GIURISPRUDENZA

Digital Crime. Intercettazioni preventive telematiche: solo un mezzo di difesa per Stato e cittadini?

a cura di Giulia Scalzo |

Come e quando opera questo mezzo investigativo. È sufficiente un mero sospetto? E quali sono le fonti che possono considerarsi attendibili?

Gli avvenimenti di Parigi continuano a confermare quanto sia indispensabile per uno Stato riuscire a prevenire minacce terroristiche, e non solo.  Proprio di recente si è scoperto di ulteriori tentativi di attacco, per fortuna sventati, prima in Belgio, poi a Sidney e, per ultimo, a Londra.  A riguardo, non è un mistero che le organizzazioni, eversive o criminali in genere, ormai si servano delle ultime tecnologie, specie di tipo informatico, per realizzare i loro progetti criminosi.

Quali strumenti ha a disposizione il nostro Paese per realizzare il difficile obiettivo della prevenzione?

La rubrica #DigitalCrime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale.
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Il mezzo che sicuramente più si presta a tale scopo e che ha sollevato numerose critiche, è quello delle intercettazioni preventive. Con esse la Procura della Repubblica ha la possibilità, nei casi previsti dalla legge, di captare conversazioni telefoniche, ma soprattutto flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, prima che si incardini un procedimento penale. Tale regime è stato introdotto dalla Legge 15 dicembre 2001 n. 438, ponendosi parallelamente a quello ordinario delle intercettazioni previsto agli artt. 266 e ss. c.p.p.

Anzi, lo stesso sembra quasi passare inosservato, trovandosi disciplinato all’art. 226 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, sebbene ultimamente stia avendo un peso rilevante in tema di lotta al terrorismo. Si ricorda, infatti, come la Procura di Milano, nel Bilancio di responsabilità sociale del 2014, spiega di servirsi di questo strumento normativo per “verificare ipotesi di terrorismo individuale, nonché le segnalazioni, provenienti da svariate fonti, relative all’adesione-partecipazione allo stato islamico”.

Cerchiamo però di capire come e quando opera questo mezzo investigativo.

La norma consente di intercettare preventivamente comunicazioni o conversazioni, anche tra presenti, e anche per via telematica, quando il Ministro dell’Interno, i responsabili dei Servizi centrali su delega del primo, il questore o il comandante provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza chiedono, sulla base di esigenze di prevenzione, al Procuratore della Repubblica competente l’autorizzazione per operare le stesse in quanto “necessario per l’acquisizione di notizie concernenti i delitti di cui all’art. 407, c. 2 lett. a), e 51, c. 3 bis”.

Primariamente, se adoperiamo il rinvio posto dalla norma si nota come il ricorso a tale strumento pervasivo non sia devoluto solo ai casi di lotta al terrorismo e alla criminalità di stampo mafioso, ma anche per i delitti di omicidio, estorsione e rapina aggravata, sequestro di persona, tutti i reati inerenti la schiavitù, la pedopornografia, la prostituzione minorile, la violenza sessuale aggravata e molti altri ancora.

Continuando, l’art. 226 parla genericamente di “esigenze preventive”, non spiegando quali contenuti esse debbano assumere e quali siano le caratteristiche che permettono all’organo inquirente di distinguere se è in presenza di un elemento investigativo fondato o meno. È sufficiente un mero sospetto? E quali sono le fonti che possono considerarsi attendibili? Sarebbe bastato forse qualche aggettivo in più di accompagnamento.

La pericolosa conseguenza è quella di aver creato un sistema per cui il diritto della “libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, previsto come inviolabile dall’art. 15 della Costituzione, viene fatto cedere rispetto a quello pari della sicurezza dello Stato sulla base di esigenze preventive che potrebbero risultare alquanto sfumate. Ma non solo. Questo particolare tipo di intercettazioni non è accompagnato dalle garanzie necessarie a tutelare comunque  l’inviolabilità delle comunicazioni, al contrario di quello che accade nel regime ordinario previsto dall’art. 266, secondo cui per poter effettuare la captazione di comunicazioni o di flussi telematici occorrono “gravi indizi di reato”, l’assoluta indispensabilità ai fini delle indagini e l’autorizzazione di un’autorità giudiziaria per sua natura imparziale.

Ecco allora che nelle intercettazioni preventive non esiste una notizia di reato, ma solo delle fantomatiche esigenze di prevenzione e l’ultima parola sul ricorso a tali mezzi è rimessa all’autorità inquirente, quando ravvisi “gli elementi investigativi che giustificano l’attività di prevenzione e lo ritenga necessario”. Tale mezzo quindi sembra essere sprovvisto della garanzia del controllo giurisdizionale previsto proprio dall’art. 15 Cost. al comma 2, secondo cui la limitazione di tali diritti inviolabili “può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Inoltre non si specifica chiaramente se il procuratore debba apporre quella necessaria motivazione mediante decreto, seguendo la falsariga dell’art. 267 c. 2, cosa che è espressamente prevista solo per la proroga della stessa autorizzazione.

Non convince poi la giustificazione per cui tale tipologia di intercettazione non necessiti delle ordinarie garanzie in quanto “gli elementi acquisiti attraverso le attività preventive non possono essere utilizzati nel procedimento penale” e “non possono essere menzionati in atti di indagine né costituire oggetto di deposizione né essere altrimenti divulgati”. Altrettanto poco confortante è il fatto che sembrerebbe dalla lettera della norma che sia possibile ricorrere a intercettazioni preventive in luoghi di privata dimora (art. 614 c.p.) senza la necessità, richiesta ex art. 266 c.p.p., che vi si stia svolgendo l’attività criminosa.  Forse le uniche vere garanzie previste sembrano quelle per cui “il procuratore, verificata la conformità delle attività compiute all’autorizzazione, dispone l’immediata distruzione dei supporti e dei verbali” e la previsione di limiti di tempo per la durata delle intercettazioni, periodo che infatti non può superare i 40 giorni, salvo proroga.

È previsto poi, alle stesse condizioni, anche il possibile tracciamento di comunicazioni telefoniche e telematiche, nonché “l’acquisizione dei dati esterni relativi alle comunicazioni telefoniche e telematiche intercorse e l’acquisizione di ogni altra informazione utile in possesso degli operatori di telecomunicazioni”, riuscendo ad essere sempre più pervasivo e a coprire tutti i livelli di comunicazione.

È evidente infine come il mancato rispetto delle condizioni previste dalla legge comporta la realizzazione di ipotesi criminose gravi, quali: il trattamento illecito dati personali (art. 167 dlgs n. 196/2003); accesso abusivo a sistema informatico e telematico (art.615 ter c.p. aggravato); intercettazione abusiva di comunicazioni telefoniche e telematiche; interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.); violazione della corrispondenza elettronica (art. 616 c.p.).

In conclusione, sebbene le intercettazioni preventive, specie oggi quelle informatiche, siano una risorsa preziosa per la difesa del territorio nazionale, queste sicuramente andavano vincolate a regole più rigide per evitare la realizzazione di un’attività di sorveglianza di massa come è accaduto negli USA con lo scandalo Datagate.