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Election Day, l’America divisa in due. Ma Biden è ad un passo dalla Casa Bianca

di Fernando Bruno, giornalista e scrittore |

A 48 ore dalla chiusura delle urne, gli Stati Uniti non conoscono ancora il nome del loro prossimo presidente. Joe Biden però, è sempre più vicino a diventare il nuovo inquilino della casa bianca.

Written in 1787, ratified in 1788, and in operation since 1789, the United States Constitution is the world’s longest surviving written charter of government. Its first three words – “We The People” – affirm that the government of the United States exists to serve its citizens.

È con queste poche e sobrie righe che il sito web del Senato presenta la Costituzione americana, redatta dai padri fondatori e passata praticamente indenne attraverso oltre due secoli di tumultuose trasformazioni.

We the people. Quante volte abbiamo letto o ascoltato questo solenne incipit. Ho trovato molto significativo che a questo incipit, a spoglio non ancora concluso – e mentre il suo competitor convocava gli avvocati per avviare le strategie di contrasto giudiziale del responso popolare – Joe Biden abbia inteso ispirare il suo primo intervento pubblico.

Sono tra coloro che pensano che il change alla Casa Bianca cui stiamo per assistere sarà tra i più forti e radicali mai visti, persino superiore a quello del 2008 tra Bush e Obama. Troppo di rottura con la storia e la tradizione istituzionale e diplomatica americana il quadriennio trampiano, perché così non sia.

The supremacy of the people through their elected representatives. Questo, dunque, il filo conduttore della prima riflessione pubblica del probabile nuovo Presidente USA. Un sovvertimento di contenuti, di toni, di stile rispetto al predecessore. E anche il primo impegno politico assunto – rientrare immediatamente nell’Accordo di Parigi su clima, energia e ambiente – segna una cesura fortissima rispetto all’eredità di Trump ed alle sue derive.

Il resto lo vedremo nei quattro anni che verranno. Anche se personalmente un programma già pronto e ben scritto lo vedo proprio lì, a portata di mano dell’assai probabile nuovo presidente.

“Alle persone che nelle capanne e nei villaggi di mezzo mondo lottano per spezzare le catene di una miseria diffusa, promettiamo il nostro massimo sforzo per aiutarli a provvedere a se stessi, non perché i comunisti facciano altrettanto, non perché vogliamo il loro voto, ma perché è giusto. Una società libera che non è in grado di aiutare i molti che sono poveri non riuscirà mai a salvare i pochi che sono ricchi. (…) A quelle nazioni che potrebbero divenire nostre avversarie, offriamo non un impegno, bensì una richiesta: che entrambe le parti inizino ex novo la ricerca della pace, prima che le potenze tenebrose della distruzione scatenate dalla scienza causino l’autoannientamento, deliberato o accidentale, di tutta l’umanità. (…). La campana ci chiama ancora una volta, non per portare le armi, anche se ne abbiamo bisogno, non per una battaglia, sebbene siamo già in battaglia, ma per portare il peso di una lunga e oscura lotta, anno dopo anno, “rallegrandoci nella speranza, pazienti nella tribolazione”, una lotta contro i nemici comuni dell’uomo: la tirannia, la povertà, le malattie e la stessa guerra. Possiamo dar vita a una grande alleanza globale, Nord e Sud, Est e Ovest contro questi nemici, in modo da poter assicurare una vita più fruttuosa a tutta l’umanità? Vi unirete a questo sforzo storico?”.

Era il 20 gennaio 1961 e il mondo era in piena guerra fredda. Queste sono alcune delle parole con cui JFK saliva al Campidoglio come 35° Presidente USA. Il mondo è cambiato radicalmente da allora. Travolti i suoi vecchi equilibri geopolitici. Travolte le strategie di ricerca del consenso. Travolte le forme del lavoro, le propensioni al consumo, le gerarchie esistenziali.

Ma a ben vedere i grandi problemi, su scale differenti e con differenti intensità, restano gli stessi. Guerre e conflitti; povertà vecchie e nuove; fame e sottosviluppo; emergenze ambientali climatiche e sanitarie; diritti ed uguaglianza di opportunità; pace e coesistenza. Se gli Usa vogliono riprendersi l’egemonia planetaria, magari declinata in termini gramsciani piuttosto che in chiave da vecchia superpotenza, sono ancora questi – fuori dalla inevitabile retorica di ogni declamazione – i temi che dovranno comporre l’agenda.

Se anche solo qualcuno di essi troverà da subito posto nei progetti del neo-presidente, allora l’era di Trump potrà lentamente essere respinta nell’incubo che l’ha generata. Compito arduo, perché se una immagine questo election day 2020 ci ha trasmesso, è quella di un paese lacerato, radicalmente diviso, spaccato in due nella sua anima più profonda. Ricomporre è compito davvero da far tremare i polsi. Vaste programme sussurerebbe De Gaulle.