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Diritto all’oblio: dalla padella alla brace?

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Entro la fine di novembre, l’Article 29 Working Party (l’organismo che raccoglie i Garanti europei) dovrebbe pubblicare le linee guida che le Autorità nazionali saranno chiamate a seguire nel gestire i ricorsi sul diritto all’oblio.

La decisione del maggio scorso della Corte di Giustizia, che ha sancito il diritto degli utenti alla cancellazione dei risultati dei motori di ricerca, ha avuto ripercussioni notevoli sull’ecosistema di internet. La possibilità di ottenere la deindicizzazione ha spinto tanti ad attivarsi per chiedere la rimozione delle informazioni ritenute datate o, più semplicemente, scomode.

Ad oggi, Google avrebbe ricevuto circa 120 mila richieste di deindicizzazione, pari all’80% del totale delle richieste complessive avanzate nei confronti dei motori di ricerca. Di queste richieste, poco più della metà sarebbero state accolte.

I dati forniti sono complessi da valutare. Innanzi tutto, Google, così come gli altri motori di ricerca, non ha reso pubblici i criteri adottati per stabilire la fondatezza delle richieste di rimozione dei contenuti da parte degli utenti.

Quel che è certo è che è stato nominato un collegio di esperti, autorevoli e con differenti esperienze professionali, per stabilire i criteri da adottare e seguire per selezionare i contenuti che devono essere rimossi. Tuttavia, in attesa della pubblicazione di tali criteri, le richieste vengono gestite quotidianamente, secondo parametri ad oggi ignoti almeno al grande pubblico.

Sono ancora molti i punti interrogativi che attendono una risposta da parte di Google e gli altri motori. Fra i criteri discriminanti per la rimozione c’è forse il decorso del tempo passato dalla pubblicazione? Ma quanto tempo è necessario che passi prima che un contenuto debba per forza essere rimosso? È lecito ammettere che tutte le informazioni siano soggette al medesimo processo di obsolescenza?

Oppure si osserva il canale di informazione da cui si propaga la notizia? Può il diritto all’oblio essere differente per il mainstream e per i netizen? Non è frutto di un percorso schizofrenico l’avvento, da un lato, di un processo di trasmissione dell’informazione bottom up, con tentativi di estendere tutele e garanzie, riconosciute ai giornalisti, anche a blogger o semplici cittadini che condividono immagini e video e, dall’altro, legittimare una diversa durata alla “vita” delle informazioni, ammettendo che quelle prodotte dai canali di informazione tradizionali debbano permanere più a lungo in rete?

Dubbi legittimi, che non sono stati dissipati nel corso degli incontri pubblici, organizzati da Google e tenutisi in varie sedi europee per discutere la delicata faccenda del diritto all’oblio online.

Il recente meeting con il presidente di Google Erich Schmidt che si è tenuto a Roma ha confermato, se ce ne fosse stato bisogno, una visione americanocentrica del motore di ricerca, che vorrebbe estendere garanzie e limiti del Primo Emendamento – norma costituzionale statunitense, è appena il caso di ricordarlo – anche al di fuori dei confini nazionali. Un tentativo, neanche troppo dissimulato, di risolvere in chiave nordamericana quello che, a conti fatti, resta un problema europeo.

Anche i numeri resi pubblici non aiutano a comprendere il problema. Da un calcolo elementare si evince che, se poco meno della metà delle richieste è stata rigettata, ci sono almeno cinquantamila potenziali ricorsi che potrebbero abbattersi, come un’alluvione improvvisa, sulle singole Autorità privacy nazionali, già gravate dal quotidiano disagio di organici insufficienti.

Pare verosimile che numerose richieste siano frutto di scelte pretestuose e del mero desiderio o capriccio che informazioni sgradite siano rese di difficile accessibilità. Ma, in molti casi, la ponderazione degli interessi potrebbe non essere così netta: quali sono le regole che i motori di ricerca adottano all’interno di questa linea d’ombra?

In molti chiedono che sia un’autorità pubblica a valutare la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento delle richieste degli utenti. I Garanti nazionali, ancora una volta, si troverebbero in prima linea per garantire il diritto all’oblio degli utenti. L’istanza è, in linea di principio, corretta e si giustifica alla luce dei più elementari principi costituzionali, volti a sottrarre a soggetti privati, in un contesto dove si scontrano diritti fondamentali, il potere di selezione degli interessi prevalenti.

Siamo sicuri, però, che per questa via non si avvantaggino gli stessi motori di ricerca, interessati a sollevare la questione “politica” dell’impossibilità tecnica di assicurare il rispetto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia?

Da qualsiasi prospettiva si guardi al problema, è un cane che si morde la coda. Ma, in ogni caso, una maggiore trasparenza da parte di Google & Co. sarebbe auspicabile.

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