Approfondimento

Democrazia Futura. La tutela del pluralismo nel nuovo Testo Unico dei servizi di media digitali

di Francesco Posteraro, giurista, studio Porteraro Cavallo, già Commissario Agcom |

L’Avvocato Francesco Posteraro, già Commissario Agcom, esperto di diritto costituzionale, esamina la problematica relativa a “La tutela del pluralismo nel nuovo Testo Unico dei servizi di media digitali”. I limiti dell’intervento di riforma.

Francesco Posteraro

Il Focus di approfondimento di Democrazia futura dedicato alla riforma del Tusmar definita da Erik Lambert e Giacomo Mazzone “un’occasione mancata” entra nel vivo con l’analisi dei limiti dell’intervento di Riforma. Inizia l’Avvocato Francesco Posteraro, già Commissario Agcom, esperto di diritto costituzionale, esaminando la problematica relativa a “La tutela del pluralismo nel nuovo Testo Unico dei servizi di media digitali”: “Nel delegare il Governo a recepire la direttiva n. 1808 del 14 novembre 2018, che ha modificato la direttiva Servizi Media Audiovisivi (SMAV) n. 13 del 2010, la legge europea 2019-2020 (n. 53 del 22 aprile 2021) ha indicato, fra i principi e criteri direttivi, il riordino del Tusmar “attraverso l’emanazione di un nuovo Testo Unico dei servizi di media digitali, con adeguamento delle disposizioni e delle definizioni alla luce dell’evoluzione tecnologica e di mercato”. Una delega quanto mai ampia – osserva Posteraro –  in virtù della quale è stato possibile procedere a una riscrittura dell’art. 43 del Tusmar (ora art. 51 del nuovo Testo Unico) – ossia della norma intesa a tutelare il pluralismo nel Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC) – che non può dirsi conseguenza della citata direttiva 1808 del 2018. Quest’ultima si limita infatti ad accennare al pluralismo dei media solo incidentalmente, nel nuovo testo dell’art. 30, come a uno degli obiettivi cui dovrà conformarsi l’esercizio dei poteri delle autorità nazionali di regolamentazione. Le ragioni della riforma dell’art. 43 derivano piuttosto dalla sentenza del 3 settembre 2020, con la quale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato contrastante con il diritto europeo, e segnatamente con il principio della libertà di stabilimento, il comma 11 del predetto art. 43, recante il divieto di conseguire ricavi superiori al 10 per cento del SIC, anche attraverso società controllate o collegate, per le imprese i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche siano superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi del settore. Pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale proposto dal TAR del Lazio in un procedimento promosso da Vivendi contro l’Agcom e Mediaset, la Corte ha statuito, in particolare, che il superamento di soglie predeterminate di ricavi non può essere ritenuto di per sé idoneo ad attestare l’effettiva sussistenza di una minaccia per il pluralismo dei media. I giudici del Lussemburgo hanno aggiunto che non appare conciliabile con le finalità perseguite dalla norma l’equiparazione della fattispecie del collegamento a quella del controllo ai fini del calcolo dei ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche. Hanno rilevato, altresì, che l’art. 43 definisce in modo restrittivo tale settore, in quanto esclude mercati quali i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad internet, nonché i servizi di radiodiffusione satellitare”. Posteraro si sofferma sul tema de “La responsabilità delle istituzioni europee per definire un level playing field adeguato”: “In termini più generali, ci si potrebbe chiedere se la nuova normativa sia in grado di raggiungere l’obiettivo – enunciato nella legge di delegazione europea – di adeguare la disciplina alla luce dell’evoluzione tecnologica e di mercato. Sotto tale profilo, devono essere valutati positivamente sia l’ampliamento dei parametri di cui occorre tener conto nella verifica della sussistenza di posizioni lesive del pluralismo sia l’inserimento, fra i ricavi che rilevano per la quantificazione del SIC, di quelli derivanti dalla pubblicità online. E’ tuttavia evidente che questo non basta di per sé a garantire in modo effettivo il pluralismo dei media in uno ecosistema del quale fa parte a pieno titolo anche la rete. Un vero adeguamento all’evoluzione della tecnologia, al mutamento dei modelli di business e, soprattutto, al cambiamento radicale degli equilibri di mercato richiederebbe la sottoposizione degli operatori tradizionali e di quelli digitali a regole e obblighi omogenei. Si tratta però di un compito che manifestamente esula dai poteri del legislatore delegato e che chiama in causa la responsabilità delle Istituzioni europee. Non potrà esservi un vero level playing field nel quale la competizione fra gli operatori garantisca il pluralismo delle fonti di informazione fino a quando le piattaforme digitali continueranno a non essere soggette a responsabilità editoriale. L’esonero da responsabilità previsto per gli ISP dalla direttiva sul commercio elettronico (n. 31 del 2000) – esonero limitato, ma non cancellato dalle più recenti iniziative europee – conclude Posteraro – sembra ormai non più rispondente al ruolo e alla portata attuali delle grandi piattaforme, le quali esercitano sulle scelte e sugli orientamenti del pubblico un’influenza certo non minore di quella propria dei media tradizionali.

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Del delegare il Governo a recepire la direttiva n. 1808 del 14 novembre 2018, che ha modificato la direttiva Servizi Media Audiovisivi (SMAV) n. 13 del 2010, la legge europea 2019-2020 (n. 53 del 22 aprile 2021) ha indicato, fra i principi e criteri direttivi, il riordino del Tusmar “attraverso l’emanazione di un nuovo Testo Unico dei servizi di media digitali, con adeguamento delle disposizioni e delle definizioni alla luce dell’evoluzione tecnologica e di mercato”.

Una delega quanto mai ampia, in virtù della quale è stato possibile procedere a una riscrittura dell’art. 43 del Tusmar (ora art. 51 del nuovo Testo Unico) – ossia della norma intesa a tutelare il pluralismo nel Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC) – che non può dirsi conseguenza della citata direttiva 1808 del 2018. Quest’ultima si limita infatti ad accennare al pluralismo dei media solo incidentalmente, nel nuovo testo dell’art. 30, come a uno degli obiettivi cui dovrà conformarsi l’esercizio dei poteri delle autorità nazionali di regolamentazione.

Le ragioni della riforma dell’art. 43 derivano piuttosto dalla sentenza del 3 settembre 2020, con la quale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato contrastante con il diritto europeo, e segnatamente con il principio della libertà di stabilimento, il comma 11 del predetto art. 43, recante il divieto di conseguire ricavi superiori al 10 per cento del SIC, anche attraverso società controllate o collegate, per le imprese i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche siano superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi del settore.

Pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale proposto dal TAR del Lazio in un procedimento promosso da Vivendi contro l’Agcom e Mediaset, la Corte ha statuito, in particolare, che il superamento di soglie predeterminate di ricavi non può essere ritenuto di per sé idoneo ad attestare l’effettiva sussistenza di una minaccia per il pluralismo dei media. I giudici del Lussemburgo hanno aggiunto che non appare conciliabile con le finalità perseguite dalla norma l’equiparazione della fattispecie del collegamento a quella del controllo ai fini del calcolo dei ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche. Hanno rilevato, altresì, che l’art. 43 definisce in modo restrittivo tale settore, in quanto esclude mercati quali i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad internet, nonché i servizi di radiodiffusione satellitare.

Si deve considerare che anche le disposizioni recate dai commi 7, 8 e 9 dello stesso art. 43 subordinano la possibilità di svolgere alcune attività ricadenti nell’ambito del SIC al mancato superamento di quote predeterminate di programmi televisivi o radiofonici irradiabili o di soglie di ricavi. Un limite di carattere quantitativo è fissato inoltre nel comma 12 a proposito della possibilità, per i soggetti esercenti l’attività televisiva in ambito nazionale, di acquisire partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani. Pur se non direttamente investite dalla sentenza, anche le disposizioni di cui ai suddetti commi devono pertanto ritenersi contrastanti con il diritto dell’Unione europea.

Nelle more dell’adozione di una nuova disciplina, con la legge di conversione del decreto legge n. 125 del 2020 è stato inserito in tale decreto l’art. 4-bis, recante una norma transitoria destinata a essere applicata nei sei mesi successivi alla sua entrata in vigore. Tale norma prevedeva che – nel caso di partecipazioni incrociate fra il settore delle comunicazioni elettroniche e un diverso mercato ricadente nel SIC – l’Agcom fosse chiamata a verificare l’effettiva sussistenza di effetti distorsivi o di posizioni comunque lesive del pluralismo senza nessun automatismo.

Tutto ciò premesso, la prima e positiva innovazione recata dal nuovo Testo Unico di imminente pubblicazione[1] in Gazzetta Ufficiale riguarda l’espresso riferimento al pluralismo ora presente nelle rubriche del titolo VI e dell’art. 51. Il titolo VI è infatti intitolato ora “Norme a tutela del pluralismo”, e non più “Norme a tutela della concorrenza e del mercato”. A sua volta, l’art. 51 è rubricato “Posizioni di significativo potere di mercato lesive del pluralismo nel sistema integrato delle comunicazioni”, mentre la rubrica del vecchio art. 43 recava la dizione “Posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni”.

Conformemente alla sentenza della Corte di giustizia, l’art. 51 dispone che l’accertamento da parte dell’Agcom della sussistenza di eventuali posizioni lesive del pluralismo si svolga senza essere condizionato dal raggiungimento di soglie predeterminate di alcun genere (comma 5). E’ inoltre assai più ampia, rispetto al vecchio art. 43, l’elencazione dei parametri di cui la verifica dell’Autorità deve tener conto. In linea con la prassi della stessa Agcom, sono stati aggiunti, ad esempio, la convergenza fra i settori e i mercati, le sinergie derivanti da attività svolte in mercati diversi ma contigui, l’integrazione verticale e conglomerale delle società, nonché – ciò che appare soprattutto rilevante – la disponibilità e il controllo di dati.

Le soglie di ricavi e le quote di programmi televisivi o radiofonici ricompaiono però ai fini dell’insorgere dell’obbligo di notificare all’Agcom le intese e le operazioni di concentrazione (comma 3), laddove nell’art. 43 tale obbligo di notifica sussisteva invece, per i soggetti operanti nel SIC, con riferimento a tutte le predette intese e operazioni. La nuova disciplina risponde manifestamente all’esigenza di sottoporre all’Autorità solo le intese e le operazioni di concentrazione che abbiano un significativo valore economico. Essa, però, potrebbe non essere ritenuta rispondente ai dettami della più volte citata sentenza della Corte di giustizia.

Le indicazioni della Corte relative alla necessità di includere nel settore delle comunicazioni elettroniche i servizi collegati a internet hanno trovato un riscontro nel comma 2 dell’art. 51, a norma del quale devono essere considerati, ai fini della quantificazione del SIC, anche i ricavi realizzati in Italia da imprese aventi sede all’estero, tra i quali ricavi si segnalano quelli derivanti “da pubblicità online e sulle diverse piattaforme…, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione”. Ciò in conformità all’inserimento della pubblicità online fra le attività comprese nel SIC, di cui all’art. 3, comma 1, lett. z), del nuovo testo unico.

Merita inoltre un cenno, fra le innovazioni introdotte dal legislatore delegato, la disposizione del comma 6 dell’art. 51, secondo cui i soggetti nei cui confronti si svolgono le istruttorie dell’Autorità possono presentare impegni, che vengono resi vincolanti se approvati dall’Autorità stessa.

Nella relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo sottoposto al parere parlamentare si sostiene che sarebbe stata individuata, nel testo, una nozione di controllo aderente ai principi espressi dalla Corte di giustizia. Non è esattamente così, in quanto non sono intervenute novità di sorta nella definizione delle nozioni di controllo e di collegamento rilevanti ai fini della verifica delle posizioni definite una volta dominanti e ora lesive del pluralismo. Le censure formulate al riguardo dalla Corte riguardavano peraltro – come ho già avuto modo di ricordare – non la configurazione delle due fattispecie del controllo e del collegamento, bensì la loro equiparazione ai fini del calcolo dei ricavi. Ritengo che la questione possa essere risolta grazie ad una norma contenuta nel comma 4, con la quale si stabilisce che, per le società collegate, si considera solo la parte di ricavi corrispondente alla quota di partecipazione azionaria (tale norma, benché riferita specificamente alle soglie di ricavi rilevanti per la notifica delle intese e delle operazioni di concentrazione, dovrebbe a mio avviso poter fungere da criterio interpretativo anche in senso più generale, e dunque ai fini delle verifiche relative alla sussistenza di posizioni lesive del pluralismo di cui al comma 5).

La responsabilità delle istituzioni europee per definire un level playing field adeguato

Questa, in sintesi, la disamina delle principali novità introdotte dall’art. 51 del nuovo Testo Unico e del loro rapporto con la decisione della Corte del Lussemburgo. In termini più generali, ci si potrebbe chiedere se la nuova normativa sia in grado di raggiungere l’obiettivo – enunciato nella legge di delegazione europea – di adeguare la disciplina alla luce dell’evoluzione tecnologica e di mercato.

Sotto tale profilo, devono essere valutati positivamente sia l’ampliamento dei parametri di cui occorre tener conto nella verifica della sussistenza di posizioni lesive del pluralismo sia l’inserimento, fra i ricavi che rilevano per la quantificazione del SIC, di quelli derivanti dalla pubblicità online.

E’ tuttavia evidente che questo non basta di per sé a garantire in modo effettivo il pluralismo dei media in uno ecosistema del quale fa parte a pieno titolo anche la rete. Un vero adeguamento all’evoluzione della tecnologia, al mutamento dei modelli di business e, soprattutto, al cambiamento radicale degli equilibri di mercato richiederebbe la sottoposizione degli operatori tradizionali e di quelli digitali a regole e obblighi omogenei. Si tratta però di un compito che manifestamente esula dai poteri del legislatore delegato e che chiama in causa la responsabilità delle Istituzioni europee.

Non potrà esservi un vero level playing field nel quale la competizione fra gli operatori garantisca il pluralismo delle fonti di informazione fino a quando le piattaforme digitali continueranno a non essere soggette a responsabilità editoriale. L’esonero da responsabilità previsto per gli ISP dalla direttiva sul commercio elettronico (n. 31 del 2000) – esonero limitato, ma non cancellato dalle più recenti iniziative europee – sembra ormai non più rispondente al ruolo e alla portata attuali delle grandi piattaforme, le quali esercitano sulle scelte e sugli orientamenti del pubblico un’influenza certo non minore di quella propria dei media tradizionali.


[1] Ad oggi è consultabile la versione presentata al Consiglio dei Ministri come “Testo Unico dei servizi di media audiovisivi” pubblicata da Angelo Zaccone Teodosi su questo stesso sito di Key4biz: https://www.key4biz.it/wp-content/uploads/2021/11/IsICult_Smav_Testi_per_Preconsiglio_Direttiva_1808_Pdcm_vers_4.11.2021.pdf. Rimane sempre valida pertanto la precisazione doverosa indicata da Democrazia futura nelle conclusioni dell’introduzione dei curatori del Focus Erik Lambert e Giacomo Mazzone: Il nuovo Testo Unico (Testo Unico dei servizi di media audiovisivi – TUSMA nella sua denominazione attuale), approvato in Consiglio dei Ministri non essendo stato ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, potrebbe essere soggetto ad eventuali modifiche di carattere minore.