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Democrazia Futura. La Rai di Fuortes fra risanamento e rilancio della sua missione pubblica

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Carlo Rognoni
Carlo Rognoni

Su un altro registro Carlo Rognoni esamina – come recita l’occhiello – “I primi cinquanta giorni del nuovo vertice di Viale Mazzini” voluto da Draghi in un pezzo intitolato “La Rai di Fuortes fra risanamento e rilancio della sua missione pubblica”.  L’ex direttore del Secolo XIX giudica “la nomina del nuovo Amministratore Delegato [….] una scelta decisamente azzeccata, difficilmente criticabile. E tuttavia … tuttavia la Rai non è una grande azienda come altre. Ha un difetto tremendo, micidiale. Piace tanto, troppo, ai partiti”. Per Rognoni non basta gridare “Fuori i partiti dalla Rai” occorre “Cambiare le regole a cent’anni dalla nascita della radio in Italia” nel 1924. Nel nuovo scenario dove “Cresce la frammentazione dell’offerta e dei pubblici” per “rilanciare la missione del servizio pubblico […] il nuovo gruppo dirigente della Rai dovrà affrontare: Primo, tenere i conti in ordine; secondo, confrontarsi con un mercato dell’audiovisivo in crescita in tutto il mondo che tuttavia in Italia perde colpi; terzo, ridefinire il ruolo del servizio pubblico nell’epoca della rivoluzione digitale, passando dall’informazione.  Si tratta di tre sfide legate l’una all’altra, e che hanno un peso politico indiscutibile”. Una volta approfonditi questi tre temi nei paragrafi successivi, Rognoni in conclusione descrive “Le ragioni di un intervento del legislatore” ovvero tale da “[mettere] una buona volta e per sempre in soffitta quel che resta della brutta legge Gasparri: Senza una legge di sistema nuova che lo imponga, la libertà del nuovo Amministratore Delegato sarà sicuramente limitata. Non importa quanto sia bravo e indipendente”. 


Carlo Fuortes ce la farà? Il nuovo Amministratore Delegato della Rai voluto dal primo ministro Mario Draghi è partito bene. Ha raccolto consensi da tutte le parti. In tanti hanno ricordato il suo straordinario successo nell’amministrare l’Opera di Roma, riportando i conti in ordine e facendo del Teatro un’impresa culturale di indiscussa qualità. La sua immagine di manager che ha sia la consapevolezza che i conti in ordine sono una priorità sia l’intelligenza per puntare su contenuti forti e innovativi, fanno di Fuortes una scelta decisamente azzeccata, difficilmente criticabile. E tuttavia … tuttavia la Rai non è una grande azienda come altre. Ha un difetto tremendo, micidiale. Piace tanto, troppo, ai partiti.

Fuori i partiti dalla Rai

La Rai e la politica – si dice e si scrive – si sono sempre magneticamente attratte. A prescindere dalle dichiarazioni di cui tutti i partiti, quasi tutti i partiti, si compiacciono. Quante volte avete sentito gettare nell’agone mediatico lo slogan “fuori i partiti dalla Rai”? L’ultimo premier a sostenerlo fu Matteo Renzi, salvo poi far approvare una legge che non si discosta molto dalla Legge Gasparri, cioè dalla peggior legge possibile, quella voluta e gradita a Silvio Berlusconi anche e soprattutto in difesa dei suoi interessi, degli interessi di Mediaset.

In un editoriale de La Stampa firmato “Montesquieu” si racconta di un Carlo Fuortes “solo nel suo ufficio, solo fra i partiti rappresentati da un consigliere d’amministrazione a testa, con il conforto morale della neo eletta presidente Marinella Soldi … che quando i partiti sostengono “fuori i partiti dalla Rai” non siano propriamente sinceri e convinti lo dimostra la votazione in Commissione di vigilanza, non priva di aspetti perfino grotteschi: il partito al quale non è stato consentito di seguire gli altri là dove i partiti non dovrebbero esserci, invoca indignato l’intervento del Capo dello Stato perché sia rimosso un autentico vulnus, addirittura costituzionale.

Il vulnus del proprio mancato ingresso, impedito dagli altri”. Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni è arrivata a dire che nel momento in cui non c’è neppure un suo consigliere nell’amministrazione della Rai, è stato tradito il principio che anche chi sta all’opposizione ha diritto di essere rappresentato. Una vecchia logica insopportabile ma che ha trovato accoglienza in molte cronache giornalistiche.

Si sospetta, si presume, si legge, per alcuni si sa per certo, che alla prima riunione utile del Consiglio il nuovo amministratore delegato sarà invitato, non necessariamente con le buone, a tenere conto della volontà dei partiti nel nominare i nuovi titolari dei maggior incarichi giornalistici e amministrativi. Un pacchetto completo, pronto per l’uso – pensano i maligni – che in questa materia spesso coincidono con i ben informati: perché l’ordinaria, reciproca avversione che allontana i partiti l’uno degli altri si dissolve di regola nei momenti felici della ripartizione dei bottini più ghiotti”.

Parola del Montesquieu de La Stampa (1).

Non sono solo i partiti a pretendere pezzi di Rai. Anche tanti dirigenti e giornalisti si danno da fare: cercavano e tuttora cercano partiti che li adottino, li proteggano, li promuovano. “E i cambiamenti politici sono stati sempre rapidamente assorbiti: si è cominciato a parlare di dirigenti “in quota” cinque stelle o renziani, mentre ancora le rispettive formazioni si stavano affermando sulla scena.

Ha scritto l’accademico e storico Peppino Ortoleva su Il Secolo XIX:

Come un tempo sulla Rai cadevano i governi, ancora oggi sulle nomine alle direzioni e al Consiglio di Amministrazione di viale Mazzini si consumano guerre dichiarate e sotterranee, tra partiti, correnti, leader o aspiranti tali”.

L’azienda nata nel 1944 come Radio Audizioni Italia in sostituzione dell’Eiar fascista, poi chiamata Radiotelevisione Italiana, ora Rai e basta, è la continuazione della politica e insieme uno specchio deformante che riflette, esasperando i toni ed esagerando la loro importanza, tutti i giochi e tutti i conflitti dei partiti.

Cambiare le regole a cent’anni dalla nascita della radio in Italia

Nell’autunno del 2024 l’azienda compirà un secolo dalle sue origini come Unione Radiofonica Italiana. La riforma che tuttora la governa compirà mezzo secolo l’anno dopo. Si continua e si continuerà a parlare di renderla autonoma dalla politica, ma per farlo si dovrebbero cambiare le regole, non solo le strutture dell’azienda ma il rapporto con i partiti. Così commenta Peppino Ortoleva.

E’ semplicemente utopistico che a cambiare le regole sia una politica per la quale la Rai è più che uno strumento di potere. E’ quasi una droga …”(2).

Il paradosso Rai: perde colpi eppure…

Tutto ciò è incredibilmente paradossale se si pensa che la Rai di oggi ha perso e perde colpi ogni mese che passa rispetto a un sistema multimediale che cresce. Ai tempi della riforma (siamo nel 1975) dominare una rete delle tre reti televisive significava condizionare una grossa fetta di opinione pubblica. Ai nostri giorni l’efficacia direttamente propagandistica del controllo di una rete o di una testata è decisamente più bassa.

E’ vero che restano altri premi per chi ha potere nell’azienda: prima di tutto di distribuire posti e prebende. Ma è una realtà di cui ci si dovrebbe vergognare e che di fatto dovrebbe incoraggiare il cambiamento, quel cambiamento che a troppi partiti non piace. E parliamo di partiti che hanno a loro volta perso credibilità, capacità di incidere nel governo del Paese, contribuendo a mettere in crisi lo stesso sistema democratico.

Che cosa dicono i dati

Diamo un’occhiata all’insieme del mercato basandoci sui dati elaborati dallo Studio Frasi.

Tra il 2007 e il 2014 il consumo di televisione lineare da televisore cresce anno dopo anno. Si passa dal 15,95 per cento di rating del 2007 al 18,08 per cento del 2014. Il 2019 si chiude con una quota sulla popolazione di consumatori di televisione da televisore inferiore al 17 per cento. Lo scenario elaborato dallo Studio Frasi indica un’ulteriore diminuzione del consumo di televisione lineare da televisore nei prossimi anni, stimando che comunque gli ascolti nel giorno medio non scendano sotto i nove milioni. Del resto gli ascolti sono stati superiori ai dieci milioni soltanto tra il 2011 e il 2016 e nel 2018. Tra il 2011 e il 2019 la popolazione italiana è cresciuta di 2,1 milioni di individui e il peso degli over 65 è salito dal 21 per cento al 25,5 per cento. Elaborando le stime anche sull’andamento della popolazione e il suo invecchiamento, basate sui dati ISTAT, si prevede che il rating non scenda sotto il 16 per cento nel giorno medio fino al 2025.

Questi due anni, il 2021 e il 2022, vedranno crescere di circa mezzo punto l’ascolto complessivo. Il 2021 per via degli Europei di Calcio con l’exploit della nazionale italiana e per le Olimpiadi di Tokio con il record di medaglie raccolte dai nostri atleti.

La popolazione invecchia e questo potrebbe far pensare a un sempre maggior consumo di televisione. Sarà così, ma solo in parte.

Vanno infatti considerati due fattori rilevanti.

Gli anziani di domani sono i giovani di oggi, con i loro consumi di intrattenimento e le abitudini di impiego del tempo libero, ma non riusciranno a trasportarli identici nel futuro. Avranno mogli, figli, un lavoro, una carriera da affrontare e problemi da risolvere. Il ricorso al consumo di televisione rimarrà. Non sarà solo televisione lineare, via via che il tempo passa sarà comunque sempre più da televisore piuttosto che da altri device.

Seduti sul divano: più anziani, meno giovani

Il divano, la vista e l’udito spingeranno a mettersi comodi seduti su un bel divano davanti ad un grande televisore connesso ad internet. E, come sostiene l’ISTAT, la popolazione italiana sarà ancora più anziana di quanto non lo sia già.

Tra il 2004 e il 2019 il peso sulla popolazione italiana di chi ha tra i 25 e i 34 anni è sceso di cinque punti percentuali, dal 16,4 per cento all’11,4 per cento. Quello degli over 65 è salito dal 18,95 per cento al 23,15 per cento.

Nelle fasce d’età intermedie, tra i 35 e i 55 anni, l’uso di Smartphone, Tablet e PC crescerà. Della Smart Tv si sa, nel 2022 gli apparecchi televisivi saranno, per amore o per forza, tutti Smart, connessi ad internet e anche in wi-fi.

Già oggi 37 milioni di individui risultano all’indagine di base Auditel realizzata dalla IPSOS vivere in una abitazione dotata di broadband. La Smart tv è galeotta invita al tradimento della televisione lineare, con le sue app sulla schermata principale vere tentazioni di fuga dalla routine della linearità.

Il secondo fattore da considerare riguarda gli over 65 di oggi.

Si tratta di individui molto diversi da chi quell’età l’aveva anche solo dieci anni fa, e le loro modalità di consumo sono molto diverse dagli over di un tempo. Le nostre stime indicano comunque per gli over 65 un incremento, ma non così elevato come ci si aspetterebbe.

È invece accentuata la caduta del consumo di televisione lineare da parte della fascia d’età 15-19 anni, (-4,5 punti percentuali), questo segmento tra il 2005 e il 2025 decrementerà di 8,5 punti percentuali la presenza davanti ad un televisore per seguire l’offerta lineare dei broadcaster. Ma già tra i 25 ed i 34 anni la differenza si farà sentire e sarà inferiore di un paio di punti percentuali rispetto al 2019. Una esistenza poco lineare porta ad un consumo poco lineare, anche di televisione.

E’ noto che il “popolo della televisione” è più femminile, anziano e meno istruito della popolazione italiana nel suo complesso. Questi pesi continueranno a differenziarsi, ma una parte degli individui perduti dalla televisione lineare saranno recuperati dalle offerte televisive operanti sulla rete.

Per quanto riguarda le reti generaliste RAI la loro discesa sarà inferiore a quella delle altre reti generaliste. A favore della RAI pesa, tra l’altro, la produzione di pubblici mediamente più avanti con gli anni delle altre reti. I neocanali nativi digitali non riusciranno a coprire le perdite delle reti generaliste, che ammontano a centinaia di migliaia di individui l’anno, mentre i canali nativi digitali ne guadagnano alcune decine di migliaia. In sintesi, DVBT-2 o no che sia, il tracciato dell’ascolto di televisione lineare è in discesa. Una discesa più o meno accentuata a seconda delle età dei pubblici e della popolazione italiana.

Se aumentano gli smartphone …

Tuttavia il consumo di televisione crescerà, crescerà nel frammento, nello spezzone popolare, nel device più comodo utilizzato nel momento più comodo. Come certificato dalla ricerca di base Auditel e dal Censis, in Italia il numero degli smartphone ha superato quello dei televisori, e l’uso di smartphone per seguire video, anche provenienti da broadcaster, farà comunque crescere il consumo di televisione, seppure nelle nuove forme di consumo e nelle nuove dinamiche.

E comunque si tratta di un consumo ancora maggiore di quanto riesca a misurare oggi Auditel, fino a quando YouTube e gli altri social dediti ai video non verranno misurati.

Pubblici divisi

Gli algoritmi saranno essenziali, sia quelli di raccomandazione diretta negli stessi siti e app dei broadcaster, che quelli pilotati dai social. Social eterodiretti dagli algoritmi o per appartenenza a tribù o per inserzioni commerciali che gli stessi editori pianificheranno per spostare l’attenzione sui loro programmi indirizzati ad un determinato target, ormai divenuto micro. Le lezioni della pubblicità non si dimenticano certo con l’arrivo degli algoritmi, anzi si perfezionano.

Analisi ed elaborazioni dello Studio Frasi mostrano del resto come già oggi i pubblici siano divisi da politiche e culture divisive.

I pubblici delle reti generaliste Mediaset sono stanziali su quelle reti, vivono in quel territorio e solo eccezionalmente si spostano sul servizio pubblico o su altre reti. Giusto per qualche importante partita della nazionale, il Festival di Sanremo, ma già Il commissario Montalbano non li vede protagonisti come il resto della popolazione.

L’algoritmo di raccomandazione è un algoritmo di separazione. Funzionale al micro-targeting, alla logica commerciale della separazione di individui in target.

Perché il servizio pubblico

Il ruolo del servizio pubblico dovrà differenziarsi.

Non micro-target ma popolazione, non separazione ma coesione sociale.

Algoritmi al servizio della crescita della società, dei singoli individui che la compongono.

Probabilmente non c’è mai stato, comunque non di recente, un periodo in cui il servizio pubblico sia stato altrettanto indispensabile, necessario alla crescita collettiva, alla consapevolezza di ciascuno su modi e tempi del vivere.

Il compito di riunire ciò che i social dividono non può che essere svolto dai servizi pubblici dell’informazione, dell’intrattenimento e della cultura. Forse oggi sotto attacco proprio per il ruolo potenziale che potrebbero svolgere.

Senza servizio pubblico la separazione degli individui, delle donne, degli uomini e degli stessi bambini in tribù commercialmente e culturalmente omogenei non incontrerebbe ostacoli, e non è detto che li incontri.

Non è infatti semplice per i servizi pubblici europei perseguire obiettivi in controtendenza rispetto alla cultura e agli interessi commerciali e politici della separazione a tutti i costi. D’altra parte divide et impera non è esattamente una novità!

Si avrà la forza e la temperanza per passare dall’algoritmo della separazione a quello della coesione?

Cresce la frammentazione dell’offerta e dei pubblici

La digitalizzazione che consente l’offerta via internet della programmazione televisiva, induce a scomporla, a frammentare, anche in questo caso a “separare”, un programma in tanti spezzoni.

I dati Auditel dedicati alla misurazione del consumo di televisione attraverso siti e applicazioni dimostrano quanto sia comune per i broadcaster fare ricorso ai frammenti nell’offrire i propri prodotti.

La frammentazione dell’offerta è affine alla frammentazione, alla separazione, dei pubblici, ma non è necessariamente coincidente. Se però un intervento, una frase, un’immagine, persino una battuta di spirito vengono decontestualizzati, allora la manipolazione diventa un rischio concreto.

La questione è complessa e va affrontata con prudenza, mentre la frammentazione della società in target e microtarget è atto funzionale alla separazione, la divisione di un programma non sempre lo è.

C’è anche da dire che la cultura del frammento non è la cultura di tutti, ma l’abitudine cui sono esposti i più giovani li porta a considerarla quella “giusta”. Salvo poi dedicare ore ad un videogioco.

La propensione di un servizio pubblico deve essere la trasparenza, anche nel progettare gli algoritmi di raccomandazione. Il GDPR, le stringenti norme sulla privacy, penalizzano i broadcaster europei e i servizi pubblici, mentre gli altri fornitori di contenuti audiovisivi possono raccogliere più informazioni e dati e incrociarli tra loro. Gli algoritmi di Google-YouTube hanno una enorme potenza di individuazione di consumi e sentiment di ciascuno e un altrettanto enorme opacità sull’uso e l’abuso di questi dati.

Le tre sfide da affrontare per rilanciare la missione del servizio pubblico

Se questo a grandi linee è lo scenario, ecco le sfide che il nuovo gruppo dirigente della Rai dovrà affrontare:

Si tratta di tre sfide legate l’una all’altra, e che hanno un peso politico indiscutibile.

La prima sfida: i conti in ordine.

Non presenterò mai un budget previsionale in perdita”: è la dichiarazione di Carlo Fuortes, davanti ai commissari della Vigilanza, dichiarazione che ha avuto più risalto, più commenti, suscitato le prime polemiche.

Il nuovo amministratore delegato – affiancato dal nuovo presidente  Marinella Soldi – ha voluto spiegare il perché del suo intervento immediato sul budget corrente: negli ultimi tre anni la Rai ha raggiunto un indebitamente di 300 milioni di euro. Queste perdite non vengono risanate dallo Stato, rimangono tutte in azienda e se questa dinamica continuava la Rai avrebbe finito con il portare i libri in tribunale.

Tutto giusto, allora? In fondo il primo intervento sulle spese è stato contenuto – l’uno per cento di tagli è bastato a recuperare la perdita prevista dai precedenti amministratori di oltre 57 milioni di euro. E tuttavia se si vuole tenere i conti in ordine – decisione strategica, irrinunciabile, di per sé – nei prossimi mesi e anni si dovrà pensare a qualche scelta più articolata e soprattutto più dura.

Guai a ridurre la Rai a un ruolo subalterno nel sistema dei media, tanto più quando Convenzioni e Contratto di servizio le assegnano un ruolo di sviluppo delle produzioni audiovisive nazionali, di guida nel sistema dei media, di crescita nella consapevolezza dei cittadini e di ricerca della coesione sociale. Debitamente misurata la coesione sociale è una sfida irrinunciabile per il servizio pubblico. Dovrebbe costituire uno dei criteri nella distribuzione delle risorse fra reti e testate.

Certo, c’è la necessità di troncare i rapporti non sempre limpidi – che rischiano di trasformarsi in malaffare  – tra azienda e fornitori. Certo, c’è la necessità di dare spazio più di oggi alle risorse interne (siamo sicuri che le centinaia di giornalisti siano tutti usati al meglio?).

Ma non è con la riduzione delle risorse che la Rai potrà adempiere agli obblighi del contratto di servizio. Anzi, le fornisce la scusa per non farlo e proseguire in un tran tran che come si è dimostrato favorisce soltanto gli over the top, le varie Netflix, Amazon Prime, con la costruzione del nostro immaginario affidato ad altri.

Il contratto di servizio – non dimentichiamolo – chiede esplicitamente la misurazione della coesione sociale. Ispirato da un gruppo di lavoro riunito attorno allo Studio Frasi da tempo si studia la possibilità di costruire un indice di coesione sociale che miri a rilevare una dimensione nascosta relativa a ciò che i cittadini considerano di comune appartenenza, al di là di ciò che li differenzia. Esemplare sono per esempio oggi le Olimpiadi come lo è stata la finale degli Europei di calcio, che ha registrato “un indice di coesione sociale” del 93,9 per cento.

Naturalmente la programmazione non è fatta solo da eventi, ma rinunciarvi per i costi significa rinunciare a buona parte del ruolo del servizio pubblico.

Non è un caso che Fuortes abbia chiaramente accusato il vecchio Consiglio d’Amministrazione e il vecchio Amministratore Delegato di avere ridotto. pur di risparmiare alcuni milioni, l’acquisto dei diritti di utilizzazione sul web e sulle piattaforme digitali in occasione sia delle Olimpiadi sia degli Europei di calcio.

E non è neppure un caso che Fuortes abbia lanciato, nel corso di un’audizione di fronte alla Commissione bicamerale di Vigilanza, una frecciata a chi critica il canone:

“Rispetto alle nostre consorelle del servizio pubblico europeo siamo sotto finanziati. Abbiamo una parte di pubblicità che magari altri non hanno, che però ha un tetto e si parla anche di ridiscuterlo. Stiamo parlando di continuare a riuscire a vivere”.

La modifica ai tetti agli spot che il governo vorrebbe rischia di avere un impatto pesantissimo sulla Rai. A lanciare l’allarme sono da una parte l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti dall’altra il presidente dell’Associazione Produttori Audiovisivi, Giancarlo Leone, che ha denunciato il pericolo di “minori introiti tra 60 e 100 milioni”.

La seconda sfida: la Rai e l’industria audiovisiva

L’intrattenimento audiovisivo cattura ormai più tempo del lavoro e poco meno del sonno, assorbe tre quarti della rete internet, ridefinisce il ruolo delle nazioni sulla base della loro capacità di produrre immaginario e di proporlo al resto del mondo.

I mercati finanziari iniettano nel settore ingenti investimenti. Cresce veloce la capitalizzazione di nuove imprese come Netflix, di grandi imprese del settore che riescono ad adattarsi come Disney, e colossi come Google, Amazon, Facebook, Apple, giganti finora percepiti come industrie tecnologiche, stanno ri-orientandosi e una quota crescente della loro illimitata capacità di investimento va verso l’industria creativa.

I paesi europei, nonostante siano quelli che proporzionalmente indirizzano più risorse pubbliche a sostegno del cinema e della televisione, perdono terreno nell’arena mondiale. In particolare l’Italia ha dimezzato la sua quota di export in soli vent’anni.

Lo sport, i quiz e talent show, gli spettacoli culturali, in qualche misura la stessa informazione, sono stati finora protetti da barriere nazionali e tecnologiche che stanno cadendo.

Il campo decisivo oggi è la produzione e la distribuzione di film per la televisione e di serie televisive, capaci di conquistare un pubblico mondiale.

Ora, per entrare nel mercato della distribuzione on line, occorre investire 10 miliardi l’anno, per dieci anni. Questo è l’ordine di grandezza che hanno messo a disposizione imprese come Amazon, Disney, Google, Apple, le quali hanno deciso di non accettare il rischio di un monopolio Netflix. Non c’è nessun paese e nessuna impresa europea che abbia le tasche e la credibilità per sedersi a questo tavolo.

Cercasi campione europeo a cavallo fra intrattenimento e cultura per il mercato globale

Ormai neanche una nuova impresa, adeguatamente finanziata dai governi di Germania, Francia, Spagna, Italia e Scandinavia potrebbe competere nell’insieme di questo mercato. E tuttavia, forse, una strada interessante per tutti questi paesi ci sarebbe. Si tratta dell’ampio spazio a cavallo fra intrattenimento e cultura. Potrebbero trovare una ragione d’essere una nuova azienda che non si illuda di essere un monopolista, ma un leader mondiale si.

I nuovi pubblici mondiali sui loro schermi distinguono sempre meno i prodotti francesi da quelli italiani e tedeschi, ma hanno ancora un immaginario segnato dal marchio europeo. Marchio – è stato scritto – è la parola giusta nel suo doppio significato di certificato di garanzia di valori, stili di vita, cultura e civiltà. Questo marchio che ci viene riconosciuto dal resto del mondo può essere trasformato in valore anche economico. Il marchio Europa si afferma solo se diventa sinonimo di un modello alternativo a quello americano ma attrattivo e sostenibile anche per i non europei.

Superati i primi mesi in Rai, Fuortes e Soldi, Amministratore Delegato e presidente di una Rai che guarda al domani, avranno voglia di scommettere su un’azienda europea aperta anche ai servizi pubblici di altri Paesi che considerano il sistema americano l’unico da prendere a modello?

Ecco allora una sfida davvero straordinaria, capace di farci sognare. I servizi pubblici europei, compresa la Rai, sono quasi interamente finanziati con denaro dei contribuenti il cui obiettivo non può essere quello che i privati sanno fare. In occasione di un recente “Convegno sugli algoritmi di raccomandazione”, Piero De Chiara ha osservato:

Grazie alle tracce disseminate in rete oggi sappiamo con approssimazione sempre migliore, quali persone leggono gli oroscopi e quali le notizie scientifiche, quali sono tendenzialmente simpatetici con l’immigrazione e quali ne sono soprattutto spaventati, chi è più turbato dai delinquenti che la fanno franca e chi più dagli innocenti in carcere. Nella comunicazione commerciale conviene dare a ciascuno un racconto confermativo del suo sentimento, ciò che accentua la polarizzazione e inibisce il confronto di argomenti. Il servizio pubblico deve quindi fare il contrario, cioè dare a persone diverse un materiale comune di discussione” (3).

La terza sfida: l’informazione

E arriviamo all’ultima sfida che si pone per il servizio pubblico in questa nuova fase.

Carlo Fuortes è stato chiaro. Condivido totalmente – ha detto davanti ai commissari della Vigilanza – l’articolo 6 dell’attuale contratto di servizio.

Rileggiamo in primo luogo cosa contiene l’articolo 6 con i suoi quattro commi che meritano di essere riproposti nella loro integralità:

1. La Rai è tenuta ad improntare la propria offerta informativa ai canoni di equilibrio, pluralismo, completezza, obiettività, imparzialità, indipendenza e apertura alle diverse formazioni politiche e sociali, e a garantire un rigoroso rispetto della deontologia professionale da parte dei giornalisti e degli operatori del servizio pubblico, i quali sono tenuti a coniugare il principio di libertà con quello di responsabilità, nel rispetto della dignità della persona, e ad assicurare un contraddittorio adeguato, effettivo e leale.

2. La Rai assicura nella programmazione il pluralismo, al fine di soddisfare il diritto del cittadino a una corretta informazione e alla formazione di una propria opinione.

3 Al fine di attuare quanto previsto al comma 1, la Rai – in coerenza con le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 7, della Convenzione – è tenuta ad assicurare:

a) la presentazione veritiera dei fatti e degli avvenimenti inquadrandoli nel loro contesto, nonché l’obiettività e l’imparzialità dei dati forniti, in modo da offrire informazioni idonee a favorire la libera formazione delle opinioni non condizionata da stereotipi;

b) lo sviluppo del senso critico, civile ed etico nella collettività nazionale;

c) il rispetto del divieto assoluto di utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare in maniera non riconoscibile il contenuto delle informazioni;

d) la diffusione di programmi informativi in lingua inglese via televisione e mediante altre piattaforme distributive;

e) l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità, nelle forme e secondo le modalità indicate dalla legge;

f) la trasmissione dei comunicati e delle dichiarazioni ufficiali degli organi costituzionali indicati dalla legge;

g) la promozione delle pari opportunità tra uomini e donne;

h) l’accrescimento della conoscenza delle vicende europee e internazionali;

l) l’adozione di idonee cautele in modo da assicurare che la completezza informativa, in particolare nell’uso delle immagini o delle descrizioni, non leda le sensibilità dell’infanzia e dell’adolescenza.

4. La Rai assicura l’informazione pubblica nazionale nonché regionale attraverso la presenza in ciascuna Regione o Provincia autonoma di proprie redazioni, interagendo con le realtà culturali e produttive dei territori. La Rai, adottando ogni opportuna misura organizzativa, valorizza le sedi regionali e i centri di produzione di Roma, Milano, Napoli e Torino, anche per salvaguardare l’informazione e l’approfondimento culturale nelle realtà locali.

Siamo sicuri che la Rai rispetti questi sacrosanti principi?

E soprattutto: ha senso che per rispondere al bisogno di una informazione completa, obiettiva, imparziale eccetera, siano necessarie tre reti e tre telegiornali?

E ancora: ha senso pensare che i telegiornali trasmessi sulle tre reti generaliste siano realizzati da tre testate distinte, ovvero da altrettante redazioni separate da visioni politiche contraddittorie?

Quando c’erano la Dc, il Psi e il Pci il Tg1 è stato democristiano, il Tg2 socialista e il Tg3 comunista!

E oggi? Dove sono meglio rappresentati i leghisti di Matteo Salvini (sul Tg 2?) e i Cinquestelle (forse sul Tg3 insieme al Pd?) e al governo Draghi spetta di diritto il Tg1, come un tempo spettava alla vecchia Dc rimasta sempre al governo nel corso di tutta la Prima Repubblica?

Non sarebbe più sensato avere dei telegiornali caratterizzati non tanto dalla politica di partiti consumati, usurati, poco credibili, quanto da telegiornali specializzati per esempio in notizie di politica estera, in notizie di scienza e del mondo scientifico? Perfino la tanto decantata BBC ha un sistema di informazione non appaltato a conservatori o laburisti, ma un telegiornale dove l’informazione è una, rispettosa del pluralismo.

I tre telegiornali sono figli di una vecchia e decaduta storia.

Già, ma chi ha o avrà il coraggio di mettere mani alla rivoluzione del sistema dell’informazione? Carlo Fuortes ce la farà? Si tratta di pestare i piedi a tanti partiti piccoli e grandi che non hanno più molto di credibile da promettere agli italiani. Ripeto: Carlo Fuortes ce la farà se avrà coraggio e porterà dalla sua un premier come Draghi che tanti ci invidiano.

Osservazioni finali. Le ragioni di un intervento del legislatore

A chi segue le vicende controverse della Rai da anni come me, non può non dirsi deluso da come il premier – che pure ha tanti meriti sia riguardo alla lotta al virus sia per lo sviluppo dell’economia – ha affrontato quest’ultimo passaggio di consegne dal vecchio Consiglio d’Amministrazione al nuovo, dal vecchio Amministratore Delegato al nuovo. Non possiamo che giudicare bene la scelta di Fuortes e Soldi al vertice della Rai.

Ma la mia convinzione è che si è persa un’occasione. La fine della consigliatura e dell’amministrazione nata con i due governi presieduti da Giuseppe Conte, prima coi Cinque Stelle alleati alla Lega poi alleati al Partito Democratico, avrebbe dovuto convincere il nuovo governo voluto dal presidente Sergio Mattarella a intervenire sulla legge che regola la vita del servizio pubblico, mettendo una buona volta e per sempre in soffitta quel che resta della brutta legge Gasparri, dal nome dell’allora Ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri.

E’ vero che il peso dei partiti si è ridotto, ma quattro consiglieri di amministrazione sono ancora indicati dai partiti, quei partiti che non hanno perso il vizio di farsi sentire non tanto e non solo nella guida della Rai, ma nella scelta dei dirigenti, nella imposizione di direttori di rete e di telegiornali perché “fedeli”, perché “amici”.

Può un uomo capace e libero da vincoli partitici come si dice sia Carlo Fuortes riuscire da solo a fare le riforme di cui la Rai ha bisogno se si vuole che resti un punto di riferimento per la cultura italiana ed europea?

Senza una legge di sistema nuova (4) che lo imponga, la libertà del nuovo Amministratore Delegato sarà sicuramente limitata. Non importa quanto sia bravo e indipendente.

Note a fine testo

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