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Digital Education. La formula ‘del gratis’ sta rovinando i social network?

Internet, social network e, come sempre, Facebook nell’occhio del ciclone. È di pochi giorni fa l’ennesimo attacco di Jaron Lanier contro «il prezzo del gratis» cui ci costringerebbe ogni giorno il mondo della rete: un prezzo che sta non tanto né solo in te, nei tuoi dati, la tua privacy, ma nella «capacità di determinare il cambiamento del tuo comportamento», come afferma Lanier nel suo ultimo libro, «10 motivi per distruggere subito i tuoi account social». Un «suicidio di massa» quello cui siamo condotti dal costo di questa apparente gratuità e che paghiamo invece con la moneta sonante del risucchio dei nostri dati, di una trappola che la rete tenderebbe e in cui finiremmo vittime senza scampo, gabbie che ci tolgono libertà come topi da esperimento.

Una soluzione c’è, tuttavia, anche per Lanier che, lungi dall’essere un catastrofista, vuole invece ricostruire l’«Internet rotto»: mettere i social a pagamento.

Un prezzo al Like, insomma, per toglierlo a noi stessi. Quanto costerebbe? Se 91,5 dollari è la somma guadagnata a utente da Facebook in pubblicità, la fee individuale mensile che dovremmo pagare per toglierci di mezzo la #SocialAds ammonta a 7,63 dollari. In quanti però sarebbero disposti a pagare? I risultati al momento non sono confortanti: si arriverebbe solo al 23%.

La pubblicità e le sue conseguenze non sarebbero dunque, di fatto, così drammatiche, o al contrario c’è sempre relativamente meno voglia di star su social e dunque, tantomeno, di spendere pure per trascorrervi del tempo? Nell’attesa di sciogliere il quesito, ecco che arriva un secondo colpo – una nuova tegola, diremmo, specie alla luce dei primi feedback: i video pubblicitari in autoplay direttamente entro la messaggistica privata della piattaforma di Zuckerberg. «Ecco come Facebook sta per rovinare Messenger», sì è titolato quasi ovunque in America, lasciando già capire il sentiment comune, non particolarmente favorevole già dal principio alle scelte di Zuckerberg. «La grande domanda», si chiede non a caso Recode: «Gli utenti saranno davvero così felici di vedersi piombare dentro i loro messaggi privati video pubblicitari che partono da soli?». E rincara: «Non finiranno per trovarla intrusiva, insopportabile, odiosa?». L’attività era invero partita già 18 mesi fa, ma si trattava di video statici. «Siamo consapevoli del rischio e monitoreremo con grande attenzione il comportamento degli utenti», rispondono da Facebook, «per capire se andare avanti o meno». «La priorità assoluta per noi», spiega Stefanos Loukakos, a capo delle attività di Messenger, «è la User Experience».

Se l’attenzione per l’utente è così grande, da Facebook dovrebbero dunque ben conoscere quella che ormai viene da tutti definita come la «fuga dei giovani» dalla piattaforma. Un allontanamento che probabilmente sarà aumentato da questa novità, non solo online ma anche offline. È di queste ore infatti la notizia: già adesso i talenti di Stanford, MIT, Harvard, Yale stanno perdendo interesse a lavorare in Facebook. Si registra un calo del 4%. Molto maggiore invece l’aspirazione a lavorare in compagnie come Google, Amazon e Tesla.

I colpi non sono bastati? Ecco in arrivo il quarto: che ahinoi non stupisce troppo. La recentissima pubblicazione del report di Knight Foundation’s e Gallup, rilanciato da Poynter, sulla mappa del giudizio dato all’affidabilità delle testate oggi, se è già scoraggiante in sé, lo è particolarmente per le notizie rilanciate da social. In USA, il 39% delle news di giornali, TV o radio è ritenuto fonte di disinformazione. Per non parlare, appunto, del mondo della rete in generale, con particolare attenzione al mondo social: per il 65%? Solo #FakeNews.

Risultati non dissimili da quelli che, quasi in contemporanea, ci giungono da eMarketer. A maggio una ricerca condotta da Rad Campaign ha scoperto che il 61% non ha più fiducia nei social networks. I Millennials, gli utenti tra i 18 e i 35 anni, sono stati i meno critici verso le piattaforme social; la maggioranza di loro però, il 56%, ha ulteriormente confermato di non fidarsi dei social network, soprattutto dal punto di vista della privacy e della protezione dei dati.

Siamo tutti a conoscenza di apparenti contraddizioni come quelli restituiti da un recente studio di Thomson Reuters condotto da Ipsos: dopo lo scandalo Cambridge Analytica, infatti, quasi la metà degli utenti Facebook ha mantenuto intatta la frequenza di uso della piattaforma. Tuttavia, sempre lo stesso studio ha mostrato che le preoccupazioni sulla privacy hanno limitato fortemente la quantità di contenuti personali condivisi dagli utenti, su Facebook anzitutto e poi sugli altri social.

Spiragli di luce? Uno recentissimo arriva da un «vecchio gigante» tornato in grande spolvero sotto i riflettori: «Firefox Is Back», ha titolato il New York Times. «Firefox è tornato. Ed è ora di dargli una chances». I motivi? Due in particolare. Anzitutto, garanzia di tre caratteristiche fondamentali per un browser oggi: minimo consumo di batteria, massima velocità, massima protezione della privacy. Anche contro l’Intrusività di Facebook, la sua bulimia verso le nostre informazioni personali, per cui siamo tracciati non solo online ma anche offline: grazie all’innovativa estensione Facebook Container, infatti, la tua identità Facebook viene isolata in una tab separata, per evitare che il social ti tracci anche fuori dalla piattaforma.

Quando sei nella tab, navighi normalmente in Facebook; quando però clicchi su un link non appartenente alla piattaforma, la pagina si carica al di fuori del container, così che la tua attività online extra rimanga protetta. Seconda idea vincente, l’integrazione con Pocket: acquisito da Mozilla a febbraio 2017, rientra nel progetto di voler fornire alle persone strumenti più potenti per scoprire contenuti di alta qualità e potervi accedere da ogni piattaforma.

Un altro step del Context Graph initiative, per una vera alternativa al Facebook Graph, un nuovo, più autentico News Feed.

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