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Digital Crime. Sì all’uso delle tecnologie nelle indagini, ma tutelare anche la privacy degli indagati

di Paolo Galdieri, Avvocato, Docente di Informatica giuridica, LUISS di Roma |

Le opportunità offerte dalla tecnologia, se da un lato offrono maggiori possibilità di risultato in termini di prevenzione e repressione dei reati, dall’altro possono finire con il minare le garanzie dell’indagato ed intaccare i diritti anche dei terzi in qualche modo coinvolti.

La rubrica Digital Crime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Sempre più le tecnologie sono indispensabili per contrastare la criminalità, che di queste ne fa largo uso. Da tempo gli inquirenti si imbattono in quella che viene comunemente definita “scena del crimine virtuale”, caratterizzata dalla presenza di beni digitali ( computer, smartphone, tablet, ecc.), attraverso l’analisi dei quali è possibile rintracciare elementi utili  per le indagini.

Parimenti particolarmente efficaci si rivelano le intercettazioni informatiche e gli altri mezzi di ricerca della prova digitale, sequestro, perquisizione e ispezione informatica, previsti oggi grazie alla legge 48 del 2008. Potente mezzo investigativo, da poco entrato nel codice di procedura penale attraverso il Decreto legislativo n.216 del 2017, è sicuramente il captatore informatico che, a determinate condizioni e rispetto al perseguimento di specifici reati, può essere inserito in dispositivi mobili e, attraverso l’attivazione del microfono, apprendere delle conversazioni tra presenti.

Le opportunità offerte dalla tecnologia, se da un lato offrono maggiori possibilità di risultato in termini di prevenzione e repressione dei reati, dall’altro possono finire con il minare le garanzie dell’indagato ed intaccare i diritti anche dei terzi in qualche modo coinvolti. Il discorso valido in generale lo è ancor di più in relazione all’impiego del captatore che, come noto, ha grandissime potenzialità invasive.

Il dibattito che ha preceduto (e che sta proseguendo) il riconoscimento giuridico dell’impiego del captatore, ripropone la contrapposizione tra due schieramenti . Da una lato, vi sono coloro che, in nome delle esigenze di giustizia e verità, invocano un uso delle tecnologie al massimo delle loro potenzialità, considerando che le stesse consentono di raggiungere risultati in fase di indagine altrimenti non perseguibili e osservando come questo sarebbe l’unico modo per contrastare una criminalità sempre più tecnologicamente preparata. D’altro, vi sono coloro che, proprio alla luce delle enormi potenzialità delle tecnologie, ne auspicano un uso limitato, evidenziando il rischio della lesione delle garanzie dell’indagato e di diritti fondamentali, per restare all’uso del captatore, il pericolo di sistematiche violazioni degli art. 14 e 15 della Costituzione e dell’art. 8 CEDU.

Entrambe le tesi pongono alla base argomenti validi. La prima ha il merito di sottolineare come non possa farsi più a meno dell’uso delle tecnologie per contrastare la criminalità. La seconda pone il problema, certo non secondario, delle garanzie e della tutela dei diritti.

Ciò posto, se non si può negare agli inquirenti la possibilità di utilizzare gli strumenti e le risorse digitali, tale impiego non può essere realizzato al massimo delle loro potenzialità, bensì all’interno di una cornice giuridica, che tenga ben presente i diritti fondamentali coinvolti. In altre parole, il fatto che tutto si può fare con le tecnologie non significa che vado fatto ad ogni costo, pena la violazione di principi fondamentali.

Se è vero, ad esempio che una conservazione “senza tempo” dei dati da parte dei provider si rivelerebbe tal volta utile alle indagini, è altrettanto vero che ciò andrebbe contro quel diritto alla riservatezza, che deve comunque essere garantito. Stesso discorso in relazione alla perquisizione informatica. Il fatto che in alcuni casi si potrebbe agevolmente entrare attraverso il sistema per il quale la perquisizione è stata disposta in un altro collocato all’estero e ad esso collegato, non  significa che tale attività sia giuridicamente corretta, considerato che per apprendere beni non virtuali servirebbe la rogatoria internazionale e quindi la collaborazione dell’ altro Paese interessato.

Per quanto concerne il captatore, probabilmente, il legislatore avrebbe fatto bene ad escludere totalmente il suo utilizzo per reati diversi da quelli di criminalità organizzata e terrorismo, invece che negarne l’impiego solo rispetto al domicilio e alla privata dimora. Così statuendo, infatti, non si scongiura il pericolo di possibili, se non probabili, forzature investigative, considerata l’impossibilità di stabilire a priori i luoghi dove verrà condotto il dispositivo da parte del soggetto intercettato e ritenendo che l’inutilizzabilità delle informazioni eventualmente acquisite non garantisce di per sé la tutela dei diritti.