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Democrazia Futura. Misure di contenimento della pandemia e Data Driven Confusion

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Daniele Fichera

Daniele Fichera, ricercatore socioeconomico indipendente, in un pezzo intitolato “Data Driven Confusion” chiarisce – recita l’occhiello – “I rischi di misure di contenimento della pandemia con un approccio basato su dati peraltro confusi”. A suo parere infatti “Informazioni distorte e mal gestite facilitano la formazione e diffusione di posizioni negazioniste”. “La più generale mancanza di chiarezza nella interpretazione e gestione delle informazioni disponibili non solo ha facilitato il diffondersi di posizioni “negazioniste” (anche tra presunti esperti) ma ha anche concorso – osserva il ricercatore indipendente – a favorire incertezze e contraddizioni nelle decisioni pubbliche. D’altra parte le fonti di informazione istituzionale, oscillando tra il formalismo tecno-burocratico nella esposizione dei dati e il moralismo pedagogico nella formulazione delle indicazioni conseguenti, non hanno contribuito significativamente a facilitarne una comprensione consapevole da parte degli intermediari della comunicazione (e dei decisori politici). E’ mancata insomma “la cultura della comunicazione del dato (e in molti casi manca la cultura del dato)” che Fichera giudica decisiva “Per una partecipazione informata dei cittadini”.


Per chi sostiene l’idea di una democrazia deliberativa partecipata l’esperienza del dibattito pubblico sul Covid-19 e le misure per il contenimento della pandemia non è stata edificante. In teoria la facilità di accesso alle informazioni e alla possibilità di esprimere opinioni attraverso vecchi e nuovi media avrebbe dovuto facilitare sia il confronto consapevole sia la condivisione di decisioni equilibrate. In realtà è accaduto il contrario: diffusione di informazioni distorte e polarizzazione delle posizioni.

Sociologi e massmediologi (e forse psicologi) possono aiutare a spiegare le dinamiche di formazione e diffusione delle opinioni negazioniste che si inseriscono in dinamiche più generali che sono state ben descritte da esperti come Mark Thompson (La fine del dibattito pubblico) o Cass R. Sunstein (#republic). Da  ricercatore con qualche esperienza di amministrazione pubblica mi interessa soprattutto la questione dell’incapacità delle istituzioni e dei grandi media di gestire in modo efficace (cioè tale da facilitare l’effettiva comprensione dei fenomeni) la comunicazione delle informazioni (dati e relative elaborazioni) in loro possesso.

Il problema si è manifestato sin dall’inizio. Ci sono volute settimane perché i media capissero che l’andamento del numero giornaliero dei contagi rilevati aveva poco senso se non rapportato al numero delle verifiche (tamponi) effettuati ed era soggetto a variazioni settimanali sistematiche (riduzioni durante il week end dovute appunto al minor numero di verifiche effettuate, o comunque contabilizzate, in quei giorni).

Ragioni del diffondersi di opinioni negazioniste e oscillazioni delle fonti informative istituzionali

La più generale mancanza di chiarezza nella interpretazione e gestione delle informazioni disponibili non solo ha facilitato il diffondersi di posizioni “negazioniste” (anche tra presunti esperti) ma ha anche  concorso a favorire incertezze e contraddizioni nelle decisioni pubbliche. D’altra parte le fonti di informazione istituzionale, oscillando tra il formalismo tecno-burocratico nella esposizione dei dati e il moralismo pedagogico nella formulazione delle indicazioni conseguenti, non hanno contribuito significativamente a facilitarne una comprensione consapevole da parte degli intermediari della comunicazione (e dei decisori politici).

Anche quando sono stati adottati strumenti di analisi più sofisticati, come l’indice Rt, questi sono stati utilizzati senza l’accompagnamento di un’azione di chiarimento e spiegazione, rendendoli formule esoteriche (molto spesso citate ma raramente comprese anche da decisori e commentatori) che venivano fatte discendere dall’alto verso un’opinione pubblica ritenuta, evidentemente, incapace di comprendere o non meritevole di ulteriori spiegazioni.  

Errori commessi nell’informazione e nella comunicazione dei dati durante la campagna vaccinale

Lo stesso modello si è, purtroppo, ripetuto nella gestione della campagna vaccinale. Anche in questo caso ci sono volute settimane perché si arrivasse ad enucleare l’unica informazione veramente significativa: la differenza nelle frequenze relative di contagio, ospedalizzazione e decesso tra la popolazione non vaccinata e quella vaccinata a parità di classe di età.

A lungo si è  è fatta confusione utilizzando dati impressivi ma tecnicamente impropri, come la quota di non vaccinati tra i ricoverati o i decessi, che oltre a non avere di per sé un effettivo significato è un’arma comunicativa a doppio taglio, visto che quando la quota di vaccinati sulla popolazione sale oltre un certo livello – come è accaduto in Israele- la distribuzione nei ricoveri cambia (non perché i vaccini non funzionino ma perché i non vaccinati sono talmente pochi che pur avendo frequenze relative di ricovero molto più elevate sono di meno in termini assoluti).

All’altro estremo si è riproposto l’esoterismo, facendo ricorso a un indicatore, l’“efficienza vaccinale”, tanto scientificamente corretto quanto difficilmente comprensibile anche ad un’opinione pubblica mediamente informata (e probabilmente anche ad alcune autorità pubbliche che lo utilizzano …).

Il perdurare di un modello schizofrenico di comunicazione dei dati deriva presumibilmente non dalla cattiva volontà ma dal mancato coinvolgimento di competenze specifiche, che sono diverse sia da quelle  scientifiche specifiche sia da quelle di comunicazione generica.

La cosa è abbastanza sorprendente perché in Italia si ha la fortuna di avere uno dei migliori istituti di statistica del mondo (l’Istat) che da anni lavora su forme di comunicazione che coniugano il rigore metodologico nell’elaborazione dei dati con l’adozione di modalità di comunicazione comprensibili (almeno a chi voglia comprendere). Anche nella vicenda Covid-19 l’Istat ha mostrato le sue capacità elaborando gli studi sulle variazioni dei decessi registrati dalle anagrafi comunali che hanno reso evidente  la drammaticità dell’impatto della pandemia  spazzando via le capziose polemiche sulle morti “per” e “con” Covid. Di fronte al dato dei 100 mila decessi anagrafici in più nel 2020 rispetto alla media dei cinque anni precedenti non c’è replica possibile anche per il più ottuso dei negazionisti. 

Cultura (della comunicazione del) dato, polarizzazioni apodittiche e decisioni contraddittorie

La verità temo sia che – fuori dall’Istat, Banca d’Italia e qualche altro caso – nelle istituzioni italiane manca la cultura della comunicazione del dato (e in molti casi manca la cultura del dato). Sovrapponendo questo con gli elevati livelli di approssimazione dei media tradizionali e con la confusione dei nuovi si produce l’effetto perverso accennato all’inizio: la maggiore disponibilità (teorica) di informazioni e di strumenti per comunicarle anziché produrre confronti consapevoli e ricerca di soluzioni equilibrate produce polarizzazioni apodittiche (e decisioni talvolta contraddittorie). Nel caso del Covid-19 la ragionevolezza delle linee di azioni pubbliche (dal lock down al green pass) è tale (al di là di confusioni ed errori attuativi clamorosi che vi sono stati) da rendere contenuti gli effetti negativi dell’approccio sbagliato alla comunicazione. La stragrande maggioranza degli italiani si è comportata e si sta comportando con buon senso, anche se la consistenza delle minoranze irresponsabili (o più semplicemente scettiche) avrebbe potuto essere decisamente minore.

Per una partecipazione informata dei cittadini. Due condizioni preliminari

Il problema è però più generale: le rivoluzioni digitali mettono a disposizione delle amministrazioni pubbliche strumenti straordinari per l’acquisizione di dati e informazioni, per la loro condivisione con l’opinione pubblica e per lo sviluppo di confronti democratici sulle decisioni conseguenti. Questo almeno è quanto sostengono i teorici della “data driven decision” e delle “responsive politics”. Si pensi, banalmente, a quanto potrebbe essere oggi “informata” la partecipazione dei cittadini alla discussione sulla realizzazione di grandi e piccole opere pubbliche. Qualche passo in questa direzione lo si è compiuto con la pubblicazione degli open data da parte delle amministrazioni pubbliche (anche se sulle modalità molto c’è ancora da fare) e con la sperimentazione di processi di decisione “partecipati” soprattutto da parte delle amministrazioni locali.

Ma l’esperienza di “Data Driven Confusion” che abbiamo vissuto sul Covid-19 sembra indicare che senza la capacità di gestire in modo adeguato raccolta e diffusione delle informazioni e dibattiti conseguenti il risultato può essere un peggioramento del livello del confronto ed una maggiore erraticità nelle decisioni pubbliche (basti pensare alla sconcertante sequenza di indicazioni contradditorie formulate dalle autorità sull’impiego di un importante -ed economico- vaccino a seguito di singoli eventi di grande risonanza mediatica).

Trovare una “terza via” tra la piatta comunicazione tecno-burocratica e gli approcci propagandistici non è facile, ma sarebbe molto utile.

Senza pretesa di esaustività è possibile proporre due “condizioni preliminari”:

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