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Democrazia Futura. Israele-Palestina, la storia si ripete. Ma non è maestra di vita

Stefano Rolando

Stefano Rolando con “Il fiato sospeso per le iniziative negoziali messe in campo per evitare la catastrofe”, scrive un lungo pezzo “Israele-Palestina. La storia si ripete. Ma non è maestra di vita[1]“.

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Dopo il 7 ottobre, dopo la furia omicida del terrorismo di Hamas e i propositi di una reazione distruttiva israeliana contro Gaza (sempre possibile) il fiato sospeso del mondo per le iniziative negoziali messe in campo da Biden su Israele e dagli Stati arabi sulla Palestina per evitare la catastrofe.

Sono nato nel 1948, come lo stato di Israele. Come la guerra mossa allora dagli stati arabi contro quel drammatico ritorno alla “terra promessa”. Che costò anche ai palestinesi la prevista parallela costituzione del loro separato Stato. Una storia che i palestinesi chiamarono “Mokba” che significa “catastrofe”. Un datario impressionante. Quando prevalevano i moderati (le colombe di entrambe le parti) si tessevano i negoziati, si tentavano gli accordi, si provavano le convivenze. Quando vincevano gli estremisti (i falchi di entrambe le parti) la parola passava presto alle armi.

Questa la storia che provo a raccontare. Con qualche aneddotica personale, cioè di una generazione che ha visto in modo coinvolgente i due registri di una storia condannata a ripetersi e a non essere mai “magistra vitae.

Al centro dell’agenda. Il ritorno del prevalere del fronte dei falchi

Dal 7 ottobre 2023 l’agenda è dominata dallo squarcio drammatico in Medioriente tra i palestinesi di Hamas e il governo nazionalista di Israele. Che continua a far notizia (dalle dieci alle quindici pagine al giorno lo spazio assegnato dai grandi quotidiani), induce a prendere posizione, pone la domanda di quale soluzione prevarrà.

La prima volta in cui sono stato indotto a farmi un’opinione sul conflitto tra Israele e i palestinesi concludevo il liceo, appartenevo alla gioventù repubblicana e avevo amici ebrei sensibili politicamente. Era scoppiata la “guerra dei Sei giorni” del giugno 1967.

Partecipai ad una serata ai Giardini della Guastalla a Milano non esacerbata ma dichiaratamente filo-israeliana e come fonte dei fatti disponevo della lettura di un editoriale di Alberto Cavallari sul Corriere della Sera che inquadrava i fatti nello schema che anche oggi domina la situazione e che vi sto per dire. L’ho ritrovato segnalato ora tra i pezzi giornalistici che hanno costellato la storia del conflitto.

Scriveva Cavallari:

“I falchi hanno sostituito le colombe. Entrano al potere politico gli uomini del 1956. Sono al potere i generali, le truppe sono entusiaste della nomina a ministro della Difesa del generale Moshe Dayan”.

L’argomento è simmetrico. Ed è questo. Sia i palestinesi che gli israeliani – da sempre – presentano un fronte di falchi e un fronte di colombe. Quando sono le colombe sui due fronti ad avere maggioranza e potere, procedono, anche se a fatica, i negoziati, si concludono accordi locali o internazionali, tendenzialmente si cerca di risolvere i conflitti in forma diplomatica. Quando prevalgono i falchi, in automatico lo schema relazionale si tende e si arriva all’uso delle armi, con maggiore o minore violenza. Che nel corso degli anni ha significato guerre tra Stati (Israele e il mondo arabo) e più recentemente situazioni di guerriglia (cioè, con in campo movimenti sia palestinesi sia arabi di tipo fondamentalista e con tendenze terroristiche).

Lo scontro tra estremisti (per Israele significa il patto tra militari e nazionalisti soprattutto quelli ultrareligiosi) ha la forza di compattare, volenti o spesso nolenti, attorno ai palestinesi tutti gli Stati Arabi vicini e lontani e in generale il mondo musulmano. E in Israele, di compattare una maggioranza di forze sia delle rappresentanze parlamentari che religiose.

Serve una condizione di odio.

Quello su cui scrive in questi giorni l’ultracentenario Edgar Morin:

L’odio non è nuovo, ma ora è scatenato da entrambe le parti. Esso genera il delirio della colpa collettiva del popolo nemico[2].

Con molte varianti lo schema si è rivisto in ognuna delle famose crisi di guerra (dal 1948 al 1949 durante e dopo la costituzione dello Stato israeliano alla guerra con l’Egitto del 1956; dalla citata guerra dei Sei giorni del 1967 alla guerra del Kippur del 1973) poi seguite da scatenamenti violenti e fasi di intesa nei rapporti diretti tra Israele e i palestinesi.

Lo spostamento di posizione dell’Arabia Saudita fattore di accelerazione dell’attacco di Hamas?

Non c’è osservatore internazionale che, in questo caso, non abbia colto la variante che si stava profilando, in un contesto di evidente prevalenza dei falchi sia sul fronte palestinese che su quello israeliano. Parlo di uno spostamento di posizione dell’Arabia Saudita verso possibilità di intese regolate dai rapporti con gli Stati Uniti. Mentre sull’altro fronte persiste la posizione dell’Iran maggiormente impegnata a sostenere Hamas.

La turbativa nel mondo arabo della posizione dei sauditi pesa come una bomba nel quadro dei rapporti politici convenzionali. C’è chi non esclude che ciò abbia costituito il movente o comunque un fattore di accelerazione dell’attacco, comunque in cantiere da due anni, di Hamas su territorio israeliano scatenato il 7 ottobre 2023.

Con Hamas condizionante, le posizioni estremizzate dei palestinesi, per svuotamento politico dell’Autorità Nazionale Palestinese e comunque in un quadro di delega senza elezioni da molti anni, e con il governo Netanyahu ritenuto il più a destra della storia israeliana (per giunta pressato da un anno di contestazioni politiche interne), non ci voleva un indovino a immaginare la conseguenza di un alto conflitto per sostenere o rilanciare la governance di entrambi i fronti.

Il tema, tuttavia, è diventato non solo “interno”.  

Per le modalità, le implicazioni, i coinvolgimenti e il rilancio della guerra di propaganda e di rappresentazione delle rispettive condizioni (violenza, prepotenza, colonizzazione, diritti umani, eccetera) e anche per la forma crudele dell’ultimo attacco del 7 ottobre (sgozzamenti e rapimento di ostaggi), l’evoluzione di questo conflitto potrebbe  anche incarnare la trasformazione dell’odio in una visceralità distruttiva che già in Ucraina ha avuto cantieri aggiornati e inedite implementazioni digitali.

Da qui i tre oggetti di indagine: l’agenda di guerra; l’agenda diplomatica e la percezione dell’opinione pubblica spesso condizionante le scelte della politica (almeno dove si vota). Opinione pubblica che costituisce il primo argomento su cui vorrei portare in evidenza i dati a disposizione.

La dinamica dell’opinione pubblica in Italia

Nei sondaggi, ci stiamo abituando ad andare a vedere per prima cosa quanti dicono “non so”. Un dato in crescita – dal voto ai conflitti piccoli e grandi che, dall’economia alla salute, ci circondano – perché ormai contenuto in quel perimetro eccessivo che è il 60 per cento dell’astensionismo.

Nel quadro globale

Qualche elemento sull’immediato coinvolgimento del global players.

Spunti personali

Riprendo qualche spunto personale per segnalare il cambiamento di fondo del clima di una convivenza possibile che si è andato degradando nel tempo.

il mio problema è di tenere insieme una Lega di venti paesi arabi e islamici su una materia – l’acciaio, chi lo produce chi può solo comprarlo – che già per suo conto è fonte di conflitti”.

Da quell’epoca – soprattutto in anni di impegno in funzioni istituzionali – feci una decina di viaggi-missioni in paesi arabi e tre volte in Israele e Palestina.  Tralascio i paesi arabi (basti qui aver detto la storia di Algeri). Brevi aneddoti, invece, sulla trincea tra Israele e Palestina.

Alla ricerca di una cultura organizzativa della convivenza fra palestinesi e israeliani

Racconto queste cose solo per dire che di quella stagione piena di segni di convergenze non c’è più l’ombra né a Gaza, né in Cisgiordania e forse nemmeno a Gerusalemme, fatti salvi certi ambiti diciamo elitari e altamente culturali.

Questo è il risultato del rapporto tolto alle colombe e messo in mano ai rispettivi “falchi”.

Un tessuto che andrebbe quasi interamente riconcepito e riprodotto.

Difficile allora. Adesso al centro di quel “E dopo?” a cui ha alluso Joe Biden e su cui c’è chi vede il baratro, chi non azzarda previsioni. In questo momento la sola iniziativa che potrebbe introdurre uno sguardo allungato al “dopo” è proprio quella promossa al Cairo ancora con una situazione di Gaza non irreversibilmente compromessa.

La rappresentazione delle vie d’uscita

Scusate la digressione su queste vicende.  Volevo trapuntare questa lettura dei fatti di oggi, comunicando alcuni sentimenti di complessità di chi ha vissuto la parte sostanziale del lungo dopo guerra. Una parte che comprende anche la ragione della “colpa dell’Occidente” per lo sterminio degli ebrei – certamente problema dei tedeschi, degli italiani, degli austriaci, dei collaborazionisti francesi e di altri paesi occupati dai nazisti, non problema degli inglesi che alla fine furono decisivi nella operazione costitutiva di Israele – che portò nel 1948 alla fondazione dello Stato di Israele. E ciò nel contesto di una guerra voluta dagli Stati arabi che farà svanire il parallelo obiettivo, cioè la parallela costituzione dello Stato della Palestina e che per i palestinesi sarà ricordato come la “Mobka”, la catastrofe.  Poi vi è  un datario pieno di tragedie e di speranze con mille fatti scritti in quella storia che non va mai esclusa dalle nostre riflessioni anche quando essa si ripete dimostrando così di non essere sempre magistra vitae.

A questa complessità però dovremmo cercare di stare legati culturalmente ed  emotivamente anche nel momento in cui rispondiamo a un sondaggio su Israele/Palestina. Anche quando vediamo una violenza intollerabile che trascinerà altre violenze uguali e contrarie. E ciò non per evitare di prendere posizione. Anzi. Ma per dare – come ha scritto Sergio Fabbrini su Il Sole 24 ore – “sostegno a Kiev e a Tel Aviv, ma senza tacerne gli errori” – era proprio questo il titolo dell’articolo[3].

Prendere parte, scegliere anche una parte, leggere bene le cose connesse, sviluppare domande e soprattutto mantenere un senso critico da non risparmiare verso chi sceglie la forma preferita dai falchi guerrafondai. Quella di incendiare con le parole le parole altrui, quella di immaginare che ogni atto di violenza sia una delega data da un popolo sofferente per decisione diretta di Dio ad una mano armata disposta alla vendetta.

Giovanni Cominelli, muovendosi in questa logica in cui mi riconosco, ricorda un passaggio essenziale dello scontro attorno a cui non possiamo dire che sia venuta meno la ragione storica dello sterminio del popolo ebraico parlando della difesa attuale di Israele. Cioè, il fatto che lo Statuto di Hamas e la costituzione di alcuni paesi islamici (tra cui l’Iran) continuano a prevedere la cancellazione con la forza di Israele[4]. Esattamente quel buco incendiario sulla carta geografica che mi resta in mente dal 1971 che ho prima citato.

È vero che l’evoluzione storica dei rapporti di mediazione ha portato – negli anni progettuali che ho ricordato – alcuni di quei paesi (certamente l’Egitto e la Giordania) a rimuovere dalle proprie regole costituzionali il proposito imperativo della distruzione di Israele. Un percorso decisivo che però si è fermato. Dopo di che arriva la lista anche sterminata di critiche, politiche, culturali, di metodo. Ma i nodi storici non devono essere omessi. E possono essere raccontati con la pedagogia civile che per queste cose le nostre democrazie devono avere. Ascoltando tutte le voci in campo.

Conclusioni

Le domande poste in questi giorni a coloro che sono considerati esperti di questo equo ascolto ruotano attorno alle forme della reazione israeliana nei territori governati da Hamas e alla pressione di contenimento del carattere distruttivo che americani da una parte e sistema euromediterraneo (comprensivo di stati arabi molto influenti) può essere esercitata per contenere la dinamica di scontro a livello locale senza ampliarne i coinvolgimenti su scala globale.

Con tutta una serie di derivate che riguardano assetti e posizionamenti dei due soggetti in campo che devono poi tornare a vivere in ambiti attigui e addirittura intrecciati e dei molti soggetti nazionali e politici che costituiscono il cerchio esterno della crisi mediorientale. Nel racconto fin qui fatto ci sono alcuni frammenti informativi per ricordare che queste risposte non dipendono solo dalla violenza scaturita dagli episodi del 7 ottobre ma dal lungo, lunghissimo processo che trasmette ormai a quasi quattro generazioni i suoi irrisolti.

Vi prego di accettare la mia onesta impossibilità di dare risposte valide ora a queste domande.

Pur essendo oggi chiari i venti di guerra che riguardano vari attori in campo (dalla portaerei americana attiva al largo di Israele ai missili che partono dal Libano) che possono indurre al pessimismo. Ma chiare anche le iniziative assunte per aprire un terreno di negoziato che potrebbe avere interferenza non marginale sulle poste in gioco.

Il mio compito è quello di dare alcune spiegazioni ai nodi problematici attraverso cui la rappresentazione del nostro tempo viene spesso imbastita non solo per impedirci di partecipare alle soluzioni ma proprio a monte, per impedirci, ancor prima, di capire di cosa si discute.

Non ho studiato dai gesuiti e per questo non ho l’abitudine di evitare le risposte ponendo a mia volta domande. Ma questa volta mi accontenterei di aver stimolato amici e ascoltatori a cogliere e leggere nello sviluppo del dibattito dei prossimi giorni (ma anche a più lungo termine dei prossimi mesi) elementi, se vi saranno, per favorire quelle risposte, che oggi credo nessuno abbia, agli argomenti qui presentati.


[1]“La storia non è maestra di vita”, Ilmondonuovo.club, 20 ottobre 2023 (versione audio).

Cf. https://stefanorolando.it/?p=8239.

[2]  Edgar Morin, “La guerra in Israele. Respingere l’odio”, La Repubblica, 20 ottobre 2023.

[3] Sergio Fabbrini, “Sostegno a Kiev e a Tel Aviv, ma senza tacerne gli errori”, Il Sole 24 ore, 15 ottobre 2023.

[4] Nella Premessa dello Statuto di Hamas è scritto:

Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l’Islam non lo ponga nel nulla, così come ha posto nel nulla altri che furono prima di lui”.

E all’art. 7 è scritto:

“L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno”.

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