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Democrazia Futura. O Calenda o Di Maio

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Massimo De Angelis, condirettore di Democrazia futura invita a distinguere quel che definisce “un partito e una politica di centro” propri della tradizione popolare di Luigi Sturzo da “un partito e una politica del centro” espressione di correnti come quella dorotea e neo dorotea dominanti ancora negli anni Ottanta del novecento in un articolo significativamente intitolato “O Calenda o Di Maio”.

Massimo De Angelis

Da qualche giorno, dopo la fuoruscita di Luigi Di Maio dal Movimento 5 stelle, si fa un gran parlare di centro, di ritorno al centro, di grande centro. Il tema ha sostituito quello del “campo largo” di Enrico Letta che, quanto a metodo, è del grande centro una variante, ma spostata a sinistra. Tale richiamo è anche comprensibile come aspirazione a un sobrio realismo, per un sistema che è allo stremo e dopo anni di posizioni estreme. Ma esso può divenire ambiguo e scivoloso e occorre perciò chiarire.

Sovviene in proposito l’insegnamento di Luigi Sturzo di un secolo fa. Al cuore di esso vi è l’idea che vi è un partito e una politica di centro e quella di una politica e un partito del centro, che cioè fa politica occupando il centro dello schieramento politico e da lì tessendo le possibili alleanze. Il primo è un partito che mette al centro il programma, l’altro mette al centro lo schieramento e gli equilibri di potere. Ebbene, venendo ad oggi, il primo modello sembra attagliarsi al modello di Carlo Calenda il secondo a quello di Luigi di Maio. Volendo pensare a esempi del passato il primo fa pensare a “meriti e bisogni” e a “partite iva”, il secondo al grande centro di Antonio Gava e Vittorio Sbardella.  Tornando a Sturzo, il suo partito popolare voleva essere un partito di centro contro una politica del centro, quella del compromesso clerico-moderato di Giolitti e del patto Gentiloni.

La politica intesa come politica del centro vuole essere essenzialmente mediazione permanente, metabolizzazione e compensazione tra interessi partitici e corporativi più o meno legittimi. Una politica di centro vuole essere invece centralità dei programmi, dinamismo della società civile, innovazione e riformismo. Vuole essere, ancor prima e ancor di più, coerenza tra parole e comportamenti. Attenzione, questo è cruciale. Dopo anni di parole roboanti e accattivanti, e insieme di decadenza e inefficienza del sistema politico, e in assenza di ideologie di supporto, la coerenza tra parole e comportamenti è forse il principale ancoraggio che può ricreare un rapporto di fiducia tra politica e cittadini nel contesto di un sistema politico che, come anche altrove in Europa, ha oramai ridotto al minimo la sua credibilità e capacità rappresentativa.

La coerenza tra politica e comportamenti, lo si capisce subito, è ciò che costituisce il possibile credito per la proposta di Carlo Calenda e che viceversa mette subito in fuorigioco Luigi di Maio, passato nell’arco di qualche decina di mesi dalle urla dell’impeachment a Sergio Mattarella e dell’entusiasmo per i gilets jaunes al sostegno perinde ac cadaver allo stesso Mattarella e a Mario Draghi

E’ precisamente in questo senso che Calenda e Di Maio sono, nell’area di centro, agli antipodi.  Il primo rappresenta una ipotesi riformista e liberale, soprattutto nel senso di far saltare i troppi corporativismi di ogni genere che spadroneggiano nello Stato, in una giurisdizione sempre più opaca e corrotta, nelle mille giunture tra economia, leggi istituzioni. Il secondo al contrario rappresenta il miraggio di un doroteismo delle mance moderne (cittadinanza, bonus), delle indicibili stanze di compensazione, non a caso benedetto da Clemente Mastella e punto di riferimento di tutta quella nomenklatura in cerca di autore che costituisce il residuo di partiti declinanti: spezzoni di Forza Italia, frammenti di centro e magari del Pd, e naturalmente transfughi dei 5 stelle.

Se si vuole Calenda ricorda più Sturzo e un certo riformismo socialista, Di Maio è una parodia della centralità democristiana perduta e magari del pentapartito. Due ipotesi incompatibili, con alcuni interpreti a metà strada, a cominciare da Matteo Renzi.

Intendiamoci. Il contesto politico internazionale può portare a situazioni imprevedibili. In fondo la centralità democristiana che condusse infine alle secche del pentapartito e del Caf, alla asfissia e alla corruzione di tangentopoli alle origini aveva anche delle giustificazioni: innanzitutto quella della guerra fredda. Oggi la piccola mossa di Di Maio nasce in effetti nel contesto di una nuova guerra fredda e di una nuova doppia sovranità limitata dell’Italia: verso Bruxelles e verso Washington.

Tutto ciò potrebbe portare a un nuovo pentapartito che questa volta si chiamerebbe Ursula coinvolgendo Forza Italia, centro e Pd. Attorno a Draghi, se vorrà. E’ una ipotesi, un nuovo stato di necessità che potrebbe riproporsi dopo il voto e che costituirebbe una sciagura per ogni sogno di rinascita italiana.

L’altra ipotesi è quella di raccogliere il meglio dei due ex poli attorno all’ipotesi riformista e magari a un Draghi più smart, che è l’idea calendiana.

Così come potrebbe prender corpo, a destra, la suggestione neopresidenzialista.

Quel che avverrà sarà chiaro solo dopo il voto.

Quel che oggi appare è che, in vista delle prossime elezioni, accanto all’ipotesi di un governo di centro destra, sussistono solo le ipotesi riformista di Calenda e dorotea di Di Maio, alternative tra loro come lo sono rinascita e immobilismo; oltre a quella di Letta che più che un campo largo assomiglia sempre più a un’ombra lunga del neo doroteismo.

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