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Digital Crime. La violenza sessuale virtuale

Violenza sessuale virtuale

Attraverso la rete, come ormai noto, è possibile compiere qualsiasi condotta, sia essa lecita che illecita. Ve ne sono alcune, tuttavia, la cui comprensione non sempre è agevole, essendo difficile immaginarne la realizzazione a distanza.

La rubrica #DigitalCrime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale.
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Proprio per tali ragioni ha destato non poche perplessità una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. III, n. 16616/15) che ha confermato la condanna per violenza sessuale realizzata mediante l’utilizzo di social network e webcam. Nel caso di specie, in particolare, il soggetto, attraverso le suddette tecnologie, aveva compiuto atti di autoerotismo dopo essersi assicurato che alcune minori lo avrebbero guardato attraverso webcam.

Per comprendere la portata di tale decisione, tra l’altro in perfetta sintonia con precedenti pronunce, pare necessario prendere le mosse dall’art. 609 bis, c. 1, c.p., riguardante appunto il delitto di violenza sessuale. La norma sanziona “chiunque, con violenza o minaccia, o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”; allo stesso modo, il c. 2 contempla, quale illecito penale, la condotta di “chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali”, abusando delle condizioni della persona offesa o traendola in inganno.

Orbene, il primo problema che si pone – rispetto ai casi come quello sottoposto ai Giudici di legittimità – è quello di comprendere se sia possibile realizzare una prestazione sessuale a distanza.

Tale possibilità è stata subito riconosciuta in tema di prostituzione, affermandosi che l’attività di meretricio può essere anche caratterizzata da atti sessuali compiuti dalla prostituta su se stessa in cambio di una retribuzione, e conseguentemente essere svolta a fronte della presenza in due luoghi diversi dei soggetti coinvolti, pensiamo alla prestazione richiesta ed effettuata per via telefonica (Cass. Sez. III, n. 7368/12) o attraverso internet, ad esempio in videoconferenza via web-chat (Cass., Sez. III, n. 15158/06).

Parimenti in relazione all’art. 609-bis, c.1, c.p. si è più volte ribadito che il reato di violenza sessuale non sia esclusivamente caratterizzato dal contatto corporeo, potendosi estrinsecare anche nel compimento di atti di autoerotismo effettuati a seguito di costrizione o induzione (Cass., Sez. III, 37076/2012).

Proprio sulla scorta di tali considerazioni si tende a ritenere che il delitto in parola, quando consiste nel compimento di atti sessuali su se stessi, possa essere commesso anche in ambito virtuale (Cass., Sez. III, n. 12987/08).

Ciò troverebbe conferma nel fatto che la norma non richiede, all’interno dell’elemento oggettivo del reato, una contestualità spaziale, ben potendo la minaccia o la violenza essere posta anche in luogo diverso da quello in cui il soggetto passivo la subisce, essendo invece essenziale che l’abuso venga, da quest’ultimo, effettivamente percepito (Cass., Sez. III, 37076/2012).

Forte di tale convincimento si è esclusa la possibilità di applicare “automaticamente” ai casi di violenza sessuale virtuale la circostanza attenuante speciale del fatto di lieve entità. Si è a tal riguardo precisato, infatti, che, ai fini dell’accertamento della diminuente prevista dall’art. 609 bis, c. 3 c.p., debba farsi riferimento, oltre che alla materialità del fatto, a tutte le modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa, nonché al danno arrecato alla parte lesa, anche e soprattutto in considerazione dell’età della stessa o di altre condizioni psichiche in cui versi (Cass., Sez. III, n. 16616/15; Cass. Sez. III, n. 45604/07).

L’orientamento seguito dai giudici di merito e di legittimità, seppur condivisibile alla luce dell’ordinamento vigente, non elimina i dubbi in ordine alla equiparazione tra la violenza sessuale tradizionale e quella digitale. La stessa giurisprudenza, invero, riconosce una differente invasività nel caso di “violenza sessuale virtuale” rispetto a quella reale (Cass., Sez. III, n. 16616/15).

Orbene, proprio partendo da tale dato pacifico, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore atto ad impedire un’equiparazione tra condotte sensibilmente differenti, sia sotto il profilo della pericolosità che dell’invasività della sfera sessuale della vittima. Non c’è dubbio, infatti, che la violenza o minaccia realizzata a distanza, al fine di ottenere il compimento di un atto sessuale sia meno efficace di quella realizzata “in presenza”, atteso che il soggetto che la subisce ha maggiori “vie di fuga”. Allo stesso tempo, come riconosciuto dalla stessa Cassazione, è evidente che la prestazione sessuale realizzata direttamente nei confronti della vittima si caratterizzi per un’invasività sicuramente maggiore.

Già in passato, d’altra parte, proprio per evitare l’operatività di disposizioni previgenti in contesti sensibilmente nuovi, si era avvertita l’esigenza di prevedere i cd. reati informatici attraverso la L. 547 del 1993, necessità nuovamente avvertita in sede di formulazione del reato di pornografia minorile, dove il legislatore ha ritenuto di dover sanzionare specificatamente la divulgazione telematica di materiale pedopornografico, e ciò proprio al fine di evitare “interpretazioni acrobatiche”.

La previsione di una norma espressamente riferita alla violenza sessuale virtuale consentirebbe, tra l’altro, di delineare gli esatti contorni della fattispecie, così da garantire anche una maggiore efficacia deterrente.

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