potuto essere agevolmente contestato dalla controparte. Affermare, invece, che Google possa incidere sui risultati della ricerca, evitando di dare visibilità ai siti concorrenti, come espressione della propria libertà di pensiero (e, verrebbe da aggiungere, di iniziativa economica) si è rivelata la scelta vincente.

L’eco della decisione, sebbene si tratti di un precedente statunitense, potrebbe riverberarsi anche oltreoceano. L’idea che Google, che è un operatore privato, non possa essere obbligato a una determinata indicizzazione dei siti internet e che qualsiasi scelta possa rientrare in una precisa strategia imprenditoriale è un’idea che appare lapalissiana.

Non esiste alcun diritto ad essere indicizzati, come la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Google Spain ha evidenziato. Affermare il contrario significherebbe riconoscere un ruolo pubblicistico ai motori di ricerca: una conclusione rischiosa, che, a parere di chi scrive, andrebbe scongiurata.

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