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Di quante piattaforme di streaming abbiamo davvero bisogno?

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Secondo recenti report negli ultimi due anni i consumatori USA hanno mostrato segni d’insofferenza sempre maggiore per il panorama frammentario dei servizi SVOD (Subscription Video on Demand).

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

È una scena familiare: si legge da qualche parte, sui giornali o in Rete, che c’è una nuova serie, un film, una trasmissione interessante in streaming tv e, comodi sul divano (o in qualunque altro posto, ormai la televisione digitale lo permette), ci si appresta a guardarla. Si apre l’app di Netflix sulla smart tv, si cerca sul catalogo, non c’è. Ah, no, è su Disney+.

Stessa scena. Forse abbiamo letto male, ed era su Prime Video? O su Sky (e la sua controparte streaming, NOW TV)? O, ancora, Apple TV+? Per non parlare delle volte in cui si decide di spendere qualche euro per il noleggio digitale di un film, per poi scoprire che una delle piattaforme a cui siamo già abbonati lo offriva gratuitamente. Insomma: la percezione di molti è che ci siano troppe piattaforme di streaming, una situazione ancora non estrema come negli Stati Uniti (dove in più rispetto alle nostre hanno anche Hulu, HBO Max, Peacock, Fubo e chissà quanti altri) ma comunque in evoluzione continua, verso un mercato sempre più stratificato (qualche mese fa ha esordito anche Paramount Plus).

Quando la scelta è troppo ampia

Ci sono motori di ricerca che aiutano a capire dove viene trasmesso un determinato contenuto, come Justwatch, ma non sono il massimo della comodità per chi pensava, con lo streaming, di avere definitivamente il controllo in mano per quanto riguarda che cosa guardare: paradossalmente oggi il “problema” sembra l’eccesso di offerta, frammentato in piattaforme diverse con un canone mensile piuttosto basso, nell’ordine della decina di euro o meno, a meno di pacchetti multipli (su SOStariffe.it si possono trovare e confrontare tra loro le varie offerte), ma col rischio di creare l’ormai ben noto rischio di debiti da subscription economy.

Secondo l’ultimo rapporto di Deloitte, 2022 Digital media trends, 16th edition: Toward the metaverse, negli ultimi due anni i consumatori USA hanno mostrato segni d’insofferenza sempre maggiore per il panorama frammentario dei servizi SVOD (Subscription Video on Demand), che costringe ad annullare gli abbonamenti per non pagare canoni complessivi che, ormai, rivaleggiano con quelli della tradizionale pay tv italiana. In particolare, è la generazione Z a essere particolarmente sensibile al problema dei costi; c’è però da dire che un quarto dei consumatori statunitensi hanno cancellato un servizio streaming negli ultimi dodici mesi e si sono poi nuovamente iscritti allo stesso servizio, in particolare le generazioni più giovani. Soprattutto tra chi ha più dimestichezza con le procedure per annullare un abbonamento – non sempre molto accessibili, proprio per scoraggiare gli abbandoni – è quindi invalsa la pratica di “esaurire” nel più breve tempo possibile, a colpi di binge watching,il contenuto offerto da una piattaforma, cancellare l’abbonamento e poi rifarlo quando ci sono nuovi programmi interessanti, per minimizzare la spesa. Ma, è evidente, non è proprio il massimo della comodità.

Piattaforme streaming con pubblicità o no? La scelta dei consumatori

 Questo è ovviamente un problema per le piattaforme, perché acquisire nuovi clienti non è facile e costa parecchio denaro, tanto che se un nuovo abbonato rimane tale per un periodo di tempo troppo limitato potrebbe trasformarsi addirittura in una perdita. È quindi necessario proporre contenuti sempre nuovi con regolarità, ma allo stesso tempo intensificare l’offerta quando la concorrenza propone le sue produzioni più importanti. E non è facile.

Da qui è nata l’altra strategia dello streaming di questi ultimi mesi; non potendo ridurre i costi degli abbonamenti, proporre un tier di abbonamenti meno caro ma con in più la pubblicità. Secondo il report di Deloitte, più della metà degli intervistati si dicono favorevoli a un servizio di streaming ad-supported, cioè sostenuto anche dai messaggi pubblicitari; negli Stati Uniti la soluzione più apprezzata tra quelle proposte rimane (al 41%) quella senza pubblicità, ma il 34% preferirebbe un abbonamento del tutto gratuito in cambio di 12 minuti di pubblicità all’ora e il 25% una via di mezzo, col canone dimezzato (intorno ai 6 dollari) e sei minuti di pubblicità all’ora.

Queste percentuali cambiano significativamente a seconda del Paese preso in esame: ad esempio nel Regno Unito la percentuale più alta (il 44%) è a favore dell’abbonamento gratuito; in Germania farebbe la stessa scelta il 41% degli intervistati, in Brasile il 34%, in Giappone addirittura il 55%. Curiosamente, proprio la proposta attualmente più praticata dalle piattaforme di streaming, quella di mezzo, è la meno apprezzata (addirittura solo dal 17% nel Regno Unito e dal 15% in Giappone). Questa percentuale aggiunta a chi paga regolarmente il canone intero, però, potrebbe essere sufficiente per far quadrare i conti.

Il nodo del contenuto “premium”

La situazione si complica se si prende in considerazione anche il cosiddetto gated content, e cioè i contenuti che richiedono un pagamento ulteriore da parte dell’utente per l’accesso (un esempio è quello di StarzPlay che costa 4,99 euro al mese da aggiungersi al canone pagato per Prime Video), e la possibilità di accedere ai programmi più attesi – ad esempio quelli sportivi, o i film in prima visione – dopo gli altri utenti a fronte di condizioni economiche più favorevoli.

Di fronte alla domanda sulla possibilità, per ciascun utente, di rimanere abbonato a un servizio,  a convincere di più è la possibilità di non avere né ulteriori contenuti a pagamento, né pubblicità, ma con l’obbligo di mantenere per almeno 12 mesi l’abbonamento (24% negli Stati Uniti, 21% nel Regno Unito, 22% in Germania, 36% in Brasile e 19% in Giappone); al secondo posto, 12 minuti di pubblicità ma nessun limite ai contenuti disponibili (18% per gli Stati Uniti, 11% per il Regno Unito, 10% per la Germania, 16% per il Brasile, 12% per il Giappone); al terzo, nessuna pubblicità ma un’attesa di 45 giorni per la visione delle serie tv e dei film “premium” (12% per gli Stati Uniti, 14% per il Regno Unito, 10% per la Germania, 13% per il Brasile, 13% per il Giappone); e infine, all’ultimo posto, l’opzione che prevede nessuna pubblicità ma anche nessun accesso allo sport in diretta, con la possibilità di guardare le partite e gli highlight il giorno successivo (9% per gli spettatori degli Stati Uniti, 10% per il Regno Unito, 10% per la Germania, 11% per il Brasile e solo il 5% per il Giappone).