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eJournalism, se i tweet diventano notizie

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Le vicende che in questi giorni hanno visto come protagonisti alcuni dirigenti di Uber – il controverso servizio di trasporto privato – accusati di monitorare in maniera scorretta i comportamenti di alcuni giornalisti stanno alimentando un interessante dibattito sul ruolo dei media sociali nella ‘’copertura’’ in tempo reale della cronaca.

#eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e LSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione).

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Secondo Mathew Ingram (Gigaom) il pullulare di ceo, presidenti e fondatori di grandi aziende che twittano e ritwittano in prima persona ‘’può essere una buona cosa’’, ma ‘’il rischio è che questa infinita offerta di fonti – molte delle quali con interessi ed agende propri – porti a un maggior rumore e a una maggiore confusione, e orientarsi in tempo reale diventi sempre più difficile. Un buon motivo per cui ci sarà bisogno di più giornalisti di prima’’.

Ingram parte da una segnalazione di Spencer Rascoff, CEO di Zillow, un servizio immobiliare online, che in una serie di tweet ha segnalato come la vicenda Uber sia stata sviluppata in tempo reale sulle piattaforme social come Twitter, sui blog e su nuovi media, come BuzzFeed, e solo in seconda battuta da i media tradizionali come il New York Times.

Ci si dimentica che Twitter e Facebook e i blog non sono sempre esistiti – osserva Ingram -, e che gli amministratori delegati delle aziende e gli investitori non sono sempre stati in grado di commentare o rispondere alle accuse o alle critiche in modo così rapido e semplice. L’impatto di questo fenomeno – che un pioniere dei blog come Dave Winer ha chiamato “the sources going direct” (le fonti prendono la parola direttamente) – è innegabile, e probabilmente in crescita.

Om – ricorda Ingram – ne ha parlato nel 2012, dopo che Jack Dorsey aveva spiegato i perché del ridimensionamento del suo ruolo a Twitter, e Mark Zuckerberg aveva commentato alcuni nuovi sviluppi a Facebook sulla sua pagina personale. Finisce quindi per sembrar strano se un amministratore delegato o il fondatore di una di queste aziende non twittano o non bloggano, diventa quasi sospetto. In molti casi adesso è proprio da qui che comincia la notizia e questo sta cambiando il lavoro del giornalista in molti modi, alcuni dei quali non sempre evidenti.

“C’ è un offuscamento della linea di demarcazione tra una notizia e un tweet, una foto o un post su un blog e (…) questo significa che il ruolo dei media sta cambiando “.

E’ un bene o un male?

Dipende molto dal tuo punto di vista.

Ovviamente se sei il New York Times o qualche testata tradizionale, probabilmente non è una buona cosa, perché non sei preparato a tutto questo e ci vuole tempo per capire che non fai più ‘’la’’ notizia, o almeno non tanto. Molti giornalisti resistono a questo nuovo ruolo di aggregatore o interprete perché preferirebbero essere dei gatekeeper, che filtrano le informazioni.

Non è chiaro se questa democratizzazione della distribuzione dell’informazione (come l’ha definita Om) sia una buona cosa in relazione al modo in cui noi percepiamo o comprendiamo una storia complessa.

Reazioni scandalizzate che incidenti come quello di Uber o delle sparatorie a Ferguson – o la rivolta in Ucraina, per usare un altro esempio recente – possono essere utili in molti modi, perché possono realmente contribuire a promuovere e ad alimentare il cambiamento. Ma questo tipo di evento social-mediatico può anche essere una distrazione, nel senso che la gente che twitta o ritwitta pensa di star compiendo qualcosa quando in realtà non lo stanno facendo.

“Potrà mai un hashtag sul boicottaggio di Uber cambiare davvero qualcosa?”, chiede Ingram.

Il più è davvero sempre il meglio?

La sociologa della University of North Carolina Zeynep Tüfekci, che ha studiato l’influenza dei social media su avvenimenti come la rivoluzione in Egitto nel 2011, ha sollevato la questione dopo le rivolte in Turchia dell’inizio di quest’anno: Twitter è stato uno strumento fondamentale per gli attivisti per diffondere le loro posizioni sul pessimo comportamento del governo, ma potrebbe anche aver indebolito una parte dell’energia che un tempo sarebbe andata nella lotta per un cambiamento politico concreto.

“E se il nuovo potere che i social media danno ai comuni cittadini fosse anche parte del nuovo problema? Che cosa succede se le stesse capacità dei social media – forti capacità sul piano dell’organizzazione e della logistica – portassero a carenze che poi rischierebbero di far zoppicare i movimenti, almeno nel breve-medio termine?”.

Alla fine – conclude Ingram -, penso che avere tutti questi Ceo e presidenti ed eserciti di gente che twittano o bloggano sia una cosa buona, anche se la fonte di queste informazioni stiano cercando di influenzare l’opinione pubblica, o di evitare di prendere delle decisioni reali che avranno un impatto effettivo. La natura non filtrata (o solo appena filtrata) di questo tipo di comunicazione è senza dubbio migliore rispetto al tempo in cui ricevevamo tutte le notizie da un paio di fonti tradizionali.

Il rischio è che questa infinita offerta di fonti – molte delle quali con interessi ed agende propri – porti anche a un maggior rumore e a una maggiore confusione, e orientarsi in tempo reale diventi sempre più difficile. Un buon motivo per cui ci sarà bisogno di più giornalisti di prima.

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