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Ecco perché le resistenze contro la digitalizzazione dell’Italia sono dure a morire

Raffaele Barberio

Qualche giorno fa è stato presentato una ricerca sul welfare, realizzata dal CENSIS in collaborazione con il Forum Ania-Consumatori, nel quale viene rilevato che gli italiani considerano essenziale il welfare per la coesione sociale e lo sviluppo, ma le difficoltà economiche hanno modificato lo scenario e cambiato la percezione dei cittadini riguardo a determinati aspetti della spesa sociale. Infatti, si legge nel comunicato, “…sono sempre meno tollerati inefficienze, sprechi, comportamenti opportunistici, tanto più in un ambito che dispone di risorse pubbliche sempre più scarse e dovrebbe garantire il massimo della trasparenza nell’utilizzo delle risorse”.

Nel documento di legge anche che “…il 58% degli italiani è convinto che molti dei tagli nel welfare siano stati utili per colpire sperperi e inefficienze. Ma per il 71% ci sono ancora troppi sprechi nella sanità”.

Fin qui un quadro grave, ma responsabile, da cui emerge la consapevolezza degli italiani come cittadini e come utenti.

Il problema sorge però quando si guarda l’altro lato della luna.

Ed è un quadro allarmante perché descrive un welfare in cui i cittadini «si arrangiano».

In un anno, 13,5 milioni di italiani dichiarano di aver saltato la lista di attesa ricorrendo a conoscenze, amicizie, raccomandazioni oppure facendo regali o addirittura pagando.

Il quadro delineato dal CENSIS mette in luce un sistema caratterizzato da evidenti elementi di opacità (per usare un eufemismo) che favoriscono comportamenti opportunistici e l’uso inappropriato (corrotto) delle risorse (pubbliche).

Ora, si badi bene, se 13,5 milioni di italiani ricorrono a questi mezzi di corruzione velata, verrebbe voglia di dire, per amor del paradosso, che ve ne sono altrettanti, ovvero altri 13,5 milioni di italiani, che sono stati danneggiati.

Ma se questo può essere un paradosso, appare invece ben più allarmante il fatto che se 13,5 milioni di italiani hanno usufruito in modo irregolare di privilegi nelle liste di attesa, vi è stato un altro esercito di persone (non nell’ordine di milioni, ma comunque delle decine di migliaia) che ha elargito favori in modo indebito ed approfittando del proprio ruolo pubblico. Ovvero, ha abusato in modo inappropriato del proprio potere per ricevere illecitamente denaro, cortesie di ricambio o per sdebitarsi di privati favori già consumati.

Ne viene un quadro desolante di piccola corruzione diffusa e culturalmente considerata come accettabile e parte integrante del gioco o del “vivere comune”.

Certo se avessimo in tutta la sanità sistemi digitalizzati di prenotazione, gestione, valutazione di qualità di tutte le prestazioni sanitarie, questo non accadrebbe.

Ma siamo sicuri di volerlo?

Siamo sicuri di volere tutti un’Italia digitale?

Siamo sicuri che oltre a dire di essere consapevoli che il welfare è stato usato male negli anni, come siamo pronti a rispondere all’intervistatore di questa o quella società di rilevazione, siamo anche disposti a metterci pazientemente in fila e aspettare il nostro turno per l’esame radiologico?

E come bloccare quel piccolo esercito di addetti al favoritismo o nemici della collettività (anche se loro sono convinti di esserne i servitori) che, lavorando alle dipendenze pubbliche, usano le strutture presso le quali operano come strumenti personali usati per esercitare un potere altrettanto personale di anticipazione di date delle visite o di collocazioni con questa o quella struttura, con questo o quel medico?

In sostanza, siamo sicuri che a questi signori che lavorano in una sanità che da sola copre, a seconda dei territori, dal 60% all’85% dei bilanci delle Regioni italiane interessi veramente avere una digitalizzazione delle procedure che faccia risparmiare tempo e denaro, assicurando efficienza e trasparenza?

La risposta è no.

Perché c’è da temere l’esistenza di un esercito di persone che lavora nella Pubblica Amministrazione centrale (ministeri, agenzie, enti ecc.) e locale (Sanità, Comuni, partecipate ecc.) che non rinuncerebbe mai alla possibilità di poter esercitare il piccolo potere discrezionale che il proprio ruolo pubblico gli assicura.

L’Italia ha purtroppo questa componente nel DNA e quell’esercito di elargitori potrebbe essere ridotto a più miti consigli solo se vi fossero delle condizioni di nuove procedure imposte dall’alto e capaci di imporre comportamenti virtuosi. Altro che alfabetizzazione digitale.

Difficile, in tale contesto, immaginare l’impatto positivo di tavoli di concertazione e cabine di regia costruite intorno alle agenzie preposte alla digitalizzazione del Paese, a partire da AGID che appare svuotata di ogni ruolo e sottoposta alle direttive di un Commissario straordinario del digitale.

Appaiono tutte perdite di tempo.

Qui vedremo cosa sarà capace di fare Diego Piacentini.

Vedremo se avrà la tempra di impugnare il bisturi e fare scelte nette che potranno dare un seguito ai proclami sulla digitalizzazione del Paese.

Siamo curiosi di vedere cosa accadrà, ma non pare di riscontrare la volontà politica necessaria, senza la quale qualunque scelta sarà spuntata.

In più non ci pare di vedere le competenze necessarie (dietro proclami e dichiarazioni di guerra contro l’analogico) ovvero le competenze di coloro che conoscono la pubblica amministrazione nelle sue pieghe più intime.

È di questi esperti che abbiamo bisogno, non di informatici, né tantomeno di tecnologia, un elemento questo che si compra su qualunque bancarella dell’innovazione.

Intanto, se dovete fare un esame radiologico in tutta fretta presso una struttura sanitaria pubblica, cercatevi un amico dell’apparato a cui fare un bel regalo.

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