In un precedente articolo abbiamo esplorato il tema dei detriti spaziali, sottolineando come rappresentino una questione sempre più urgente, su cui il mondo comincia finalmente a porre attenzione.
Il paradosso, però, è che, ad oggi, nessuna compagnia, né in Europa né negli Stati Uniti, è riuscita a portare a termine una vera operazione di rimozione dei detriti.
Le missioni dimostrative realizzate finora, una tra tutte quelle di Astroscale, compagnia specializzata nella rimozione di detriti spaziali, hanno riguardato unicamente scenari controllati. In parole semplici, simulazioni di rendez-vous in orbita ce ne sono state, ma catturare un satellite reale rimane ancora un traguardo da conquistare.
Il problema non riguarda solo i satelliti, ma anche altri frammenti, come i resti dei lanciatori. Un esempio è il detrito del lanciatore Vega, che l’ESA aveva previsto di rimuovere già nel 2018: una parte conica che, senza interventi, resta inutilmente in orbita dopo ogni lancio. Proprio questi oggetti, insieme ai satelliti dismessi, rappresentano la categoria principale di rifiuti spaziali su cui si stanno concentrando aziende come ClearSpace e altre startup innovative.
Detriti spaziali,Lorenzo Pasqualetto Cassinis (ClearSpace): “Ad oggi nessuna missione ultimata”
Proprio a Lorenzo Pasqualetto Cassinis, Lead GNC Engineer in ClearSpace, Key4Biz ha chiesto a che punto siamo in questo campo, tracciando lo stato dell’arte della situazione.
Fondata nel 2018, ClearSpace ha un obiettivo chiaro: sviluppare una missione di rimozione dei detriti per conto dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Tuttavia, l’iniziativa, inizialmente focalizzata su un componente del lanciatore Vega, si è presto scontrata con sfide tecniche e burocratiche complesse. La decisione di spostare l’obiettivo su un satellite vero ha comportato costi più alti, tempi più lunghi e nuove difficoltà progettuali.
“Oggi, sette anni dopo, la missione è ancora nella fase di design dettagliato, con il lancio previsto tra il 2029 e il 2030 – spiega L.P.Cassinis – Nel frattempo, ClearSpace ha ampliato la sua presenza aprendo uffici nel Regno Unito e in Lussemburgo, diversificando clienti oltre l’ESA e collaborando con altre agenzie spaziali nazionali, come la UK Space Agency“.
Detriti spaziali, opportunità e rischi del mercato
Ma il futuro va oltre la semplice rimozione dei detriti. ClearSpace sta infatti sviluppando un modello di business che punta a fornire anche servizi di rifornimento in orbita, prolungando la vita operativa dei satelliti. Una prospettiva rivoluzionaria che potrebbe trasformare le missioni spaziali in programmi di lunga durata – fino a cinquant’anni – aprendo nuove opportunità scientifiche e commerciali.
“Il nuovo modello di business di ClearSpace non si limita alla rimozione dei detriti: offre servizi più ampi, come il rifornimento dei satelliti già in orbita, prolungandone la vita operativa. Questo potrebbe rendere sostenibile un’attività complessa e ad alto rischio”, continua l’ingegnere, impegnato in un progetto a Londra.
ClearSpace e altre aziende del settore si propongono quindi come pionieri di una nuova era: non solo “spazzini spaziali”, ma attori chiave per costruire un ecosistema orbitale sostenibile e competitivo.
Il futuro dello spazio dipenderà anche dalla capacità di queste compagnie di innovare, collaborare con le agenzie e convincere gli operatori privati a investire in un settore che, da problema tecnico, sta diventando una sfida strategica globale.
Detriti spaziali, gli strumenti utilizzati
Dal punto di vista tecnologico, l’azienda propone un sistema innovativo basato su bracci robotici multipli, capaci di avvolgere il satellite target in una sorta di “gabbia tentacolare”. Una soluzione più complessa rispetto ai competitor, che generalmente utilizzano un singolo braccio robotico, ma potenzialmente più sicura e versatile per diversi tipi di satelliti.
“Nonostante i progressi – aggiunge Cassinis – restano sfide significative: dai budget limitati alle incertezze normative. Oggi esistono solo linee guida internazionali che invitano i satelliti di nuova generazione a rientrare autonomamente entro cinque anni dal termine della missione o a bruciarsi nello spazio, ma non ci sono leggi vincolanti per la rimozione dei detriti già presenti in orbita ”.
Le “classi di detriti spaziali”
Entrando nel merito della questione e della tecnologia utilizzata è utile comprendere a quale tipologia di detriti ci stiamo riferendo.
“Possiamo distinguere tre macro-categorie di detriti spaziali. La prima è la più ampia e comprende qualunque tipo di detrito, osservabile e non osservabile: si parla quindi di milioni di oggetti, anche di dimensioni micrometriche. Questo numero deriva da modelli di estrapolazione che stimano sia ciò che riusciamo a vedere, sia ciò che non è rilevabile con gli strumenti attuali” afferma l’Ingegnere.
“La seconda categoria – continua– è un sottoinsieme della prima e riguarda i detriti visibili e tracciabili, cioè quelli che possono essere monitorati da terra e inseriti in un catalogo. Sono i detriti che vediamo rappresentati nelle classiche immagini della Terra circondata da una “nuvola” di oggetti. Si tratta, in genere, di frammenti con dimensioni a partire da qualche centimetro (1, 2, 3 cm in su), e qui i numeri si riducono da milioni a migliaia”.
Quest’ultimo è il livello a cui le agenzie spaziali, secondo Cassinis, lavorano quotidianamente, con cataloghi costantemente aggiornati e sistemi radar in grado di prevedere possibili collisioni.
“La terza categoria è ancora più ristretta: tra i detriti tracciabili, quanti sono effettivamente rimovibili? Su questo non esiste un dato preciso senza un’analisi specifica, ma la riduzione è drastica. Parliamo di oggetti con dimensioni superiori ai 50 cm – 1 metro e comunque compatibili con le capacità di un braccio robotico come quello sviluppato da ClearSpace.
Per esempio, in uno studio di fattibilità condotto nel Regno Unito, partendo da migliaia di detriti tracciabili, si è arrivati a identificarne circa una ventina potenzialmente rimovibili. E tra questi, solo 4 o 5 erano effettivamente candidabili alla rimozione, perché appartenenti al Regno Unito stesso. Infatti, anche se potremmo identificare centinaia di satelliti rimovibili, non possiamo intervenire su oggetti di proprietà di altri Paesi senza un accordo specifico.
Quindi, da milioni di detriti teorici si passa a poche unità realmente rimuovibili in pratica. Ed è qui che emerge la difficoltà: il problema della sindrome di Kessler – l’effetto a catena causato da collisioni nello spazio – rende evidente l’urgenza di agire, ma i vincoli legali e operativi riducono drasticamente il campo di intervento” conclude l’esperto.
Detriti spaziali, la questione normativa
La questione normativa è cruciale, soprattutto di fronte a costellazioni satellitari sovrappopolate come Starlink. La situazione si fa ancora più urgente se consideriamo il rischio della “sindrome di Kessler” su cui si è soffermato lo stesso Cassinis, una reazione a catena di collisioni tra detriti che potrebbe rendere l’orbita terrestre inagibile.
“È sempre difficile rispondere a domande che riguardano gli aspetti giuridici. La tecnologia, infatti, si sviluppa con estrema rapidità, mentre la normativa tende per sua natura ad arrivare con ritardo” commenta Cassinis. “Negli ultimi anni questo scarto ha creato un forte disallineamento: oggi siamo già in grado di mandare in orbita satelliti che spostano altri satelliti, ma dal punto di vista giuridico non è ancora chiaro chi sia responsabile di cosa, chi debba risarcire eventuali danni o chi sia obbligato a intervenire in caso di problemi. In questo momento, il quadro normativo dello spazio è ancora molto confuso” aggiunge.
Con riguardo alle linee guida, l’ingegnere aggiunge:
“Rispettare oggi le linee guida è relativamente semplice per i nuovi operatori, che possono pianificare missioni con sufficiente propellente per il rientro. Diverso è il discorso per i vecchi satelliti, come quelli degli anni ’70, ’80 o ’90, o come l’Envisat dell’ESA, un gigante di diverse tonnellate ancora in orbita. In quei casi il propellente non c’è più, e la rimozione richiede sistemi robotici complessi e costosi.
Ed è qui che entriamo in gioco noi di ClearSpace: sviluppiamo tecnologie per la rimozione attiva dei detriti. Ma resta difficile che oggi un’impresa sia disposta a pagare centinaia di milioni per eliminare un vecchio satellite, in assenza di un obbligo normativo chiaro e condiviso” .