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Democrazia Futura. Il Sol dell’avvenire è … Cinema

Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

Guido Barlozzetti analizza “Il Meta-Cinema di Nanni Moretti” in un pezzo dedicato all’opera appena uscita in sala Il Sol dell’avvenire intitolato “Il Sol dell’avvenire è … Cinema”. Scrive Barlozzetti: “[Nanni Moretti] a settant’anni, a quasi cinquanta dall’esordio di Io sono un autarchico (1976), mentre torna a giocare con il superbalocco prediletto, il cinema, ne fa specchio e confessionale, un altrove e uno spazio di immaginazione dove la realtà può riscattarsi dal grigiore del tempo e far finta o illudersi che la Storia possa essere stata anche un’altra. Come se, già, come se… nel 1956 – l’anno in cui Moretti ambienta il film di Giovanni – il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, c’è anche lui circondato dalla corte dei dirigenti, di fronte all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica di Iosif Stalin – che invece non c’è, perché Giovanni non vuole che appaia nel suo film – avesse deciso di rinnegare lo storico legame e avesse finalmente realizzato “l’utopia di Marx e Engels che ci rende tanto felici”, prima di concludere: “Con l’insegna di Lev Trotsky che campeggia sul corteo, sfilano tutti i personaggi del film e il cerchio sorridente degli amici e di un’umanità felice. A firmare la gioiosa macchina da cinema il suo primo piano, almeno qui sereno e felice nell’ammollo del suo acquario residuale. Il Meta-Cinema”.

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Un regista che si diletta nel suo giardino dei balocchi, gode a esibire nevrosi e idiosincrasie, un paziente che si distende sul lettino del cinema e ama sdoppiarsi e guardarsi.

Sarebbe superficiale ridurre Il Sol dell’avvenire di Nanni Moretti a un’impressione che confina con lo stereotipo che a lui viene associato ora con complicità, ora con sussiego pari al suo.

Nanni Moretti

È vero, Moretti se la prende con i sabot dell’attrice protagonista del film che il suo alter ego Giovanni, sta girando, coltiva rituali ossessivi come Lola di Jacques Demy che deve vedere ogni volta che comincia la lavorazione di un nuovo film, avvolto in una coperta e con un gelato che sempre quello deve essere, è pignolo e ribatte che i comunisti negli anni Cinquanta c’erano in Italia e non erano russi, è ipocondriaco e confessa candidamente di usare da sempre antidepressivi…

E però, a settant’anni, a quasi cinquanta dall’esordio di Io sono un autarchico (1976), mentre torna a giocare con il superbalocco prediletto, il cinema, ne fa specchio e confessionale, un altrove e uno spazio di immaginazione dove la realtà può riscattarsi dal grigiore del tempo e far finta o illudersi che la Storia possa essere stata anche un’altra. Come se, già, come se… nel 1956 – l’anno in cui Moretti ambienta il film di Giovanni – il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, c’è anche lui circondato dalla corte dei dirigenti, di fronte all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica di Iosif Stalin – che invece non c’è, perché Giovanni non vuole che appaia nel suo film – avesse deciso di rinnegare lo storico legame e avesse finalmente realizzato “l’utopia di Marx e Engels che ci rende tanto felici”.

Non sembri paradossale, sono le parole che chiudono il film e con tutta l’ironia del caso ma anche con il potere ricreativo del cinema, mettono un sigillo festoso al divagante, incerto, problematico percorso di Giovanni (che, sarà un caso, fa rima con … Nanni) in bilico su un bordo critico, tra un film da girare e il rapporto quarantennale con Paola/Margherita Buy e quello con la figlia Emma parecchio insofferente nei confronti di un padre concentrato su sé stesso. Avanza, si fa per dire, da equilibrista come quelli che, nel film nel film, si esibiscono nel Circo Budavari che dall’Ungheria con carri e animali è arrivato al Quarticciolo su invito del segretario della locale sezione intitolata ad Antonio Gramsci.

È lui, il giornalista de L’Unità Ennio Mastrogiovanni, un compunto e rattrappito Silvio Orlando, il protagonista del film di Giovanni insieme con la compagna Vera/Barbora Bobulova, lui fedele all’ortodossia di un Partito che ha sempre ragione, anche quando i carri armati a Budapest gli dicono che forse non è così, e lei che invece lo scuote dal torpore ideologico e si fa pasionaria di un’abiura collettiva verso la dirigenza incapace di vedere.

Giovanni vorrebbe raccontare la storia di un disorientamento politico innescato dai fatti dal ’56, che dovrebbe concludersi secondo sceneggiatura con il suicidio di Ennio, entusiasta al solo pensiero di chiudere un film impiccandosi.

Ed è Vera che nel corso delle riprese sposta il senso della storia che doveva essere solo politica. Contraddice al rigore che Giovanni vorrebbe imporre alle scene e ai dialoghi e, citando il metodo di John Cassavetes e un rapporto aperto tra regista e attore che Giovanni aborre, rivendica con riflesso pirandelliano il diritto del personaggio ad evolvere e dunque a esprimere i propri sentimenti, sia nei confronti di Ennio, sia su quanto sta accadendo in Ungheria. Così, manifesta il suo innamoramento allo stordito Ennio che via via la asseconda, non arretrando però sulla dogmatica adesione al Partito, e con la sua plateale protesta contro i burocrati del giornale dà una piega alla storia che accentua ancora di più i dubbi di Giovanni.

In effetti, per lui non ci sono più certezze, spiazzato anche dalla decisione di Paola di lasciarlo perché si sente sua prigioniera ed è finito il tempo in cui parlavano, oltre che dal fidanzamento di Emma con Jerzy, un musicista polacco molto più anziano, a cui ha osato far ascoltare prima che al padre le musiche che sta componendo per il film.

Ma non si rende onore al film raccontandolo. Moretti infatti scambia continuamente dal film che Giovanni sta girando al film cornice, dalla scena al set, in un dentro/fuori che dà spazio al sogno e all’immaginazione, e affida al Cinema il riscatto della vita.

Ed è lo stesso Giovanni a darci una chiave quando dice del progetto di un film in cui seguire una coppia per cinquant’anni attraverso le canzoni.

Così nel tessuto autoriflessivo e autobiografico del film si aprono dei veri e propri numeri musicali, alla maniera del citato Jacques Demy, in cui lui, ora da solo, ora con Paola, ora con tutti, canta su un motivo accogliendolo nel film e inserendolo in un percorso-musical-sentimental-politico che attraversa tutto Il sol dell’avvenire.

Ecco allora Giovanni e Paola che in auto cantano Sono solo parole di Noemie poi battono le mani su Think di Aretha Franklin, e poi lui che da solo gioca con il pallone sulle note di Si tu n’existe pas e tutto il set che piroetta come i dervisci rotanti su Voglio vederti danzare di Franco Battiato, e Lontano lontano di Luigi Tenco su due ragazzi – una sottotrama del film – che al cinema stanno vedendo La dolce vita di Federico Fellini (un sole antico che illumina tutto il film), Giovanni che seduto dietro di loro invita lui a baciare lei, e poi in un altro surreale incontro suggerisce a lei le battute per dire a lui di un amore deluso su La canzone dell’amore perduto di Fabrizio De Andrè.

Non bastasse, in una sceneggiatura che a volte esorbita con il rischio del compiacimento e della ridondanza, c’è anche Paola che va dall’analista e, per la sofferenza di Giovanni, sta producendo un film di un giovane regista.

È l’occasione per una lunga scena in cui Giovanni entra in campo e blocca le riprese catechizzando l’esordiente infervorato di action iperviolenta.  Chiama al telefono Renzo Piano, e convoca Chiara Valerio e Corrado Augias per dire che la violenza al cinema ha senso solo se è la catarsi di sé stessa, come hanno saputo fare Francis Ford Coppola con Apocalypse Now e Krzysztof Kieślowski in Breve film sull’uccidere.

Nanni riflette sul cinema, ne denuncia una deriva che va verso “l’intrattenimento” (il giovane cineasta sostiene che con il suo film va a chiudere con il neorealismo…). E pure riflette anche sul nuovo contesto delle piattaforme, quando un produttore su di giri e estemporaneo, Pierre/Mathieu Amalric costringe Giovanni a un’ironica seduta con i manager di Netflix che valutano le sceneggiature con l’orologio e bocciano la proposta perché manca il “what the fuck” e il turning point arriva troppo tardi… Nel cinema di Moretti non c’è posto per le piattaforme.

Pedagogico e nevrotico, ma anche visibilmente romantico e malinconico, Giovanni/Nanni rinuncia alla fine al suicidio (di Ennio…) e si/ci consola con una passerella ecumenica sui Fori Imperiali da finale di Otto e mezzo. Con l’insegna di Lev Trotsky che campeggia sul corteo, sfilano tutti i personaggi del film e il cerchio sorridente degli amici e di un’umanità felice. A firmare la gioiosa macchina da cinema il suo primo piano, almeno qui sereno e felice nell’ammollo del suo acquario residuale. Il Meta-Cinema.

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