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Democrazia Futura. Senza Stato e senza rischio

Pubblichiamo di seguito il contributo di Michele Mezza, Docente di culture digitali all’Università Federico II di Napoli, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.

When facts change, I change my mind. What do you do sir?
John Maynard Keynes

E’ stata necessaria una pandemia, con il suo terribile strascico di vittime e di afflizioni, che hanno punteggiato l’intero globo, e che ancora non accennano a farci intendere che sia stato doppiato il picco più drammatico, a far cambiare idea, almeno nella percezione generale, su come il controllo monopolistico dei dati, e soprattutto la gestione degli spazi in cui questi dati vengono estratti, impaginati e rielaborati, sia oggi il principio che determina il nostro destino, fino alla separazione più estrema fra la vita e la morte.

Il capitalismo della sorveglianza, secondo la dizione proposta, con l’omonimo suo libro, da Shoshanna Zuboff (1), si impone oggi come una nuova marca dell’economia di mercato, che tende a marginalizzare gli Stati come ultima e forse residuale forma di un potere pervasivo che riesce anche a distinguersi rispetto al dominio finanziario, in virtù di una centralizzazione in poche mani della capacità di prevedere, sulla base di certezze date proprio dal controllo onnivoro di masse poderose di big data, da comportamenti individuali e orientamenti collettivi, senza più lasciare nulla all’alea del rischio.

Con la sua consueta e accessibile lucidità, il premio Nobel dell’economia, Joseph Stiglitz nel suo ultimo testo Popolo, Potere e Profitti (2), esemplifica questa minaccia da parte dei controllori degli algoritmi di gestione dei big data scrivendo “Poiché l’intelligenza artificiale e i megadati consentono alle aziende di stabilire qual è il valore che ciascun individuo attribuisce a diversi prodotti e che è quindi disposto a pagare, essi danno a queste aziende il potere di discriminare i prezzi , facendo pagare di più a quei consumatori che attribuiscono maggior valore al prodotto o che hanno meno opzioni. La discriminazione di prezzo non solo è scorretta, ma danneggia l’efficienza dell’economia”.

Questo solo per limitarci alle ripercussioni nell’ambito del commercio.

Ma vedremo più avanti come proprio la Zuboff analizzi il dominio che queste aziende della sorveglianza esercitano ormai sulle nostre discrezionalità più rilevanti e intime. A partire dalla nostra stessa salute. Arrivando, con l’ultimo progetto di Elon Musk, ad ipotizzare addirittura un legame diretto, fisico fra il nostro cervello ed i loro data base. Mediante ormai l’identificazione fra calcolo e algoritmi, e di conseguenza, con l’estensione del controllo degli algoritmi alle stesse pratiche matematiche, il potere dei monopolisti delle piattaforme digitali arriva fino alle postazioni di terapia intensiva negli ospedali.

L’epidemia e calcolo

Donald Ross, l’inventore dell’epidemiologia moderna, che si misurò con il flagello della spagnola che uccise più di 80 milioni di essere umani, nel pieno della prima guerra mondiale, diceva già nel 1911 che “l’epidemiologia a ben vedere è una branca della matematica, e gli specialisti commetterebbero meno errori grossolani se fossero più attenti agli aspetti della disciplina”. A quei tempi gli aspetti della disciplina che bisognava meglio calcolare erano proprio le forme e le dinamiche del contagio che stavano disegnando in Europa un vero e proprio grafo digitale, ossia una figura che connette e rivela la logica di collegamento dei nodi di un sistema reticolare.

Quasi un secolo dopo, nel 1999, Albert-Laszlo Barabasi, il grande matematico ungherese che ha elaborato proprio la teoria dei grafi come visualizzazione delle dinamiche virali, ci ha dimostrato che nelle reti, sia virtuali che materiali, si proceda per addensamento attorno ai nodi più riconosciuti e popolari. Insomma sul versante digitale, i più forti diventano sempre più forti, mentre sul versante epidemiologico, il contagio viene propagato prevalentemente da grandi diffusori.

Il coronavirus non fa eccezioni: la pandemia si configura come un’infezione delle nostre relazioni, decifrabile da una logica matematica, come ha scritto Paolo Giordano nel suo instant book Nel Contagio (3). Il totale dominio dei numeri sulle pratiche sanitarie, e sulle – ancor più subalterne -decisioni politiche, si è affermato in questi mesi con la nostra affannosa e bulimica ricerca per ogni possibile decisione, sia essa terapeutica o istituzionale, di un numero, di un dato di un indicatore che potesse darci certezza, o almeno toglierci gli scrupoli che il vociare contrastante delle opinioni introducevano. Come scrive la Zuboff nel suo testo, per spiegare la logica e la funzione sociale degli algoritmi che ci programmano: “Non siamo il soggetto, e nemmeno, come invece ha affermato qualcuno, il prodotto delle vendite di Google. Siamo invece gli oggetti dai quali vengono estratte le materie prime, espropriate da Google per le proprie fabbriche di previsioni. Il prodotto di Google sono le previsioni sui nostri comportamenti, che vengono venduti ai suoi reali clienti, e non a noi. Noi siamo i mezzi per lo scopo di qualcun altro”.

Per questo i grandi titolari dei big data tendono a consegnare, chiavi in mano, ai governi, i pacchetti di analisi e gestione dei dati, come stanno facendo con le app di contact tracing, eliminando quello che loro chiamano l’attrito burocratico, che in realtà è la presenza della democrazia, attraverso una dialettica di utilizzo e impostazione proprio dei data base.

L’efficacia di un modello matematico che mira a cogliere il punto di innesto di una pandemia, proprio per la complessità e specificità territoriale e culturale perfino del fenomeno patologico, che viene filtrato e modulato attraverso codici linguistici prima che numerici, è sempre l’effetto di una combinazione  orientata e dosata da un programmatore del modello matematico, con graduazioni ed intensità certo condizionate dal momento, dalla storia del fenomeno, e le variabili terapeutiche del territorio, ma comunque legate alla struttura univoca del calcolo.

Un esempio esauriente di come un sistema di calcolo predittivo debba fare i conti con la specificità linguistica del territorio ce lo propone l’autorevole Imperial College di Londra, che già dal gennaio 2020 aveva inquadrato nelle sue griglie analitiche l’approssimarsi della pandemia in Europa, che, in uno studio riferito al rischio di recidiva nella fase 2 in Italia (4), analizza dettagliatamente le caratteristiche tipiche nelle varie regioni delle forme di morbilità, integrandole con le informazioni di profilazione, fin troppo minuziose, rilasciate occasionalmente da Google, per ricavare, regione per regione, indici previsionali degli effetti di una nuova devastante fase di esplosione della malattia.

La domanda che ha posto la stessa Zuboff in un suo commento è: ma perché gli Stati non hanno avuto accesso a questi documenti? Perché non hanno preteso, per pubblica utilità, che i data base di Google e Facebook fossero accessibili alle autorità sanitarie?

Per cui se è vero, come spiega Paolo Zellini nel suo saggio La dittatura del calcolo (5) che la spinta ad appoggiarsi a sistemi matematici per decidere proviene “non soltanto per la legittima ricerca di un surrogato artificiale che ponga rimedio ai limiti della nostra intelligenza, ma anche per una ragione più intrinseca, dovuta al fatto che persino i più trascurabili atti della nostra vita quotidiana contengono operazioni di pura razionalità, che agiscono segretamente anche nelle più avanzate teorie e scoperte scientifiche. Il Computer sembra saperlo e ci ha già dimostrato da un pezzo che quando i nostri atti crescono di numero e diventano milioni o miliardi siamo costretti a demandargli ogni calcolo e ogni capacità di previsione”.

In questo automatismo che ci appare diffuso al vertice di ogni istituzione, nazionale o locale, si manifesta però anche quella che ancora Zellini definisce “il carattere virtualmente dispotico degli algoritmi”. Dispotico perché discrezionale e subalterno ad interessi proprietari, dice la Zuboff. Il dispotismo dei processi matematici sembra oggi agevolare l’azione di governo, semplificando procedure, relazioni, dialettiche, appiattendo confronti e dibattiti, annullando opposizioni e attriti. Ogni decisione diventa implacabile, inevitabile, necessaria.

E’ questa semplificazione che dà ragione ad Hannah Arendt quando parla della coincidenza nell’azione politica fra verità e interesse. I due elementi si intrecciano ambiguamente, rendendo paradossalmente meno convincente, meno credibile, meno forte una conclusione inevitabile, quando essere sembra aderire perfettamente all’interesse di parte.

In questo dualismo, fra la necessità di affermare una scelta indispensabile, urgente, vitale e un la circostanza di forzare un equilibrio politico ed istituzionale, si perde di vista la specificità di una scelta terapeutica, finalizzata alla sicurezza personale dei cittadini.

Chi studia i nuovi fenomeni digitali, in questa spirale ulteriore che il coronavirus sta dipanando attorno alle nostre attività, allargando le distanze e “virtualizzando” le relazioni, si trova di fronte alla necessità di una scelta: o farsi antropologo delle relazioni a rete, apprendendo insieme alle comunità come si realizza il nuovo mondo, oppure privilegiare un approccio da etnografo, studiando criticamente le community dall’esterno. Due metodologie che inevitabilmente si intrecciano, ma che manterranno sempre una differenza di fondo, capace di incidere sull’esito della ricerca: imparare con la rete o sulla rete.

Nelle more del contrasto all’infezione virale, abbiamo assistito a una progressiva forma di algoritmizzazione – come scrive Ivan Illich nel suo saggio dedicato a La Convivialità (6) delle nostre azioni, che vengono sempre più liofilizzate all’interno di una continua impaginazione computazionale. I dati diventano centrali per il loro fluire, cioè per la velocità di aggiornamento, più che per la loro documentabilità, la loro fondatezza critica.

In questo stato di emergenza che si crea attorno all’incalzante necessità di avere dati sempre più specifici e aggiornati, la potenza di calcolo è sempre più pervasiva, strumentale, dirompente. Sempre meno neutra, trasparente e condivisa. Questo è il fenomeno che sorregge i nostri comportamenti, a cominciare dalla stessa domanda di cura.

In due nuovi campi di applicazione, come la sanità, diventata primaria in questo tornante del 2020, e il diritto, sospinto anche dalle accelerazioni del lockdown, che hanno imposto una sbrigativa virtualizzazione delle procedure giudiziarie, appaiono con maggiore evidenza i caratteri prescrittivi e disciplinari, avrebbe detto Michel Foucault, le forme di automatizzazione eterodirette dei processi discrezionali dell’informazione.

I due testi

Si rintraccia in questo snodo che ho provato a descrivere con questa lunga premessa il cuore del ragionamento che sorregge il lavoro di Shoshanna Zuboff che viene sintetizzato dall’autrice come «il problema dei due testi». Si riferisce ai due codici di comunicazione che ingabbiano ogni nostra attività relazione e riflessiva, sdoppiandone le possibilità di interpretazione e di utilizzo.

Il primo di questi due testi, spiega l’autrice, è il contenuto che ci appare come evidente, come appunto testo trasparente, di cui noi siamo lettori, secondo le forme tradizionali che ci sono più familiari e care, come appunto la pagina stampata o il testo elettronico da acquisire, o il video che scegliamo di guardare in televisione.

Ritroviamo, in questa prima dimensione – il primo testo – il brusio comunicativo in cui siamo immersi, quel brodo primordiale di pulviscolari relazioni e contenuti che produciamo e consumiamo sotto forma di siti web, blog, video, post, sms, foto, storie e messaggi di ogni tipo. Quest’attività, che per gli anni della scrittura, diciamo i quattro millenni della storia umana, sotto varie forme, dalle prime tavolette incise dai Sumeri fino ai giornali elettronici e ai social, è stata la parte nobile e preziosa che rappresentava la differenza della specie umana da tutte le altre, nel capitalismo della sorveglianza, come lo intende la Zuboff, diventa invece un simulacro di schermo, anzi, spiega l’autrice, una vera copertura, un pretesto. Dietro a quel baluginio di pensieri ed emozioni che rappresentano il cogito ergo sum dell’umanità, scorre e si arricchisce un altro contenuto, un testo ombra.

Tutto quello che esprime il primo testo, per quanto possa essere creativo e originale, diventa effimero pretesto, occasionale strumento per arrivare all’ombra, al secondo testo che veicola i dati su ogni nostra attività cerebrale. È questo secondo flusso che rende i capitalismi della sorveglianza capaci di prevedere e orientare le nostre emozioni e i nostri comportamenti assicurandosi un vantaggio assoluto nello stesso sistema mercantile: «in questo testo la nostra esperienza viene costretta a diventare materia prima da accumulare e analizzare per i fini commerciali di altre persone […] le leggi dinamiche del capitalismo della sorveglianza determinano sia la segretezza sia la continua crescita del testo ombra».

In questo ginepraio di sensori e di indicatori, teso a trasferire dal nostro cervello alle memorie delle learning machine l’intera gamma delle nostre sensazioni, la sanità è forse il reparto più avanzato sia per sperimentare l’efficacia di questi dispositivi, sia per accumulare informazioni sensibili che inconsapevolmente aggiungiamo alle nostre relazioni, senza nemmeno registrarle noi stessi. La telemedicina è quello che le smart city sono per le comunità urbane: un processo di transizione da un ambito pubblico e materiale a uno privato e virtuale di attività che nella loro composizione possono essere analizzate e riprogrammate. Il tutto sempre nella rigorosa applicazione del principio dei due testi: ciò che si vede è puro pretesto, quello che non si vede è puro potere.

Proviamo ad applicare questa regola a quanto abbiamo visto in azione nel corso dei mesi di emergenza più acuta, almeno in Europa: i dati sull’andamento del virus cosa erano? Primo o secondo testo? Il ciarlare sulle app, e sull’anonimato, cosa era, primo o secondo testo?  La nostra app italiana Immuni, con la sua dichiarata compatibilità agli standard di Google e Apple, era dispositivo teso alla nostra salute, o la nostra salute, tramite quel meccanismo, era un mezzo per trasferire il secondo testo ai due proprietari del 94% dei sistemi operativi degli smartphone del pianeta? La stessa pandemia non potremmo definirla, analizzandola con il necessario distacco storico, come la più straordinaria opportunità di appropriazione di dati personali e indisponibili per lo stesso titolare in condizioni normali da parte di soggetti terzi senza alcuna finalità terapeutica?

Quello che stiamo osservando, a valle della fase emergenziale della prima ondata del virus, è tecnicamente e sistematicamente analizzabile come una saldatura dei due motori della privatizzazione digitale della nostra vita: telemedicina e smart city. I due circuiti tendono a saldarsi in un unico network di tracciamento della nostra esistenza che moltiplica il suo controllo globale mediante la profilazione sia della nostra parte pubblica, smart city, sia di quella privata e intima, come la telemedicina.

Come sempre, il capitalismo della sorveglianza procede nella sua presa di possesso dei nostri dati producendo pensiero e suggerendo soluzioni.

I big data come gabbia

Le nuove vision che sono oggi sul tavolo dei decisori istituzionali, sollecitati dai più avvertiti e illuminati teorici della socializzazione terapeutica, basate sulla territorializzazione della cura e la deospedalizzazione delle terapie, in mancanza di solidi strumenti di negoziazione sociale dei flussi che si vengono a creare, non diventano altro che confezioni seduttive di pacchetti di dati da concedere ai monopolisti.

Cosa è stata finora, si chiede il testo che stiamo analizzando, la retorica della mobilità intelligente se non la possibilità regalata a Uber di concentrare tutte le informazioni sugli sciami di spostamenti dei cittadini nelle metropoli più avanzate del pianeta? E il turismo a basso costo, mediante la capitalizzazione degli spazi sottoutilizzati nelle nostre case, in cosa si è risolto se non in una cessione di sovranità urbanistica a Airbnb?

Lo stesso si è già realizzato con le esperienze di massa che nei fatidici mesi del lockdown hanno visto università, pubbliche amministrazioni, imprese private, associazioni e partiti trasferire sulle piattaforme proprietarie degli Ott tutta la loro attività più riservata e delicata, senza nemmeno contrattare protocolli di uso esclusivo di questi dati, anzi arrivando addirittura a pagare costosi canoni di accesso a quelle piattaforme.

Per dare una dimensione dello spostamento di valore che questi comportamenti «distratti» delle pubbliche amministrazioni hanno prodotto per i sistemi digitali, basti pensare che nel giugno del 2020, dopo solo tre mesi di smart working intensivo, una banale e per molti versi inefficiente piattaforma di videomeeting come Zoom, è arrivata a valere più delle principali sette compagnie aeree del mondo (7).

La telemedicina, che viene oggi richiesta proprio dai segmenti più irruenti e libertari della pubblica opinione, sta diventando una incontrollabile e prodigiosa macchina di denaro e di potere per tutti i principali titolari di quei dispositivi. Le gerarchie del mondo mutano proprio nell’anticamera dei ministeri e degli assessorati e nelle camere di terapia intensiva.

Pensiamo, ad esempio, ai termometri in rete, che trasferiscono automaticamente le rilevazioni febbrili a un data base sanitario centrale di Amazon, pensiamo alla sensoristica indossabile, fino all’integrazione delle ricette digitalizzate o delle corrispondenze con i medici di base, gestite da data set che – in cambio della personalizzazione dell’assistenza – accumulano poteri impensabili fino a qualche mese fa.

Nel 2016 erano già disponibili per le piattaforme mobili di Google e Apple almeno 100 mila app sanitarie, raddoppiate rispetto a soli due anni prima. Oggi siamo non lontani dal milione. Una realtà umanamente non identificabile, che produce ogni giorno venticinque volte i dati raccolti da tutti gli ospedali del pianeta.

Il punto su cui ruota da mesi ormai la discussione riguarda la capacità di un sistema di raccogliere ed elaborare i dati per prevenire l’innesto di un nuovo focolaio di infezione, come è già capitato in Cina o negli Usa. Tutte le esperienze, sia nel campo sanitario che in altre attività, ci dicono che l’unico modo per cogliere la fase sorgente di fenomeni è solo quello di combinare i dati della mobilità, o delle relazioni telefoniche, o del contact tracing di base, come pure fa Immuni – di cui abbiamo già ampiamente sviscerato, nelle pagine precedenti, i grossi limiti e le gravi conseguenze –, con le inconsapevoli e dettagliate informazioni rilasciate sui social. Esattamente quei segnali che Google e Facebook copiosamente raccolgono su ognuno dei circa quattro miliardi di utenti della rete, per trasformarli in vere e proprie cartelle cliniche personalizzate.

È il destino di queste informazioni che, profilando ogni nostro più intimo sbalzo emotivo, vengono poi commercializzate in varie forme, fra cui la cosiddetta dark advertising, del tipo di Cambridge Analytica, che rende ognuno di noi bersaglio per messaggi, diretti e riservati, che hanno una tale affinità con il nostro pensiero da non essere riconosciuti come esterni.

Questo accade da anni, sul mercato per tutti noi, solo ai fini di aumentare la capitalizzazione di poche società, mentre – se vogliamo ridurre le vittime della pandemia o limitarne la diffusione – ci troviamo dinanzi a un muro di privacy personali che sembra invalicabile per un pubblico servizio.

In questa attività predatoria, che si realizza proprio in virtù dell’emergenza sanitaria, diventa indispensabile capire quali possano essere le forme di interdizione e di contenimento di poteri che sembrano incontrollabili (8).

Come sarebbe indispensabile «far gestire direttamente le app e i dati che producevano alle autorità mediche connettendo i loro data base con quelli dei dispositivi di tracciamento»: e qui citiamo nuovamente dal Washington Post, da una testata scevra da qualsiasi sospetto di statalismo, come abbiamo osservato nelle pagine precedenti, a sottolineare come questo grido d’allarme provenga anche dai commentatori più insospettabili.

Tanto più che, proprio nei giorni in cui si rivendicava, come chiedevano i proprietari di Android e iOS, di utilizzare solo il discutibile bluetooth come forma di connessione, escludendo la georeferenzazione sicura dei possibili contagiati tramite il Gps, Google vendeva dati tracciati con il suo sistema di localizzazione satellitare diretto alle agenzie del traffico di Milano e Roma: per i tram si può tracciare con il Gps, per gli ospedali no?

Lungo il crinale di questi quesiti si esemplifica la secca conclusione del ragionamento della Zuboff per cui, come scrive senza timore di essere considerata una bolscevica impenitente, dall’alto della sua identità di elegante professoressa liberal di Harvard, che le compagnie della Silicon Valley “sanno troppo per essere libere”,

La Tv biodegradata

Se proviamo a rileggere la storia della comunicazione, e di conseguenza della politica e delle istituzioni, della stessa democrazia occidentale alla luce di questa visione, che considera appunto  l’intero eco sistema delle relazioni digitali solo un reticolo di occasioni e opportunità per – come ancora scrive la Zuboff – “essere esiliati dai nostri stessi comportamenti, e ci viene negato l’accesso e il controllo della conoscenza che deriva da tale esproprio per conto terzi”, potremmo scorgere una trama organica che connette e giustifica quanto sia accaduto negli ultimi cinquant’anni, tale è il tempo di vita della rete, benché ancora qualcuno la definisca “nuova tecnologia”.

Come diceva Robert Musil “se qualcuno ci dice che siamo in una nuova era non sa in quale era stia vivendo”. Intendeva dire che i grandi processi della storia, che pure possono arrotarsi e rendersi più visibili per eventi specifici, e la pandemia è uno di questi, non iniziano mai ad una certa ora di un certo giorno, ma sono sempre l’effetto di lunghe ondate che hanno attraversato da tempo l’oceano.

La frantumazione della tv generalista e la fine della società di massa

Il capitalismo della sorveglianza, che pure ci fu anticipato da comunità intellettuali come il gruppo francese che ruotava intorno a Foucault, Deleuze, e persino Guattari negli anni Ottanta, o come gli stessi francofortesi ci avvertivano fin dagli anni Trenta, con le intuizioni di Walter Benjamin e di Theodor Wiesengrund Adorno, sulle disintermediazioni della comunicazione, giunge al termine di una lunga stagione che ha frantumato le identità di massa, a partire proprio dalla madre di tutte le uniformità, che è stata la televisione generalista. Come poteva sopravvivere quella cultura, quale è stata la televisione soprattutto nell’accezione europea di servizio pubblico sociale, a quella “sovversione dall’alto” come la definisce la Zuboff, usando evidentemente la categoria gramsciana, di un sovvertimento di ogni relazione di mercato introdotta da Google con la sua personalizzazione pianificata dei nostri consumi?

Quelle fragili platee popolari che per almeno tre secoli hanno sostenuto e giustificato le forme di comunicazione verticali, dalla commedia dell’arte italiana, al teatro inglese, fino al cinema americano e alla televisione di tutti al populismo collettivista delle piattaforme profilanti di Facebook e Amazon che rinchiudono ogni singolo utente nella propria bolla per poi renderli tutti egualmente subalterni? Cosa altro dimostra la tronfia dichiarazione del CEO di Netflix Hastings per cui l’unico concorrente della sua piattaforma è il sonno?

La Zuboff parla in questa straordinario passaggio di filosofia politica di “perversione dell’egualitarismo” indotto dalla Silicon valley. Una definizione che aggancia al pensiero di Hanna Arendt, quando l’allieva di Heidegger scrive che “Il tiranno governa secondo la sua volontà e i suoi interessi. Chi governa si oppone a tutti gli altri, e tutti gli altri sono eguali, cioè egualmente privi di potere”. Quello che la Zuboff chiama nel suo libro il collettivismo digitale.

Dalla società di massa passiamo dunque ad una massa di piattaforme che ritornano ad un unico ed esclusivo controllo, che è quello degli algoritmi dominanti che li programmano.

Dalla televisione, tramite un incontrollato governo di quella carica di libertà che era pure insita nella diffusione della Rete, e che ci porta ad emanciparci dagli apparati funzionariali che organizzano palinsesti e senso comune, stiamo ora passando ad una dittatura del calcolo, che rovescia l’autonomia che pure la Rete autorizza in una piatta uniformità di ognuno rispetto al proprio profilo, così come ci viene assegnato dagli algoritmi di controllo.

La chiave politica del denso ragionamento del testo sta in una forma del tutto inedita, ma anche in questo caso non improvvisa, di negoziazione della potenza di calcolo e del flusso dei dati. Infatti spiega la Zuboff, colmando una lacuna cognitiva e ideologica che da almeno trent’anni, dal fatidico 1989, sta ingoiando ogni ambizione delle forze riformatrici e progressiste, se il capitalismo oggi si esprime mediante “il privilegio di una libertà e conoscenza illimitate” da parte di pochi soggetti che monopolizzano la carica innovativa e irruenta delle nuove forme tecnologiche, il codice di interpretazione politica di questa carica sta nell’abbandono di ogni reciprocità fra programmatori e utenti, fra piattaforme e cittadini, fra proprietari e comunità.

Il capitalismo del XX° secolo era stato segnato da un legame di reciprocità, sociale, economico e politico, che indissolubilmente legava i soggetti sociali: capitalisti e lavoratori, proprietari e diseredati, amministratori e cittadini, eletti ed elettori. Un legame basato sul patto che veniva periodicamente rinnovato all’indomani di ogni conflitto o contrattazione. Era il conflitto che ha sempre dato forma e significato alla democrazia: Polemos sommo bene, diceva Epicuro.

Il capitalismo della sorveglianza ha abolito il conflitto, isolando ognuno di noi nelle proprie esperienze, dandoci strumenti e procedure per facilitare la nostra quotidianità, in cambio dell’abdicazione di ogni ambizione di condivisione del potere reale.

Questo cammino non inizia certo con le prime BBA, con i primi nodi di rete, nelle università americane della costa occidentale americana alla fine degli anni Sessanta.

Inizia da prima, sommessamente con la pressione che il sistema mediatico, connesso all’intera gamma dei consumi, esercita sui ceti urbani. I giornali diventano fin dalla pace di Vestfalia i veri cani da guardia del potere, deviando, orientando, identificando le forme di contestazione.

Poi, con l’elettrificazione dei media, dal telegrafo, alla radio ed infine alla televisione, si accelera il processo di verticalizzazione, che rimane pur sempre parte esplicita di un’arena politica dove la reciprocità conflittuale condiziona anche la gestione mass mediologica.

Il conflitto come vaccino

Il cambio di genere da broadcast a browsing, da una trasmissione centrale a una navigazione individuale, decentra questa identificazione, disperdendone i caratteri ideologici e, appunto conflittuali.

Ora, forse anche con la pandemia, il potere dei dati e del calcolo ci riappare come figlio di una gerarchia che si sottrae a qualsiasi condivisione e riprogrammazione. Stati, comuni, territori, comunità, partiti, devono diventare motori di un processo di smantellamento di questo arroccamento del potere nelle agenzie computazionali. La Zuboff ci ha fornita una straordinaria documentazione e metodologia di analisi. Le esperienze di questi mesi ci hanno mostrato come l’attrito sociale si estenda e possa interrompere l’omologazione digitale.

Un giovane Emile Durkheim alla fine del XIX° secolo, dinanzi al nuovo leviatano industriale che si diffondeva in Europa colse come proprio la struttura del nuovo modello produttivo avrebbe generato le nuove catene per ognuno di coloro che entravano in quelle fabbriche. Nel suo saggio La divisione del lavoro sociale (9) scrisse: “L’effetto più rilevante della divisione del lavoro non è il fatto che le funzioni divise siano più produttive, ma che le renda solidali. Il suo ruolo non è solo quello di abbellire o migliorare le società esistenti, ma è quello di rendere possibili che senza di essa [la divisione del lavoro ndr.] non potrebbero esistere. Si spinge oltre i meri interessi economici, e stabilisce un ordine morale e sociale sui generis”.

Cento anni di lotte operaie hanno bilanciato e, in parte, neutralizzato questo dominio ossessivo. Ora, spiega la Zuboff, è “la divisione dell’apprendimento a spingerci oltre i meri interessi economici, stabilendo le basi del nostro ordinamento sociale e del suo contenuto morale”. E per questo, conclude, “tali patologie possono venire curate solo da politiche che affermino il diritto delle persone a contestare, combattere e sovrastare questo potere iniquo e illegittimo”.

Un appello che non suona tanto diverso da quello che risuonò cinquant’anni fa nelle campagne di Barbiana da parte di un prete, Don Milani, che per cercare il suo Dio, guardava lontano, nella stessa direzione e diceva:

Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico”.

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Note al testo

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