GIURISPRUDENZA

Digital Crime. Istigazione alla pedofilia: pericolo maggiore on line?

di Giulia Scalzo |

Lo spirito di protezione verso i minori ha portato anche il nostro legislatore ad introdurre nel codice penale l’art. 414-bis, rubricato “istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia”.

Nel nostro ordinamento la libera manifestazione del pensiero è un diritto fondamentale, tutelato a livello costituzionale mediante l’art. 21. Grazie alla costante evoluzione delle tecnologie, poi, ciascuno di noi oggi può comunicare le proprie ideologie, riuscendo a raggiungere anche un pubblico molto esteso, non più solo attraverso mezzi dispendiosi come la stampa, ma solo con un click del mouse e qualche social network.

La rubrica #DigitalCrime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale.
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Tutto questo, se da un lato rappresenta la più alta forma di civiltà, dall’altro può raggiungere livelli estremi in cui lo Stato deve intervenire, specialmente se tale diritto riesce a ledere i minori.

A riguardo, pensiamo a quello che sta succedendo in questi giorni a New York, dove sono scattate numerose proteste per dei ragazzi che girano per Times Square, coperti solo dal body painting, che si mettono in posa per delle foto, raggranellando così qualche soldo dai turisti. Alcuni di questi sono solo adolescenti e molti hanno gridato all’istigazione alla pedopornografia. Lo stesso è accaduto qualche tempo fa in Italia con lo spettacolo teatrale “Victor”.

Se le condotte sopra riportate potrebbero considerarsi un po’ borderline rispetto ad un reato grave quale quello dell’istigazione o apologia alla pedopornografia, ne esistono delle altre perpetrate attraverso le nuove tecnologie, specialmente mediante social network come Facebook o Twitter, che in modo diretto producono un eco molto profondo nel mondo reale. Tutto questo non è solo mera speculazione, dato che non è di molto tempo fa la notizia di un italiano indagato per istigazione a commettere reati di natura sessuale in danno di minori, dopo aver postato su Facebook frasi a sfondo pedopornografico.

È proprio questo spirito di protezione verso i minori e lo Stato che ha portato anche il nostro legislatore ad introdurre nel codice penale una fattispecie che ancora in pochi conoscono, l’art. 414-bis, rubricato “istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia”.

Questo nuovo delitto ha inserito per la prima volta nell’ordinamento penale la parola pedofilia, e punisce “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno di minorenni, uno o più delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 609-bis, 609-quater e 609-quinquies è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni.

Alla stessa pena soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti previsti dal primo comma”, sanzionando, quindi, non solo l’istigazione a commettere delitti a detrimento dei minori, ma anche l’apologia di tali reati.

Lo slancio alla creazione di tale fattispecie non è, invero, italiano, bensì europeo. Infatti, come già noto, la Convenzione di Lanzarote, emanata dal Consiglio d’Europa il 25 ottobre 2007 e ratificata dall’Italia con la L. 172/2012, è stato il primo strumento giuridico che ha imposto agli Stati di criminalizzare tutte le forme di abuso sessuale nei confronti dei minori, sul solco della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 29 novembre 1989.

Sebbene l’art. 8, par. 2, lasci agli Stati un ampio margine di discrezionalità nella scelta dell’intervento punitivo, esso conteneva una decisa indicazione verso la criminalizzazione delle condotte di istigazione e apologia di reati in materia di integrità sessuale dei minori, affermando che “Chaque Partie prend les mesures législatives ou autres nécessaires pour prévenir ou interdire la diffusion de matériels qui font la publicité des infractions établies conformément à la présente Convention”.

E il nostro ordinamento tiene fede all’impegno con l’introduzione della fattispecie sopra richiamata, la quale merita sicuramente qualche riflessione.

Salta subito all’occhio il fatto che il delitto in analisi si colloca subito dopo quello di “istigazione a delinquere”, reato che pare già ricomprendere in sé le condotte punite dalla successiva novella. Molte questioni sorgono a riguardo, tra cui la più importante, se l’art. 414-bis c.p. sia solo un’aggravante del più ampio 414 c.p. o costituisca fattispecie autonoma.

A riguardo, per come è stata formulata la norma si osserva primariamente come essa non abbia introdotto niente che già non rientrasse nell’ampia istigazione a delinquere, giungendo alla conclusione che essa non abbia alla fine di tutto esteso l’area del penalmente rilevante. La dottrina però è d’accordo nel considerarla non come una mera aggravante, bensì come una fattispecie a tutti gli effetti. Essa, infatti, sembra porsi in un “rapporto di specialità unilaterale per specificazione”, trovando la sua ragion d’essere nella speciale natura dei reati che sono oggetto di istigazione.

Il legislatore, quindi, per dimostrare di rispettare gli impegni assunti a livello europeo ha voluto dare un segno creando un delitto ad hoc che nulla ha di diverso rispetto a quella già esistente all’art. 414 c.p., se non i reati ad oggetto e un lieve innalzamento del minimo edittale (un anno e sei mesi la novella contro un anno del reato già esistente). Forse potrebbe individuarsi un’ulteriore diversità nel bene giuridico tutelato, visto che il nuovo delitto contemplato nel codice sembra atteggiarsi a reato plurioffensivo, proteggendo, oltre all’ordine pubblico anche l’interesse del minore ad un sano sviluppo psico-fisico.

Quello che però ci si chiede davvero è come il delitto di apologia punito dalla norma in questione riesca a fare i conti con un diritto fondamentale come quello della libera manifestazione del pensiero di cui abbiamo accennato sopra. In merito, occorre rifarsi alla celebre sentenza della Corte Costituzionale (C. Cost. n. 65/1970), secondo cui “l’apologia punibile non è la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti. […] la libertà di manifestazione del pensiero trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nel prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema”.

Conclusione condivisibile, specie alla luce dell’ultimo comma dell’art. 414-bis, il quale, prevedendo che “non possono essere invocate, a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume”, non rende, come detto da alcuni, nulla la visione degli ermellini, anzi la conferma, dovendosi procedere, caso per caso, all’esame di quell’idoneità concreta prescritta, a prescindere che lo scopo perseguito abbia a che fare con l’arte in tutte le sue forme, ponendo al massimo, problemi in sede di accertamento dell’elemento psicologico.