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Democrazia Futura. Si negozia una tregua, si allarga la crepa tra Israele e Stati Uniti

Giampiero Gramaglia

Prosegue l’analisi di Giampiero Gramaglia sugli sviluppi dei due fronti bellici. Quello mediorientale torna al centro dell’attenzione mediatica e delle diplomazie: “Si negozia una tregua, si allarga la crepa tra Israele e Stati Uniti[1]” questo il titolo. “Il presidente americano Joe Biden crede, o almeno spera, che i negoziati, mediati da Qatar ed Egitto con il concorso degli Stati Uniti, si stiano avviando a un’intesa: un cessate-il-fuoco – osserva Gramaglia – in cambio del rilascio di alcuni, se non tutti, gli ostaggi nelle mani di Hamas: dei 130 non ancora restituiti, si calcola che un centinaio siano in vita”. L’articolo dell’ex direttore dell’Ansa prosegue esaminando il piano per “Il dopo guerra a Gaza di Netanyahu bocciato da Biden e da arabi” prima di soffermarsi sul fronte ucraino nel paragrafo “Macron inquieta Occidente, aiuti a Kiev non arrivano, Svezia nella Nato”.

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Un militare dell’aeronautica degli Stati Uniti s’è dato fuoco domenica 25 febbraio davanti ai cancelli all’ambasciata di Israele a Washington, al numero 3500 di International Drive Northwest, dove ci sono molte rappresentanze diplomatiche. Aaron Bushnell, 25 anni, di San Antonio, Texas, “non voleva più essere complice di un genocidio”. Il giovane, che ha diffuso in diretta la scena del suo gesto sulla piattaforma Twitch, contestava l’atteggiamento filo-israeliano dell’Amministrazione Biden. Ricoverato in ospedale, è deceduto per la gravità delle ustioni riportate.

Per lo stesso motivo, gli arabo-americani del Michigan, lo Stato dell’Unione dove la comunità è percentualmente più numerosa, hanno boicottato due giorni dopo, nelle primarie democratiche, Biden: hanno fatto una croce su ‘uncommitted’, invece che sul nome del presidente candidato. Segno d’una insofferenza diffusa e crescente, negli Stati Uniti, per le atrocità della guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.

Mentre Bushnell compiva il suo gesto, il premier d’Israele Benjamin Netanyahu metteva a punto, con il suo governo, i dettagli dell’operazione di terra a Rafah, la cui attuazione sarebbe solo “rinviata” da un’intesa con Hamas per una tregua. E delineava un piano per il futuro della Striscia, dopo il conflitto, subito bocciato da tutte le altre parti in causa.

La guerra è ormai vicina al centocinquantesimo giorno: sono passati ormai quasi cinque mesi dal 7 ottobre, quando incursioni terroristiche in territorio israeliano di miliziani di Hamas e di altre sigle fecero 1200 vittime e condussero alla cattura di circa 300 ostaggi. Da allora, i morti palestinesi sono stati circa 30 mila, nella stragrande maggioranza civili, donne e bambini a migliaia. Centinaia i militari israeliani caduti.

Il presidente americano Joe Biden crede, o almeno spera, che i negoziati, mediati da Qatar ed Egitto con il concorso degli Stati Uniti, si stiano avviando a un’intesa: un cessate-il-fuoco in cambio del rilascio di alcuni, se non tutti, gli ostaggi nelle mani di Hamas: dei 130 non ancora restituiti, si calcola che un centinaio siano in vita. Biden, che ha emissari al tavolo delle trattative, tra Parigi e il Cairo, dice che l’accordo potrebbe esserci entro lunedì 4 marzo oppure entro l’inizio del Ramadan, il 10 marzo. Due settimane or sono, Netanyahu aveva già detto che il conflitto sarebbe proseguito fino all’inizio del Ramadan, il mese del digiuno musulmano.

Il quotidiano israeliano Haaretz, che cita fonti vicine ai negoziati, annuncia passi avanti verso un’intesa, un baratto tregua / ostaggi. Per le fonti israeliane, però,

“qualsiasi ulteriore progresso è nelle mani di Hamas”.

Che, dicono fonti statunitensi, avrebbe rinunciato ad alcune sue pretese: chiedeva il ritiro dalla Striscia dell’esercito israeliano e la liberazione di 3 mila detenuti, quasi trenta per ogni ostaggio.

L’ipotesi ora è un cessate-il-fuoco di sei settimane; la restituzione degli ostaggi, o di parte di essi; il rilascio dalle carceri israeliane di un certo numero prigionieri palestinesi; e l’ingresso a Gaza di aiuti umanitari in misura adeguata, in un contesto dove, nelle stime dell’Onu, mezzo milione di persone sono denutrite. Non si parla di fine delle ostilità né di ritiro.

Il dopo guerra a Gaza di Netanyahu bocciato da Biden e da arabi

Nel documento sulla gestione di Gaza dopo la conclusione del conflitto, presentato da Netanyahu, l’amministrazione dei servizi nella Striscia dovrebbe essere affidata a “funzionari locali”, com’era fino al 2007, quando Hamas estromise l’Autorità nazionale palestinese (ANP) e prese il controllo. La bozza del premier di Israele non cita l’ANP in modo esplicito, ma parla di persone

“non legate a Paesi o entità che sostengono il terrorismo”.

Altro punto: l’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi, l’Unrwa, dovrà lasciare la Striscia, dopo che diversi suoi addetti, secondo quanto sostiene Israele, hanno partecipato alle stragi del 7 ottobre. Oltre al ritorno a casa di tutti gli ostaggi, il piano di Netanyahu prevede che le operazioni militari proseguano fino alla distruzione di Hamas e della Jihad Islamica e che gli israeliani mantengano libertà di azione nella Striscia, ai cui confini sono previsti una zona cuscinetto tra Gaza e Israele e una chiusura a sud di Rafah da realizzare in collaborazione con l’Egitto.

Gli Stati Uniti e le altre parti in causa nella Regione bocciano come “non praticabile” il piano del premier per il futuro assetto della Striscia. I militari israeliani hanno già presentato al loro governo un piano per evacuare la popolazione di Gaza dalle aree che potrebbero essere teatro di nuovi combattimenti, compresa Rafah, dove la prospettiva di un’offensiva è sempre attuale. Il che alimenta ansia e paure: la città è sovra-popolata, con un milione di rifugiati da Gaza e da Khan Younis che non hanno dove scappare ulteriormente.

Il segretario di Stato statunitense Antony Blinken è cauto:

“Per quanto riguarda i piani post-guerra, leggo delle anticipazioni, ma non ho visionato il piano israeliano. Ci sono punti base che vogliamo siano rispettati: non ci dev’essere nessuna rioccupazione israeliana della Striscia”.

Critica pure l’Autorità nazionale palestinese: per il portavoce Nabil Rudeineh,

“Gaza farà parte dello Stato palestinese indipendente che avrà Gerusalemme come capitale. Qualsiasi piano contrario è destinato a fallire”.

L’ANP nei Territori vive una fase di transizione: il premier Mohammed Shtayyeh e il suo governo sono dimissionari; e Washington preme per riforme che riducano la corruzione in CisGiordania e migliorino le condizioni di vita e la gestione dei servizi.

A segnare la distanza tra Israele e Stati Uniti, c’è stato anche l’annuncio, fatto da Blinken, che Washington considererà d’ora in poi illegali ulteriori nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania: viene così rovesciata una politica introdotta durante la presidenza Trump e si ritorna alla posizione statunitense tradizionale. L’Onu è sempre stata ostile a nuovi insediamenti israeliani nei Territori. L’Amministrazione Biden sta studiando come bloccare le raccolte di fondi a sostegno dei coloni, che continuano a trovare donatori nell’Unione.

Sul terreno, le cronache di guerra sono costellate di bombardamenti e combattimenti nella Striscia, di incidenti in CisGiordania, di scambi di tiri e di droni al confine tra Libano e Israele; di sporadici attacchi terroristici in Israele. E nel Mar Rosso gli Huthi dallo Yemen continuano a insidiare i cargo in transito, nonostante l’opposizione anglo-americana.

Israele sarebbe sul punto di eliminare o catturare un leader di Hamas che starebbe nascondendosi nei tunnel sotto Khan Younis, ma la sua uccisione potrebbe compromettere la vita di ostaggi. Yehiya Sinwar è considerato uno degli artefici delle operazioni terroristiche del 7 ottobre in Israele e utilizzerebbe gli ostaggi come scudi umani.

Macron inquieta l’Occidente, aiuti a Kiev non arrivano, Svezia nella Nato

Dopo il sussulto d’attenzione dell’ultima decade di febbraio, in coincidenza con il secondo anniversario dell’invasione russa, la guerra in Ucraina è tornata a essere “l’altra guerra” nelle priorità mediatiche, nonostante l’attenzione sia stata tenuta alta prima dai sussulti di retorica pro – Kiev del G7 virtuale presieduto sabato 24 febbraio dalla premier italiana Giorgia Meloni e poi dalla riunione ‘alternativa’ indetta a Parigi lunedì 26 febbraio dal presidente francese Emmanuel Macron, presenti una ventina di Paesi, ma non l’Italia.

Obiettivo, esplorare come migliorare il sostegno all’Ucraina di fronte all’aggressione russa, mentre il conflitto entra nel suo terzo anno e le unità ucraine sono in inferiorità numerica ed a corto d’armi, di munizioni e di equipaggiamenti.

Il presidente francese spinge per un rilancio collettivo dell’impegno pro-Kiev:

“Vogliamo ribadire che non siamo stanchi e che al contrario siamo determinati a sconfiggere l’aggressione russa. Vogliamo mandare a Putin un messaggio chiaro, in Ucraina non vincerà”.

Al termine dei lavori di Parigi, Macron ha però destato reazioni controverse – in genere negative -, quando non ha escluso che l’Occidente possa inviare truppe in Ucraina, mentre un’intesa sembra per ora esserci fra europei solo per accelerare l’invio di munizioni, da acquistare da fornitori terzi, perché le capacità di produzione nell’Unione europea sono inadeguate – finora, le munizioni consegnate sono meno di un terzo di quelle promesse -.

Se Macron contava di fare di più e meglio del G7 e di ricompattare il sostegno all’Ucraina, un po’ vacillante nei primi due mesi del 2024, non c’è riuscito. Unione europea e Nato, Berlino e Roma e persino Varsavia hanno accolto con molta prudenza la sua sortita, cui il Cremlino ha replicato che l’invio di truppe dell’Alleanza in Ucraina renderebbe “inevitabile” un conflitto aperto. Parigi ha così fatto un passo indietro, parlando di ruoli non combattenti per i militari occidentali: il che già avviene, istruttori, intelligence, logistica.

Il vero problema, per l’Ucraina, è che non si sbloccano gli aiuti americani, nonostante le pressioni di Biden sul Congresso perché vari misure a sostegno di Kiev – lui prevede aiuti per 60 miliardi -, mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelen’skyj dice alla Cnn, parlando all’opinione pubblica degli Stati Uniti, che “milioni di ucraini” potrebbero morire senza il sostegno militare statunitense.

Zelen’skyj, per la prima volta, dà una misura delle perdite ucraine: 31 mila caduti, cifra largamente inferiore alle stime delle intelligence occidentali.

Quella che invece s’è sbloccata, con un voto del Parlamento ungherese, è l’adesione della Svezia alla Nato, che può ora diventare effettiva, dopo uno stallo lungo circa diciotto mesi, provocato prima dalle riluttanze turche e poi dalle reticenze ungheresi. La Svezia diventa quindi il trentaduesimo Paese dell’Alleanza atlantica: se, con l’invasione dell’Ucraina, Putin voleva sventare un allargamento della Nato alle frontiere con la Russia, il risultato è stato l’ingresso della Finlandia e della Svezia, due campioni di neutralità allarmati dall’aggressività russa.

Le cronache di guerra sono sempre fatte di bombardamenti notturni reciproci, con droni, missili, raid, e si un sostanziale stallo lungo la linea del fronte, con l’inerzia a favore dei russi. Zelen’skyj fa sapere che il governo ucraino

“sta preparando una lista dei propagandisti russi” in Occidente, anche in Italia, e che vuole “presentarla alla Commissione europea, al Parlamento europeo, ai leader dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America”.

La propaganda russa viene temuta quanto la potenza militare.

La questione del dissenso è delicata anche per la Russia, a due settimane dalle elezioni presidenziali del 17 marzo e dopo la morte in un carcere della Siberia del principale oppositore di Vladimir Putin, Alexiei Navalny, che ha sollevato un’ondata di proteste e di indignazione ovunque nel Mondo e anche in Russia.

A Mosca, c’è stata la condanna a quasi tre anni di carcere di Oleg Orlov, dissidente e copresidente della fondazione Memorial, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2022, colpevole d’avere scritto su alcuni social frasi contro l’invasione dell’Ucraina e di avere definito il governo russo “fascista”.


[1] Scritto per la Voce e il Tempo, 29 febbraio 2024. Cf https://www.giampierogramaglia.eu/2024/02/29/israele-hamas-tregua-crepa/

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