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Democrazia Futura. La chimera del buon governo. La Libertà inutile di Gianfranco Pasquino

Massimiliano Malvicini

Per la rubrica di Democrazia futura “Quarta di copertina” Massimiliano Malvicini, giovane studioso di diritto pubblico illustra il Profilo ideologico dell’Italia repubblicana scritto dal decano della scienza politica in Italia nell’intento di proseguire l’analisi contenuta in un noto saggio di Norberto Bobbio dedicato al Novecento. La recensione, intitolata “La chimera del buon governo. La Libertà inutile di Gianfranco Pasquino[1]” chiarisce bene le tesi espresse in questo prezioso studio e in particolare “Perché la democrazia costituzionale non ha migliorato la cultura politica né l’etica civile degli italiani”.

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A oltre cinquant’anni dalla prima edizione nel 1969 del Profilo ideologico del Novecento italiano, pubblicato da Norberto Bobbio come nono e ultimo tassello della Storia della letteratura italiana (1965-1969) curata da Natalino Sapegno ed Emilio Cecchi[2] e poi ripubblicato in formato monografico per i tipi di Einaudi nel 1986[3], si deve a Gianfranco Pasquino – fra i più illustri allievi di Bobbio – la prosecuzione di un’attenta opera di interpretazione della storia politico-istituzionale dell’Italia repubblicana, oggi contenuta nel volume Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana.

Gianfranco Pasquino

Pasquino lo fa adottando la stessa lente di Bobbio, ossia intrecciando la scansione degli eventi con l’analisi sulla «storia delle idee o delle ideologie o degli ideali intesa come storia della consapevolezza che gli intellettuali hanno del loro tempo, delle categorie mentali che di volta in volta adoperano per comprenderlo, dei valori che assumono per approvarlo o per condannarlo, dei programmi che formulano per trasformarlo», integrandola con i contributi intellettuali e/o volontaristici provenienti dall’agone politico.

In tal senso, Pasquino riesce a tenere insieme almeno tre punti di vista diversi, tra loro intimamente connessi (in ottica “eastoniana”)[4]: quello dei protagonisti e degli attori politici; quello della comunità politica, intesa nelle sue diverse componenti e dimensioni; quello delle regole, procedure e istituzioni attraverso cui le prime due interagiscono – valorizzando così sia la funzione pedagogica (di cultura costituzionale) della sua opera, sia il contributo critico-interpretativo della trattazione (come tale, di richiamo anche per gli studiosi di discipline storiche e giuridiche, tra gli altri).

Ciò posto, anche alla base di questo Profilo vi è il tentativo a capire se (ed eventualmente come), anche al di là del 1969, il nostro Paese abbia o no fatto uso delle garanzie costituzionali e delle nuove possibilità aperte dall’affermazione della democrazia – nelle sue varie dimensioni – per trasformarsi e arricchirsi, sul piano politico, sociale ed economico; in altri termini, se la libertà goduta nel dopoguerra abbia favorito un miglioramento nella cultura politica e nell’etica civile degli italiani.

Per rispondere a questo ambizioso interrogativo, Pasquino prende le mosse dal dibattito sugli obiettivi e le strategie delle diverse concezioni della democrazia nel nostro Paese testimoniandone, sin dai primi anni successivi alla fase transitoria-costituente, il progressivo sfilacciamento.

La causa di ciò è da ricondurre, più che alle trasformazioni dei partiti politici nel Novecento, all’insufficiente sforzo intellettuale e politico orientato all’elaborazione di un’idea di democrazia auspicabile e possibile.

Gli anni Ottanta: tra riformismo costituzionale e immobilismo programmatico

Con il passare degli anni, questa assenza di “progettazione democratica” ha coinvolto anche il sistema delle regole, incentivi e vincoli previsti dal nostro ordinamento repubblicano, a partire dalla fonte originaria: la Costituzione.

«Oggetto di venerazione», ma altresì «bersaglio di critiche, anche distruttive», «da molti ritenuta parte del problema italiano», e da altri «considerata il vero baluardo contro slittamenti antidemocratici», dagli anni Ottanta essa è stata al centro di numerosi tentativi di riforma che, sovente, si sono contraddistinti per una confusione di piani oltre che per strategie riformistiche maldestre le quali non sono mai riuscite a proporre un’alternativa valida all’opzione parlamentare di matrice costituente o, almeno, a riformarla nella prospettiva auspicata dall’ordine del giorno Perassi, vale a dire introducendo “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo ed a evitare le degenerazioni del parlamentarismo” (per esempio, attraverso l’introduzione del voto di sfiducia costruttivo).

Del resto, proprio per la sua proiezione assiologica sull’intera comunità nazionale, la Costituzione dovrebbe favorire una riflessione anche sui principi fondativi della Repubblica, a partire dalla sua matrice antifascista, senza dimenticare il suo programma di sviluppo dell’individuo nella dimensione sociale, economica, politica e civile, anche in ambito internazionale e sovranazionale.

Pure in questo caso, tuttavia, gli esiti non sono stati all’altezza delle aspettative. Vuoi per assenza di adeguate riflessioni teoriche e intellettuali, vuoi per tatticismo e per l’inconsistenza della classe politica, sia il dibattito sui rapporti tra fascismo, Resistenza e antifascismo, sia quello sul compromesso storico e, ancora, quello sulla possibile ri-strutturazione del sistema politico italiano a seguito della caduta del Muro di Berlino non hanno fornito indicazioni univoche, tali da guidare gli italiani verso un futuro migliore (o, quantomeno, verso opzioni di politica chiare e coerenti).

Gli anni Novanta: populismo, antiparlamentarismo e un (debole) federalismo europeo

All’esasperazione di queste tendenze ha contribuito l’affermazione, negli ultimi anni, di rinnovate forme di populismo e antiparlamentarismo, da sempre presenti nel panorama politico italiano. Queste hanno trovato facile sponda nel protagonismo berlusconiano ma anche nell’incapacità dei partiti pro-sistema di intercettare le nuove esigenze di rappresentanza derivate dalle trasformazioni socioeconomiche legate alla dimensione globale o, ancora, di proporre un’offerta politica capace di unire i cittadini verso nuove mete, come ad esempio il federalismo europeo (che, come illustra Pasquino nell’ultima parte del volume, è rimasto ai margini del dibattito pubblico italiano nonostante la grande eredità culturale lasciata da Altiero Spinelli e, più di recente, il polarizzarsi delle posizioni europeiste e sovraniste).

Dalla partitocrazia all’anomia politica: l’interconnessione fra la democrazia dei partiti, la Costituzione e il ruolo degli intellettuali.

Da un punto di vista generale, oltre a richiamare l’attenzione sulla complessità delle relazioni intercorrenti fra sfera della politica e riflessione teorica, evidenziando indirettamente il ruolo che dovrebbe svolgere l’intellettuale in uno Stato democratico che ha perduto la rotta, uno dei meriti del libro di Pasquino è quello di mettere in luce l’importanza di almeno due profili, sui quali meriterebbe di essere avviata una profonda discussione a livello intellettuale e culturale.

Da un lato, emerge con chiarezza l’interconnessione che esiste fra la democrazia dei partiti e la nostra Costituzione: un legame stretto, a sua volta espressione degli intimi rapporti che – come hanno rimarcato, pur da prospettive diverse, anche Giovanni Sartori e Leopoldo Elia – esistono tra la sfera politica e la sfera del diritto (tra legittimità e legittimazione); un legame che, nel caso italiano, si è tradotto nella costituzionalizzazione di uno specifico modello di democrazia politica a base pluralistica in cui i partiti avrebbero dovuto svolgere un ruolo di primo piano nell’articolazione dell’indirizzo politico e amministrativo (art. 49 Cost.; art. 95 Cost.), e che è riuscito ad assicurare una base assiologica di riferimento per le classi politiche oltre che per i cittadini. Ciò è avvenuto nonostante il progressivo affievolirsi dell’afflato ideologico e programmatico proveniente dai partiti stessi.

Tale ruolo però, nel passaggio dalla partitocrazia all’anomia politica, non può essere assicurato in modo permanente, nemmeno dalla legge fondamentale: parafrasando Albert Einstein, se i partiti senza la Costituzione sono ciechi, la Costituzione senza i partiti è zoppa, ed è solo questione di tempo prima che inciampi rovinosamente.

Ciò nondimeno, questa impasse può essere spezzata, in primis rivolgendosi alle culture politiche (tradizionali e non) le quali, pur in difficoltà, sembrano testimoniare, ancora oggi, la capacità di saper fornire idee capaci di viaggiare al di là delle singole scadenze elettorali (aprendo così la strada ad una serie di interrogativi di grande interesse: in direzione di quali mete? Attraverso quali mezzi? Con quali costi?).

La costruzione di una nuova classe politica: una questione di metodo (la scienza politica) e di contenuti (le culture politiche)

Dall’altro, non casualmente, il volume sottolinea proprio la necessità di adoperarsi per favorire la creazione di una classe politica che sia consapevole degli obiettivi da raggiungere e dei mezzi per farlo, adottando terminologie e metodi di analisi quantomeno coerenti; in questo senso, la stessa scienza politica, il suo strumentario (e.g. la comparazione nel tempo e nello spazio) e l’utilizzo accorto dei suoi concetti sembrano in grado di favorire la valorizzazione di quelle che Max Weber considerava le tre caratteristiche “sommamente decisive” per l’uomo politico – passione, senso di responsabilità – qualità oggi ricoperte da una coltre di polvere e dilettantismo.

Se la buona conoscenza – acquisibile con la ragguardevole strumentazione della scienza politica, spesso addirittura già disponibile – del funzionamento dei sistemi politici e, in particolare, delle democrazie costituisce la premessa per plasmare una cultura politica in grado di sostenere quelle democrazie di migliorarne le prestazioni e la qualità, quest’obiettivo non è stato conseguito. In assenza di una cultura politica adeguata non è in nessun modo possibile pensare alla formazione di nessuna classe dirigente. Pertanto, non ne seguiterà nessun buongoverno”[5].

Considerazioni finali

Anche per questi motivi (ma non solo), il confronto con il Profilo di Pasquino è senz’altro arricchente, benché sfidante. Il Profilo è tagliente, e fende laddove fa più male: nelle pieghe della nostra storia repubblicana, spiegata in modo esaudiente, e negli spazi interstiziali delle numerose occasioni perse per favorire anche nel nostro Paese la realizzazione del buongoverno (eunomia¸ Εὐνομία).

D’altro canto, il Profilo è prezioso: la capacità di Pasquino di insegnare (adottando uno stile chiaro, con il quale intesse una narrazione di ampio respiro; illuminante nei passaggi decisivi) e, al contempo, di indicare l’orizzonte per uscire dall’attuale fase crepuscolare della politica italiana consente al volume di dimostrare una delle sue qualità più grandi: l’attitudine a porsi come risorsa utile (e necessaria) per alimentare il dibattito, presso la classe politica, presso la più ampia cittadinanza, su quale comunità – nazionale ed europea – vogliamo essere (a questa domanda siamo tutti chiamati a dare un contributo, e Pasquino ci indica anche attraverso quali strumenti possiamo giungere a risultati soddisfacenti) e, dunque, in quale direzione vogliamo muoverci.


[1] Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Torino, UTET, 2021, 223 p.

[2]In Emilio Cecchi (a cura di) Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, 994 p. [il testo di Bobbio è alle pp. 105-200].

[3] Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, 201 p.

[4] Il riferimento è a David Easton, Il sistema politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1963.

[5] Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, op. cit. alla nota 1,  p. 137.

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