L'approfondimento

Democrazia Futura. La scottatura israeliana: una sinistra geneticamente separata

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi all’Università Federico II di Napoli |

I tre fattori che portano alla guerra secondo Tucidide stanno esplodendo nella testa di una sinistra che confonde gli interessi con il timore e l’orgoglio con la vendetta. L’approfondimento di Michele Mezza, Direttore di PollicinAcademy.it.

Michele Mezza
Michele Mezza

Michele Mezza prosegue la discussione di Democrazia futura sulla guerra, con un contributo su quella che chiama “La scottatura israeliana”, considerandola quella – come recita l’occhiello – di “una sinistra geneticamente separata”.

__________________

Lo dicevamo con la pandemia, oggi neanche lo proclamiamo, data l’inevitabilità della considerazione: nulla sarà come prima in Europa, nulla sarà come prima nel mondo, nulla sarà come prima nella rete, nulla sarà come prima a sinistra.

Le bombe sull’Ucraina stanno deflagrando in mezzo a noi, creando macerie e baratri nelle nostre relazioni e nella credibilità delle nostre identità.  Si tema un conflitto globale, sicuramente è in corso una polverizzazione dell’infrastruttura ideologica della sinistra.

Come diceva Shoshanna Zuboff spiegando il funzionamento di Facebook, anche la guerra  “ci esilia nelle nostre esperienza, separando il pensiero dal soggetto”.

Dinanzi a questa tragedia il pensiero sembra separarsi dalla politica. Parlano solo gli stati non i partiti. E quelli di sinistra si nascondono dietro ai propri stati, senza azzardare una analisi e una proposta che parli alla gente. L’inconscio prevale sulla ragione, le paure sulle speranze.

Si ripropone quella che i geopolitici chiamano la trappola di Tucidide. Il grande storico della guerra del Peloponneso fra Sparta ed Atene, spiega come due potenze, ma anche due individui, arrivino inevitabilmente allo scontro per tre ragioni connesse :interessi, paura e onore. I primi risultano persino offuscati dal timore di insicurezza che anche solo se percepito giustifica qualsiasi reazione e da quell’orgoglio che impedisce ogni retromarcia. I tre fattori che portano alla guerra secondo Tucidide stanno esplodendo nella testa di una sinistra che confonde gli interessi con il timore e l’orgoglio con la vendetta.

Esemplare una recente intervista di un intellettuale  accreditato e rappresentativo di una sinistra della testimonianza, o del rimpianto, come Luciano Canfora che proprio il giorno dopo il brutale bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol, il 10 marzo, ha così spiegato la guerra  alla Gazzetta del Mezzogiorno:

L’Ucraina sta disattendendo gli accordi del ’91, quando i Paesi dell’Unione Sovietica si staccavano da questa, formando la Comunità degli Stati indipendenti, CSI. E invece nel 2014 viene fatto un colpo di Stato e si caccia il governo in carica. Oggi dinanzi a questi orrori Bisogna dirlo a Biden e agli altri, così ci pensavano prima. In realtà, non riesco più a leggere i giornali, perché sono pieni di pagine sulla guerra in cui in realtà non c’è nulla. Oggi leggevo il “Corriere”: le prime 15 pagine mi sembrano basate su pianti e urla dei popoli, nulla di più. Io vorrei notizie sull’andamento del conflitto, perché la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta. Da giorni poi si parla di un milione e mezzo di profughi in marcia: neanche ai tempi delle invasioni barbariche!” .

Non solo la pietà l’è morta, come recitava una canzone della resistenza antifascista ma anche la lucidità lascia molto a desiderare. Soprattutto una tale posizione , che non è per nulla isolata, rende difficilmente rimontabile la china in fondo alla quale avremo una scomposizione della sinistra per geo culture e non più per geo politiche: da una parte chi vede in Putin un vendicatore di quelle umiliazioni subite nel 1989 con la dissoluzione del socialismo reale, dall’altra chi vede nell’occidente la migliore delle circostanza per poter superare il capitalismo ma si troverà inevitabilmente schiacciato dal rigurgito di atlantismo..

In mezzo ad allargare la faglia, la guerra fra Russia e Ucraina

La contesa storico-antropologica che ancora  viene proposta durante il massacro in corso in Ucraina, in cui si accampano primati e ragioni, risalendo via via sempre più indietro per trovare documenti inoppugnabili della legittimità della propria parte, sta lacerando rapporti e solidarietà che parevano fuori discussione.

Ci riporta forse all’ancora più atavica e forsennata ricerca di prove archeologiche che sta alla base del conflitto medio orientale: chi è arrivato prima sulla collina dove sorge ora Gerusalemme? Cosa dicono le fondamenta del muro del tempio ? mentre si infierisce su popolazioni e si distruggono speranze di vita.

Oggi le bombe che stanno hanno sbriciolato Kharkiv e Mariupol rendono ancora  più estremi i termini del dibattito.

Proprio Vladimir Putin, nel suo discorso del 24 febbraio 2022[1], quando con tono quasi annoiato, annunciava  la guerra, ha tagliato la testa al toro, dichiarando che  al di là del contenzioso sull’ innegabile espansionismo della Nato o per le dichiarate velleità occidentaliste dell’Ucraina, il punto vero che muoveva le sue truppe era che Kiev come nazione non era mai esistita, e che l’unica fonte che dava fondamento a confini riconosciuti era l’impero zarista di Alessandro II, prima della decadenza dei Romanov e del tradimento di Lenin che concesse colpevolmente, dice il capo del Cremlino, autonomie e identità a popoli che sono solo appendici dei russi. Dunque è lo zar il riferimento, non la Nato. La storia antica torna garante delle identità nazionali che si vogliono affermare o negare.

Siamo a quella roulette russa in cui si azzarda la mossa per evitare di doverla subire, come spiega sul numero speciale dedicato alla guerra Lucio Caracciolo quando scrive che Vladimir Putin potrebbe aver voluto anticipare un colpo di stato in preparazione rendendolo però ora indispensabile. Come sempre i capi di un impero in crisi cercano la propria ri legittimazione richiamandosi ai fasti dell’impero precedente.

 Per contro abbiamo un occidente  dichiaratamente più debole e non certo più protervo, che in questi decenni ha mutato forma e sostanza diventando più fragile proprio dopo quell’89 che ne doveva conclamare l’unicità.

 Sono così dinanzi una sinistra zarista, che sembra tollerare le pulsioni protofasciste del despota russo pur di vendicare le proprie frustrazioni del passato, contro una sinistra americana che appare agli altri come subalterna e rinnegata.

Una radicalizzazione destinata a incidere per lungo tempo nella dinamica ideologica e culturale del campo progressista e riformatore che imprevedibilmente si sta dividendo persino sulla barbarie dei bombardamenti.

Se torniamo al dibattito sulle ragioni di Israele, che investe per altro direttamente la Bibbia, vediamo come  fin dagli anni Sessanta marchiò a fuoco,  relazioni e identità a sinistra, bruciando vincoli e solidarietà che sembravano eterni, arrivando nella stessa famiglia a soffocare gli stessi legami di sangue sull’altare delle rispettive identità, etniche o ideologiche.

Eppure allora, eravamo nel dopoguerra,  in una fase ascensionale del movimento del lavoro come attrattore culturale e di interessi concreti di ceti e figure professionali.

La sinistra stava celebrando la sua stagione più sfolgorando, alla fine degli anni Sessanta, insediandosi nel cuore dell’occidente, conquistandone i giovani, egemonizzandone gli intellettuali, organizzandone competenze e saperi.

Il 68 avrebbe sublimato e riconfigurato quel dibattito israeliano, confondendolo in una più generale e articolata marcia per la libertà.

Potremmo dire che il Vietnam come icona di questa spinta contò più delle separazioni che il conflitto arabo-israeliano introduceva. 

I kibbutz della Galilea esercitavano un richiamo meno globale dei consigli di fabbrica della Fiat e della Renault. Anche perché in parte vi si sovrapponevano: erano comunque due parti di un unico processo di emancipazione e autorganizzazione di quel movimento operaio occidentale che cominciava ad avere una propria autonomia e persino una  contrapposta storia, rispetto al sistema del socialismo reale, sempre più schiacciato su culture e linguaggi orientali.

Sul primo numero de la Rivista de Il Manifesto, nel 1969, Lucio Magri cosi ratificava la separazione del movimento comunista occidentale dal mausoleo moscovita: 

“Nessuno meglio di noi, che per cinquant’anni abbiamo visto, giustamente, nell’URSS la garanzia della rivoluzione mondiale, può valutare la gravità del vuoto derivante da una crisi crescente del campo socialista europeo. E proprio nella misura in cui rifiutiamo lo schema semplicistico, che vede compiuta in URSS una restaurazione capitalistica, siamo tenuti a chiarire su quali ipotesi puntiamo, a quali forze ci riferiamo nel momento in cui diviene evidente che gli attuali equilibri politici e sociali non sono in grado di garantire a quei paesi una evoluzione positiva”.

Si poneva così il tema di una rivoluzione in occidente del tutto autonoma e diversa dal modello sovietico, per metodo e contenuti.

Questo è un passaggio che ritengo centrale per prevedere le ripercussioni che guerra e dopo guerra avranno sulla geografia della sinistra europea.  

Il nodo riguarda proprio l’affinità fra sinistra e occidente, che come discriminante  prevarrà sulle vecchie distinzioni in base alla radicalità o al massimalismo. Da oggi il marchio asiatico sarà la diversità che separa una sinistra europea da chi pensa ancora a camuffarsi all’ombra di Cina o Russia. Antonio Gramsci  torna  come capo di Palmiro Togliatti.

Una tendenza  che viene da lontano che viene diluito e negato per un opportunismo di vocazione.

Negli anni Sessanta si consuma infatti questo processo di identificazione con l’ovest del mondo, quasi inconsapevole, ma politicamente robustissimo, basato sulla capacità di azione e di autonomia nel sistema, della sinistra con l’occidente.

Al di là delle proclamazioni più note- dall’eurocomunismo alla storica dichiarazione di Enrico Berlinguer su come la Nato comunque garantisse la sua sicurezza – c’è una profonda e istintiva immersione nella dialettica industriale e culturale che rende la classe operaia uno dei soggetti portanti di un programma di sviluppo del modello occidentale.

Dalle prime dure polemiche contro il sistema sovietico, del 1956 ungherese, che separarono componenti significative del PCI proprio in virtù di una inestinguibile collocazione occidentale della sinistra, alle esperienze della sinistra socialista, con l’operaismo libertario di  Quaderni Rossi, e poi del sindacalismo più aggressivo, con i primi scioperi degli elettromeccanici a Milano nel 1962, e il contemporaneo convegno dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo dello stesso anno, dove Bruno Trentin celebra le contraddizioni del modello americano come essenziali per la maturità di un controllo operaio del lavoro, per arrivare allo scontro sull’invasione della Cecoslovacchia con lo scontro con Il manifesto che abbiamo citato.

Affiora come diffusa e crescente la voglia di divincolarsi da un modello che in nome di una possibile emancipazione collettiva sacrifica ogni ambizione di affermazione individuale. Si comincia a rivendicare una condivisione del consumo come premessa di una possente critica qualitativa al modello di sviluppo intensivo  che combina l’ambientalismo con il femminismo. Temi che rendono ancora più distante l’est dall’ovest.

L’eguaglianza si afferma non solo con la giustizia sociale ma con una pratica di liberazione individuale che rende l’appartenenza al campo occidentale una premessa della battaglia per il socialismo.

 Le conquiste strappate dalle lotte operaie prima e dei giovani dopo, sia sul versante dello stato sociale che in quello dei diritti civili, con la nascita di esperienze di testimonianza progressista nel cuore di corporazioni come i magistrati, con magistratura democratica, il sistema sanitario, con medicina democratica, e l’informazione, con i giornalisti democratici, ridisegna le gerarchie e le procedure di una partecipazione che diventa sempre meno formale al governo del paese.

La democrazia rappresentativa diventa il terreno più avanzato per una progressiva espansione di quelli che Berlinguer chiamava “elementi di socialismo”, assolutamente non ravvisabili con quella vitalità e forza nei sistemi dell’est.

A sostegno di quella svolta il filone consigliare di Rosa Luxemburg e soprattutto le analisi di Antonio Gramsci su Americanismo e Fordismo che si appoggiano sul Karl Marx più occidentalista, che definiva un “povero agrario” quell’Aleksandr Herzen che introdusse nel movimento del lavoro la missione purificatrice della Russia, operazione nazionalista che Lenin, nel suo esasperato tatticismo invece integrò nel corpo della rivoluzione, e che poi Josph Stalin, nel suo incontrollato realismo trasformò nel nazional-bolscevismo.

Lungo questo crinale si articola anche il dibattito nel PCI, dove una destra filo sovietica , moderata e prudenziale che cerca di conciliare il patto di Varsavia con le trattative di palazzo, prevarrà sulla sinistra movimentista e libertaria di matrice  ingraiana legata proprio  all’idea di una maturità del comunismo da far cresce nella società opulenta  che nasceva in occidente. Il primato amendoliano, di cultura prima che di politica, castra ogni opzione di un comunismo democratico , egualitario e occidentale che poteva allora incontrare  le ansie liberatrici di ceti e generazioni insoddisfatte da un consumo senza obbiettivi.

La crisi che coglie l’insieme di queste sinistra negli anni Ottanta, con le prime forme di terziarizzazione prima, che riducono lo spazio agli apparati manifatturieri, e di virtualità tecnologica poi, con i nuovi linguaggi della rete, sposta lo scontro tutto verso il cosiddetto pensiero unico, un totem che copre l’incapacità delle culture antagonistiche ad adeguarsi alle nuove forme del dominio ed ad organizzare forme di resistenza e di negoziazione che siano capaci di riprogrammare concretamente lo sviluppo digitale.

E’ questo il terreno di coltura di quel  sordo rancore anti occidentalista che fa parlare Luciano Canfora in quel modo spietato e vendicativo, dove si coagulano strati burocratici, prevalentemente legati alla spesa pubblica, eredi di apparati politico amministrativi nati negli interstizi delle amministrazioni locali di sinistra, e residui di esperienze partitiste rimaste sempre e solo sulla carta. Una coalizione che attribuisce ad una violenza del sistema capitalista occidentale, ad un unilateralismo delle sue coordinate culturali la responsabilità per la marginalizzazione di ogni presenza di sinistra.

In realtà il cambiamento avvenuto nell’ultimo scorcio del secolo passato è molto più profondo  e complesso di una semplice revanche padronale contro i ceti subalterni.

Cambiano le forze in campo, i centri dell’economia industriale e finanziaria vengono prima affiancati e poi sostituiti da poteri trasversali tecnologici che tendono a  scavalcare gli stessi stati nazionali creando proprie geografie relazionali come le grandi piattaforme di Google e Amazon.

Questo cambiamento sfugge completamente agli osservatori del movimento del lavoro che con indolenza omologano la svolta digitale ad un’ennesima torsione del capitale speculativo.

Dopo anni in cui abbiamo provato a cimentarci sulle analisi sull’articolazione delle forze  del capitalismo che rompeva ogni uniformità, in cui la variabile Trump scompaginava ogni idea di solidità e rappresentatività del dominio capitalista, si rifluisce automaticamente in una visione dell’orco americano come un unico blocco di potere imperialista. Mentre invece mai come oggi Washington appare divisa e incerta nelle sue strategie. La sostituzione dei gruppi monopolisti nell’industria fordista con le grandi piattaforme del calcolo  che competono con gli stati e confliggono con le regole geopolitiche e non ci dice che forse qualcosa sta frantumando la continuità fra Washington e Wall Street, passando per la Silicon Valley?

 Davvero oggi grande rimane la confusione sotto il cielo, forse anche troppa. Ma  per far diventare la situazione eccellente, secondo la solita citazione del presidente Mao, manca in realtà solo una capacità di azione dell’unico soggetto geo politico di cui l’Europa è dotato rispetto agli altri contendenti internazionali: la società civile, il conflitto sociale.  E’ questa la gamba del tavolo che è mancata nella crisi della pandemia, e ancora più drammaticamente è del tutto assente oggi in questo pericolosissimo gioco del muro contro muro che si osserva in Ucraina.

La richiesta di un’iniziativa autonoma dell’Europa, che possa incunearsi nella diffidenza pelosa di Putin che vuole usare la paura per asservire il suo paese, non può coincidere con una sorta di neutralismo di valori e di sistema. L’autocrazia russa, la democratura di Putin è oggi il vero nemico per una sinistra del pluralismo e della rinegoziazione permanente degli equilibri.

Siamo appena usciti da una fase in cui cominciava a scheggiarsi il diamante del dominio delle proprietà tecnologiche che aveva dispiegato il capitalismo della sorveglianza, innestando, anche grazie alla sponda europeo, un nuovo meccanismo di contrappesi e di procedure negoziali che rendevano gli algoritmi contrattabili socialmente, che ora la plumbea minaccia della guerra globale ci riporta in ginocchio dinanzi al dualismo fra stati e proprietà nella gestione dei saperi e delle nuove soluzioni scientifiche.

Una supremazia putiniana sarebbe l’unica cosa peggiore al ritorno di un controllo sociale da parte delle grandi piattaforme di calcolo neurale.

Usciremo dalla paura della guerra calda per entrare in un lungo inverno gelido, dove la frontiera dell’apocalisse correrà proprio sul lato est dell’Europa. Il contraccolpo vedrà immobilizzarsi quel poco di azione dinamica che si era pure innestata, attraversando la pandemia, nella dialettica fra istituzioni, saperi e società. In questo armistizio che potrebbe raffreddare il conflitto uscirà una faticosa e sospettosa tregua in cui i giganti si guarderanno lungamente in cagnesco, come al 38° parallelo in Corea.

In questa stagione la sinistra sarà ulteriormente ridimensionata, portata all’anno zero, dove chi è stato da una parte non troverà linguaggi e valori per parlare con chi si è trovato dall’altra.

Solo la rimessa in movimento di una primavera della libertà, dove quelle generazioni nate con lo smartphone in mano e il citofono del mondo dinanzi con cui parlare e guardare ovunque potranno riprendersi questo gusto. La responsabilità di chi oggi ha voce è fare in modo che in quel momento ci sia chi possa raccontare di una sinistra dell’eguaglianza e della liberazione per tutti.

Se si è sinistra oggi solo in un ambiente in cui la dinamica sociale, il conflitto organizzato, e le libertà civili sono premesse e valori, come in occidente, allora la contrapposizione della guerra non potrà che rendere permanete la separazione che si sta aprendo con chi invece, in nome di un’irriducibilità anti americana, si considera militante di quell’altra storia, sebbene poi rimanga saldamente in questo mondo.

Oggi temo che la guerra ucraina inciderà ancora più profondamente in quell’arcipelago  esposto ad ogni vento e sempre meno abitato che sono le sinistre nel mondo.

Siamo dinanzi ad una radicalizzazione estrema fra una cosiddetta  sinistra zarista e una opposta di matrice occidentalista, o ancora più direttamente americana, che mi sembra difficilmente rimarginabile, almeno nei tempi storici che sono alla mia portata.


[1] https://www.open.online/2022/02/24/vladimir-putin-discorso-24-febbraio-sottotitolato-video/