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Democrazia Futura. Un comunista liberale: modernizzazione senza conflitto e senza popolo

Michele Mezza
Michele Mezza

“La versione di Giorgio Napolitano: modernizzazione senza conflitto e senza popolo[1]“. Questo sarebbe a parere di Michele Mezza il tratto dell’ex Presidente della Repubblica definito nel titolo “Un comunista liberale”- “Paradossalmente […] il liberale Napolitano si trovava occasionalmente d’accordo – scrive Mezza – con il leninista György Lukács, che sosteneva che un vero rivoluzionario non si fa condizionare dalla realtà dei fatti. E si è visto il risultato della cocciutaggine dei fatti. Proprio quella qualità, che in questi giorni viene celebrata dai commentatori politici, ossia una sua lucida preveggenza sulla crisi del Pci, sembra invece il vero punto di  caduta della sua visione politica, e con lui dell’intera componente migliorista (più brutalmente, la destra amendoliana), che ha guidato con una leadership attiva finché fu al vertice del partito in cui ha militato, e poi, dalle istituzioni che rappresentava, con un esempio e un’ispirazione che non ha mai mancato di parlare ai quadri della sinistra. Ci riferiamo a quello che i filosofi definiscono, prendendo a prestito il concetto dalla fisica dei corpi, il clinamen, ossia la deviazione della traiettoria nella caduta di un oggetto. Per Napolitano questa deviazione, che mutava la natura sociale e l’identità culturale del Pci, fu proprio la voluta separazione fra la rappresentanza dialettica degli interessi sociali, che – secondo Mezza – vanno organizzati mediante una politica di partecipazione, e la decisione politica”.

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Giorgio Napolitano è stato sempre centrale, proprio perché mai di centro, nella storia della sinistra italiana, meglio ancora a lui si attaglia perfettamente la definizione di “comunista liberale”, che ancora in questi giorni gli attribuisce il grande vecchio della tradizione socialista italiana Rino Formica, che per la sua estrazione trotskista qualcosa del pianeta rosso ricorda.

Un ossimoro che individua contraddizioni, a volte anche provocatorie, ma indubbie abilità del presidente emerito, che più ancora del suo stesso maestro e mentore, Giorgio Amendola, che vantava primati dinastici indiscutibili nella dimestichezza con la cultura liberale, seppe coniugare con tenacia la direzione del Pci con l’esibita e organica adesione ai meccanismi del mercato occidentale. Una variante anglosassone, la sua, nel variegato melting pot del “partito nuovo” di Togliatti, che ebbe nella Napoli porosa e contaminante, come la definì Walter Benjamin negli anni Venti, un laboratorio di portata nazionale.

Nella città dove la svolta di Salerno rimbomba precocemente nella base di matrice stalinista di Cacciapuoti e Alinovi, il giovane Napolitano muove i primi passi, nello stretto spazio che vede il Pci accreditarsi come organizzazione di popolo in una metropoli fondamentalmente sanfedista e monarchica. Lui stesso, in una delle rare confessioni autobiografiche concessa a Eugenio Scalfari, ricorda di avere debuttato come parte del servizio d’ordine che difendeva la federazione dall’assalto dei nuovi lazzari guidati da quell’impasto di fascismo e camorra, che ancora signoreggiava nei quartieri popolari.

Poteva il pargolo della borghesia delle professioni più elitaria della città, allevato nella nidiata dei talenti del liceo Umberto I, avere un tirocinio più fruttuoso per la sua carriera? Ed è lui che permette ad Amendola di bombardare il quartiere generale del partito locale, azzerando la generazione della clandestinità, e aprendo spazi per una nuova generazione allevata nel culto delle bandiere costituzionali e democratiche che la borghesia aveva gettato nel fango, come recitava ossessivamente Giorgio ’o chiatt, come affettuosamente chiamavano a Napoli Giorgio Amendola, per distinguerlo da Giorgio ’o sic, lo slanciato e regale Napolitano.

Inizia un cursus honorum progressivo, che non conosce pause o eclissi, a differenza della vulgata che vuole il futuro presidente oscurato al vertice del Pci. La sua capacità di assicurarsi il gradimento delle gerarchie moscovite, grazie a quell’ombrello in cui si combinavano libero mercato e filosovietismo che Giorgio Amendola gli assicurava, comunque, quale senso dello Stato sappia esprimere la sinistra – pensiamo anche alle straordinarie testimonianze di Pietro Ingrao e Nilde Jotti -, soprattutto in questa sgangherata legislatura che vede manipoli di improbabili dirigenti di una destra nostalgica e compromessa occupare i più alti scranni della Repubblica. storia recente, il ruolo storico che ha avuto al vertice dello Stato, con tutte le osservazioni critiche che non devono mancare ad alcune delle sue decisioni, le lasciamo agli esperti di questa materia.

Ma con la stessa pragmatica sincerità, che lui ha sempre praticato fino in certi casi alla ferocia, dobbiamo dire che, se la sua figura istituzionale ci dà comunque, nel chiaro e nello scuro, l’orgoglio come sinistra di avere dato un personaggio di vaglia alla Repubblica, la sua storia politica ci appare, invece, con maggiori criticità, soprattutto sul versante della decifrazione dei processi sociali e dell’adeguamento della strategia politica: temi su cui rivendicava un primato.

Diciamo subito, per esempio, che le sue citazioni da Marx, dopo gli anni dell’apprendistato, sono sempre state molto parche. Da parte di chi è stato responsabile delle principali sezioni dell’organizzazione – dall’economia, alle partecipazioni statali, dalla cultura agli esteri, in un arco di cinquant’anni – non è certo ordinario il fatto che non abbia mai trovato pertinente un riferimento a quella letteratura.

Ovviamente, siamo gli ultimi a rimproverargli una scarsa dimestichezza con i sacri testi. Quello che vogliamo dire, per avvicinarci al nodo che proponiamo alla discussione, è che il “comunista liberale” ha sempre fatto prevalere la componente liberale nelle analisi delle trasformazioni sociali, distanziando irrimediabilmente le decisioni politiche dalla rappresentanza degli interessi. Il rischio, da cui ha sempre voluto vaccinarsi, era proprio la contaminazione delle sue strategie politiche con la realtà sociale.

Paradossalmente, ma questa convergenza degli opposti estremismi ricorre spesso nella sua strategia ideologica, il liberale Napolitano si trovava occasionalmente d’accordo con il leninista György Lukács, che sosteneva che un vero rivoluzionario non si fa condizionare dalla realtà dei fatti. E si è visto il risultato della cocciutaggine dei fatti.

Proprio quella qualità, che in questi giorni viene celebrata dai commentatori politici, ossia una sua lucida preveggenza sulla crisi del Pci, sembra invece il vero punto di  caduta della sua visione politica, e con lui dell’intera componente migliorista (più brutalmente, la destra amendoliana), che ha guidato con una leadership attiva finché fu al vertice del partito in cui ha militato, e poi, dalle istituzioni che rappresentava, con un esempio e un’ispirazione che non ha mai mancato di parlare ai quadri della sinistra. Ci riferiamo a quello che i filosofi definiscono, prendendo a prestito il concetto dalla fisica dei corpi, il clinamen, ossia la deviazione della traiettoria nella caduta di un oggetto. Per Napolitano questa deviazione, che mutava la natura sociale e l’identità culturale del Pci, fu proprio la voluta separazione fra la rappresentanza dialettica degli interessi sociali, che vanno organizzati mediante una politica di partecipazione, e la decisione politica. In ciò torna forse utile un uso sociologico e non ideologico di Marx, soprattutto nella versione dei Grundrisse, in cui il sapere sostituisce il lavoro come matrice della ricchezza, in quanto lente d’ingrandimento per tradurre i processi di trasformazione tecnologica in un luogo dinamico di conflitto sociale, e dunque di condivisione delle scelte politiche – e non solo, come lui invece contribuì decisamente a ritenere, di contemplazione culturale e di supporto amministrativo.

Per questa consapevole cesura che introduceva, fra dinamismo sociale e volontà politica, dobbiamo constatare, e sarebbe già questo motivo di una specifica ricerca, che paradossalmente le intuizioni e preveggenze che Napolitano indiscutibilmente ebbe – l’insufficienza della proposta del compromesso storico, l’inadeguatezza della stessa base sociale del Pci, le lacune che la cultura togliattiana e berlingueriana ancora si trascinavano dietro – le abbia sempre risolte con formule del tutto opposte alle ambizioni.

La modernizzazione dell’immagine e della percezione del Pci, come venivano propugnate dalle tendenze che Napolitano ha esplicitamente guidato nel dibattito interno al partito, si sono poi esaurite in un semplice processo di omologazione e neutralizzazione di una carica innovativa, che pure permise negli anni Settanta al partito di attrarre giovani e ceti medi.

Così come il proverbiale sforzo di avvicinare la componente comunista a quella socialista, in Italia e in Europa, si è poi rivelata velleitaria e inconcludente per l’implosione non solo morale del mondo socialista italiano, accreditato di una modernità che era solo spregiudicatezza, come pure per l’appannamento delle vecchie esperienze socialdemocratiche incapaci di gestire la complessità della trasformazione capitalista.

O ancora, la sua lettura della crisi politica contemporanea – che avrebbe portato alla deriva populista, in cui continuava a vedere anziché un calo di rappresentatività di aree sociali significative e di progetti produttivi alternativi, la conferma della necessità per la sinistra di esercitare una supplenza nel ruolo di governo di una borghesia moderna, in cui le compatibilità dovevano precedere i bisogni – non ha certo frenato l’ondata populista e il disorientamento della base sociale dell’intera sinistra. Una sequenza di abbagli che hanno trascinato il partito verso la crisi insolubile che tutti hanno trovato più comodo attribuire alla scelta simbolica della Bolognina di Occhetto: scelta che è stata piuttosto conseguenza e non causa di uno sfaldamento di quel delicato gioco di rappresentanza e organizzazione che permetteva al Pci di dialogare con settori intermedi e anche benestanti della società, a fronte di nomi e simboli cosi radicali. 

Come confermò in un’intervista Aldo Tortorella, l’ultimo grande dirigente di Botteghe Oscure reduce dalla Resistenza, che rilasciò a chi scrive per conto di “Infiniti Mondi” e pubblicata anche da “Ytali” la chiave per comprendere il disancoramento del Pci dalla società italiana – che ha poi prodotto l’inaridimento di quel filone della sinistra – sta negli anni del miracolo economico, quando si profilò una marca di capitalismo che non rientrava negli schemi della tradizione dello storicismo nazionale.

In quegli anni fertilissimi  di innovazioni, sia nei comportamenti sia nelle tecnologie, si affacciarono al vertice del partito proposte e opzioni  di rinnovamento, come quelle emerse nel mitico convegno sul neocapitalismo del 1962, promosso dall’Istituto Gramsci (dove Giorgio Amendola dovette alzare la voce per contenere le sollecitazioni dei giovani quadri come Bruno Trentin e Lucio Magri), il delfino di Giorgio ’o chiatt non ritenne di intervenire in campo aperto, così come non si fece notare nelle arroventate discussioni successive, sull’improvvisata proposta del “partito unico della sinistra” del suo capofila Amendola, o sulle nuove lotte operaie che scuotevano le gerarchie del sindacato e tennero banco alla conferenza operaia di Genova del 1965.

L’ingresso nella segreteria del PCI

Eppure Giorgio ’o sic cresceva, e dalla direzione entrava in segreteria, accostandosi al successore di Togliatti, Luigi Longo, ma senza mai troncare il legame con il suo mentore Amendola. Anzi, al vertice della sezione culturale e poi di quella economica, spingeva per affiancare i socialisti nella contesa di governo con una Dc che dosava le aperture a sinistra, con la sicurezza che gli dava quella evoluzione che il sociologo De Rita definiva la “cetomedizzazione del Paese”. Una vera rivoluzione passiva, che neutralizzava la spinta a sinistra che l’industrializzazione sembrava ineluttabilmente imprimere al quadro politico, spostando dalle zone conservatrici del Sud milioni di persone in un Nord più sensibile al conflitto sociale.

In questo tornante – siamo alle soglie del 1968 – in cui prendono forma ceti tecnici e professionali emancipati, si rafforza la richiesta di uno Stato sociale più moderno e si reclamano diritti civili, la destra comunista, e Napolitano in prima persona che dirigeva la strategia economica, non colgono la radicalizzazione sociale insita in questa evoluzione, e continuano a inseguire supposte maggioranze silenziose, in uno schema di continua supplenza a una supposta inadeguatezza della borghesia moderata nel governo del Paese; mentre quella borghesia, o almeno la sua componente più legata al quadro internazionale, era alle prese con fenomeni quali la finanziarizzazione dell’economia e le prime avvisaglie di un processo tecnologico che avrebbero, in un decennio, ridisegnato completamente la base produttiva dell’Italia.

Con la gestione di Napolitano il Pci ignorò completamente le realtà avanzate del tessuto industriale italiano: dall’Olivetti della Programma 101, alla chimica fine dei polimeri di Giulio Natta, dall’uso dell’elettronucleare alle esperienze dell’agenzia spaziale, o al centro di genetica applicata di Buzzati Traverso, che chiedevano una sponda politica per rompere il soffocante assedio dei gruppi monopolistici della Fiat e della rendita immobiliare. Sponda che non venne dalla sinistra.

Quel Pci – e qui l’indicazione di Tortorella assume un valore molto chiaro e concreto – rimase immobile in quel gorgo, fermo alla sua idea di compatibilità del sistema per far accettare la propria anomalia ideologica.

Ma soprattutto il partito non riuscì a vedere come il progressivo sfaldamento dell’ordine fordista liberasse nuove energie e ambizioni, spingendo sul proscenio ceti subalterni e radicalizzando persino aree elitarie. Il ’68 degli studenti è un primo strappo, il ’69 operaio una nuova spallata alle certezze di quella cultura, in cui si profila il tramonto della centralità del lavoro tout court più che della funzione operaia. Tutto questo ribollire viene invece ingabbiato in un tatticismo politicista, in cui si gioca a nascondino con un Partito socialista esangue, che con Bettino Craxi troverà un momentaneo eccitante, che di lì a poco lo porterà all’infarto.

In questo snodo ci pare di rinvenire l’origine di quegli abbagli, che oggi vengono invece celebrati come saggia moderazione del comunista liberale. Parliamo di quel continuo lavorio nel partito per concentrare tutta l’azione, volta all’intervento di struttura nel sistema, all’interno di una visione caratterizzata dalla cosiddetta autonomia del politico, da quella strategia tutta incentrata sull’accesso al governo come unica possibilità per legittimarsi ed essere mondati dal peccato originale della matrice comunista. Un governo che poi, una volta condiviso, comunque non deve spaventare, né turbare interessi e certezze dei ceti dominanti, per non indurli al rigetto.

Una visione di rivoluzione dall’alto, potremmo dire, se il termine rivoluzione non risultasse stridente accostato a Napolitano. Meglio, il governo per il governo e poi si vedrà.

Una opzione che viene esemplificata in un passaggio politico poco richiamato anche dai numerosi biografi del presidente emerito: l’incontro con gli operaisti pentiti a Padova nel 1977.

Un anno fatidico, in cui inizia a sbriciolarsi l’intero insediamento sociale del partito uscito trionfante dalle elezioni appena un anno prima, con l’austerità di Berlinguer che tenta di contenere l’assedio da parte di figure sociali sconosciute, che logorano la rappresentatività comunista, da una parte, e i ceti proprietari che premono per una politica di sacrifici, dall’altra, che possa finanziare la ripresa economica senza scalfire i profitti.

Ed è anche l’anno della cacciata di Lama dall’università a opera di un movimento fortemente infiltrato da aree della sovversione armata, che pensa di poter minacciare i partiti di massa, mentre, sul versante culturale, si affacciano le prime teorie che annunciano una sostituzione della materialità manifatturiera con una nuova economia ancora indecifrabile e impalpabile, dove desideri e immaginario sostituiscono bisogni e identità.

Ce ne sarebbe d’avanzo per capire che è la società, e non la politica, il luogo dove ricostruire analisi e legami, dando nuova forma a un partito che invece assomiglia troppo a un mondo che sta tramontando. Al contrario, lo sbandamento di quel tempo viene usato per rinserrarsi nella cittadella delle istituzioni, rafforzando la separazione fra decisione e rappresentanza. Napolitano, per irrobustire questa linea, compie una nuova acrobazia fra destra e sinistra e coopta il filone più politicista degli operaisti, i quali – sconsolati per l’inconcludenza del miraggio della centralità di una “razza rude e pagana” destinata a conquistare il mondo, e che invece affonda nella cassa integrazione – hanno un rigurgito neoleninista e scelgono appunto l’autonomia del politico, riverniciando a sinistra una teoria nata a destra, dai filosofi del conservatorismo tedesco, e che in Italia arriva dalle letture di Carl Schmitt attraverso un sulfureo Gianfranco Miglio, che sarà poi un mallevadore della Lega prima maniera.

E’ proprio il futuro compito e anglofono presidente confermato Giorgio Napolitano,  leader  allora della destra del partito , e come tale  designato dalla segreteria  a dare il benvenuto ad una schiera di prestigiosi intellettuali – da Mario Tronti a Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa e Aris Accornero – che scelgono di organizzare un convegno proprio a Padova (dove peraltro un giovanissimo Napolitano completò il liceo in un breve trasferimento della famiglia durante la guerra), perché è la città messa a ferro e fuoco dalle scorrerie dell’altro filone operaista, quello della fabbrica diffusa e dell’operaio sociale, orientato da Toni Negri, che avvelena le proprie profetiche interpretazioni dei nuovi processi con un delirio insurrezionalista.

Il punto di convergenza fra il diavolo (i cattivi maestri dell’estremismo sindacale come solo qualche mese prima li aveva definiti l’Unità) e l’acqua santa (l’esponente più deciso a scolorare l’identità antagonistica che ancora aveva il PCI) è lo sganciamento da ogni richiamo e ubbia sociale, in polemica fontale con l’allora egemone concezione del sindacato come soggetto politico.  Marciare divisi ma colpire uniti: la strategia di subordinazione di ogni movimento alla decisione politica gli viene confezionata e ratificata proprio dai professori operaisti che tagliano il nodo gordiano del rapporto fabbrica-società, attribuendo allo Stato un’imprevista “autonomia” rispetto alla società. Per questo diavolo e acqua santa all’unisono chiedono di rivalutare l’azione politica rispetto a quella rivendicativa e di riguadagnare il terreno dello Stato dove il “partito operaio” (anch’esso “relativamente” autonomo rispetto alla classe di riferimento) poteva sancire a livello istituzionale le conquiste delle lotte di fabbrica. La linea dell’autonomia del politico ebbe vita sul versante del tragitto politico-culturale dei professori di buona volontà, che divennero tutti parlamentari del Pci, mentre “la talpa” continuò a scavare carsicamente nelle cantine del Bottegone, grazie anche all’impasse della linea berlingueriana del compromesso storico.

Sulla scia di quell’incontro si stabilizza la strategia di un progressivo distanziamento fra ambito politico e processo sociale. Proprio nel momento in cui era la società che stava partorendo un nuovo mondo, in cui l’automatizzazione della e prima e del pensiero dopo avrebbe riclassificato ogni traccia di politica senza rappresentanza e reso impensabile una rappresentanza senza conflitto.

Lungo quel clinamen, per tornare al termine filosofico che abbiamo prima ripreso, di una politica senza popolo, e della difesa delle compatibilità del sistema, il Pci gradualmente deperisce, perdendo capacità negoziale con i processi di trasformazione, e soprattutto non riuscendo, tramite il conflitto, a comprendere molecolarmente i movimenti della realtà.

Una politica che perde quel motore di intervento si inibisce la capacità di padroneggiare le tendenze in atto e di adeguare il proprio insediamento sociale allo scontro centrale.

Come scrive il Marx dei Grundrisse,

“in tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza a tutte le altre, come del resto i suoi rapporti assegnano rango e influenza a tutti gli altri”.

Se non si è immersi in questo flusso reale e concreto, nessun empireo politicista potrà mai rendere funzionante il cervello collettivo di un partito.

E l’astuzia della storia ha voluto che fossero proprio i teorici dell’esclusività della lotta di fabbrica ad accompagnare Napolitano in questo declino ideologico, lasciando alla sinistra, come unico spartito da suonare, il ricorrente allarme per il pericolo di un nemico autoritario alle porte. Quando il Paese stesso è diventato come il nemico alle porte, per quella rivoluzione passiva che un mercato senza attrito sociale ha realizzato indisturbato, Napolitano è diventato presidente, presidiando l’ultimo baluardo della Repubblica che rimane ancora oggi a contrapporsi alla destra dilagante. Possiamo dire che si tratti di un buon bilancio politico?


[1]Uscito con il titolo “La versione di Giorgio: modernizzazione senza conflitto e senza popolo”, Terzogiornale.it, 25 settembre 2023. Cf. https://www.terzogiornale.it/2023/09/25/la-versione-di-giorgio-modernizzazione-senza-conflitto-e-senza-popolo/

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