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Disinformazione e Coronavirus: che cosa ci ha insegnato la pandemia

Parlare del mondo pre-Covid-19, oggi, significa almeno parte fissare una fotografia in bianco e nero, la fotografia di un passato che ci sembra lontanissimo. Vale anche per le telecomunicazioni.

Disinformazione: la relazione dell’Agcom

Per questo l’Agcom ha unito alla sua relazione annuale sullo stato delle comunicazioni in Italia anche uno speciale allegato che analizza l’impatto del coronavirus su questi settori. E non si tratta solo delle perdite (ingenti): è proprio il coronavirus in sé a costituire un problema rilevante.

Negli ultimi mesi, chiunque sia iscritto a qualche chat di WhatsApp o Telegram (e cioè più o meno ogni italiano, da chi deve organizzare il calcetto del giovedì sera alle chat di classe dei figli) si è visto arrivare di tutto. «Le mascherine fanno male», «il virus è stato creato da Bill Gates», «c’è dietro Soros», «è colpa del 5G», «la Covid-19 si può curare con le iniezioni di disinfettante» e altri complottismi assortiti: quelli che negli Stati Uniti (una vera miniera di fake news soprattutto in questo periodo) vengono definite teorie da tinfoil hat, cappello di carta stagnola, dal copricapo che nell’iconografia tradizionale i cospirazionisti si mettono in testa per evitare che i loro pensieri vengano intercettati.

Disinformazione e Coronavirus nel mondo

La disinformazione in questo caso non si limita però ai danni, comunque ingentissimi, di un voto elettorale poco informato o di un boicottaggio sui social di qualche marca di merendine: com’è già successo per i no-vax, in questo caso è la salute pubblica a essere in pericolo.

Non credere ad esempio alle regole del distanziamento sociale, o ritenere che la mascherina sia dannosa, significa mettere a repentaglio la propria incolumità fisica e soprattutto quella degli altri; è di pochi giorni fa la notizia d’un giovane americano che, scettico sulla pandemia, ha partecipato a un “Covid-party” (cioè a un festa di quelle che si facevano prima del coronavirus), prima di ammalarsi di Covid-19 e morire.

Il 30% degli italiani ha letto informazioni false sul coronavirus

Chiusi in casa per il lockdown, saldamente connessi alla Wi-Fi delle nostre offerte Internet casa (su SOStariffe.it è sempre possibile trovare quelle più convenienti, anche per affrontare i possibili mesi di futuro smart working), abbiamo utilizzato smartphone e tablet con grande intensità per lavorare, studiare, chattare, guardare video online, navigare sui social, sottoponendoci a un bombardamento di fonti molto superiore di quello a cui siamo solitamente abituati, impegnati col lavoro quotidiano “faccia a faccia”.

Chi non è troppo informato (e su un virus nuovo i dati certi mancano perfino agli scienziati, quindi per chi sceglie di credere quello che vuole c’è ampio campo libero) prima o poi ci è cascato. Con l’immortale formula del «magari non è vero, però…». Come rileva l’Agcom nel suo documento, «nei primi mesi del 2020, e soprattutto in concomitanza dell’esplosione dell’epidemia in Italia, i siti delle fonti di disinformazione (individuate come tali da soggetti esterni specializzati in attività di debunking) hanno raggiunto porzioni crescenti di pubblico». Addirittura quasi un italiano su tre ha consultato siti di disinformazione, una percentuale di undici punti superiore rispetto a marzo 2019: e se si conto che nella fase più critica dell’emergenza questi siti parlavano di coronavirus per circa il 40% dei loro contenuti, è facile comprendere il rischio diffuso.

I motori di ricerca e il redirect dai social network (la classica notizia non verificata diffusa su Facebook) sono la fonte primaria di questi accessi, ma va detto che nell’impreparazione generale perfino alcune tra le organizzazioni e le riviste scientifiche più prestigiose, come l’OMS e The Lancet, sono state costrette a ritrattare quanto detto in precedenza, man mano che la ricerca forniva più informazioni.

Una procedura normale, quando si ha a che fare con un fenomeno nuovo: ma a questo punto i siti di fake news più smaliziati hanno avuto gioco facile a suggerire una narrazione ben precisa alle menti più impressionabili: e cioè che o i massimi organismi mondiali non avessero la minima idea sul come comportarsi per contenere la pandemia o che la verità su quanto stava accadendo fosse in qualche modo nascosta, per i motivi più vari.

Troppe informazioni o troppo poche?

Si è parlato quindi di infodemia, abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no. Con risvolti inquietanti: come ha dichiarato la vicepresidente della Commissione Ue per la Trasparenza ed i Valori, Vera Jourova, nel suo intervento nella commissione Giustizia dell’Eurocamera, «c’è il rischio reale che governi utilizzino l’infodemia per limitare diritti fondamentali e libertà di espressione. L’Unione deve quindi contrastare questo fenomeno».

E lo spauracchio della disinformazione è un’arma a doppio taglio: Jair Bolsonaro, il presidente brasiliano, da sempre contrario alle misure di lockdown, ha parlato proprio della disinformazione come di un’arma «ampiamente usata per aumentare la gravità della malattia». Insomma, ogni governo può definire “fake news” ciò che preferisce, senza un’organizzazione indipendente.

Per questo l’Agcom ha detto di stare sperimentando «metodologie innovative di studio su come gli utenti reagiscono rispetto a notizie di qualità differenti e ne valutano l’affidabilità, sui meccanismi cognitivi che influenzano i processi decisionali sottostanti alla fruizione di notizie, e su come in questi processi si inseriscono le percezioni dei fenomeni e altri elementi caratterizzanti l’individuo e il contesto che lo circonda».

Le patologie dell’informazione

Le «patologie dell’informazione» sono più sottili e insidiose di quelle dell’organismo umano, ma possono essere ugualmente devastanti: in particolare l’assenza di informazioni da parte della Cina durante le prime settimane del contagio è stata duramente criticata.

L’Agcom conclude il suo intervento sul tema della disinformazione facendo capire come le fake news non siano soltanto una questione di salute pubblica, di etica e di principio, ma anche, più banalmente, di soldi: chi ha voluto approfittarsene, durante la pandemia non si è tirato indietro proponendo rimedi miracolosi o invitando a boicottare prodotti del tutto innocui o irrelati alla diffusione del contagio, come nel caso dei FANS. «Raggiri fondati sull’utilizzo di marchi contraffatti, elementi veritieri manipolati e informazioni false su prodotti e aziende (molto diffuse ad esempio nel settore agro-alimentare) rischiano di indurre in confusione i consumatori e di minare la reputazione, anche internazionale, delle imprese italiane, già colpite dalla crisi economica». Proprio quello di cui non si sente il bisogno.

Fonti:

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