L'analisi

Democrazia Futura. Il futuro dell’Unione europea dopo la guerra in Ucraina  

di Pier Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (CIME) |

A oggi tutti i tentativi di dialogo si sono fermati davanti alla proterva volontà di Vladimir Putin di conquistare Kiev, far cadere il governo di Volodymyr Zelens’kyi e sostituirlo con un governo fantocci.

Pier Virgilio Dastoli

Il presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo Pier Virgilio Dastoli presenta per i lettori di Democrazia futura e di Key4biz una sua analisi su “Il futuro dell’Unione europea dopo la guerra in Ucraina”, cercando di individuare “Quali strade possono portare alla pace” ed esaminando le misure prese dalla Commissione per “La resilienza dell’Unione europea”, soffermandosi poi sul tema de “La riforma dell’Unione e la difesa europea” e tentando di definire a quali condizioni sarà possibile realizzare “Il futuro dell’Ucraina nell’Unione europea”, auspicando in conclusione ad una “Helsinki 2” ovvero  una “conferenza europea per la pace e la sicurezza sul modello degli accordi di Helsinki del 1975 e su iniziativa dell’Unione europea e dell’OSCE, una Conferenza che potrebbe contribuire al rilancio dei negoziati per la riduzione e il controllo degli armamenti”.

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Di fronte all’immane tragedia umanitaria che sta avvenendo dalla notte del 24 febbraio in Ucraina, provocata dall’illegittima invasione militare decisa da Vladimir Putin, il primo obiettivo della comunità internazionale deve essere l’immediata cessazione dei bombardamenti e delle ostilità in particolare nei confronti della popolazione civile.    

La strada della tregua è impervia: a oggi tutti i tentativi di dialogo si sono fermati davanti alla proterva volontà di Vladimir Putin di conquistare Kiev, far cadere il governo di Volodymyr Zelens’kyi e sostituirlo con un governo fantoccio per avviare la “denazificazione del paese”.     

Per ora questo dialogo si è scontrato con il muro invalicabile dell’aggressore e in questo ha forse avuto un’influenza il fatto che la maggior parte dei leader stanno – giustamente – dalla parte dell’aggredito.   

Quali strade possono portare alla pace

La comunità internazionale deve tuttavia tentare ancora questa strada con tutti i mezzi a sua disposizione: il dialogo con Vladimir Putin deve continuare nonostante tutto.   

Nel novembre 1950 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite – in seduta straordinaria e per superare i possibili veti nel Consiglio di sicurezza dei membri permanenti – adottò la risoluzione 377A “Uniting for peace che autorizzava la stessa Assemblea generale a adottare a maggioranza delle misure di peace enforcement o di peace keeping ma che questa risoluzione non è stata mai applicata.   

Sebbene essa non sia diventata diritto consuetudinario e la sua legittimità sia stara contestata, dare voce all’Assemblea generale avrebbe oggi un significato e un motivo di autorevolezza dell’istituzione internazionale e dell’aver già essa adottato a larga maggioranza con 141 voti favorevoli, 5 contrari e 35 astensioni una risoluzione di condanna dell’aggressione russa dell’Ucraina.    

I 35 paesi che si sono astenuti sulla menzionata risoluzione di condanna e l’Unione europea potrebbero chiedere con urgenza la convocazione di una nuova Assemblea generale straordinaria che esiga una tregua immediata e che riapra la discussione sulla risoluzione 377A del 1950.     

Questa strada è evidentemente irta di ostacoli ma l’immane tragedia umanitaria deve spingere la comunità internazionale a tentare di intraprendere anche le strade più impervie. 

In questo spirito, appare importante il ruolo che potrebbe essere svolto dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) e l’attualizzazione degli Accordi di Minsk del 2014 e del 2015, finora mai applicati da Russia e Ucraina, che dovrebbero essere messi sul tavolo del negoziato diplomatico su iniziativa della stessa OSCE e dell’Unione europea

Contemporaneamente a questo tentativo di appeasement devono proseguire le iniziative coercitive di isolamento del regime di Vladimir Putin a cominciare dalle sanzioni economiche, dagli aiuti umanitari ma anche militari sapendo che il conflitto “freddo” della grande maggioranza della comunità internazionale non riguarda il popolo e la cultura della Russia ma il nuovo “Zar” al potere.   

La resilienza dell’Unione europea

Per far fronte alle ancora imprevedibili conseguenze delle sanzioni decise dall’Unione europea nei confronti della Russia nel settore dell’energia  e per rendere gli Stati membri meno dipendenti dal gas russo e quindi dai ricatti di  Vladimir Putin nel sostegno all’Ucraina, la Commissione europea ha presentato l’8 marzo 2022 un piano denominato RePowerEu fondato su tre priorità: la riduzione del costo dell’energia per privati e imprese, la diversificazione degli approvvigionamenti sia in relazione ai paesi esportatori  che alle fonti di energia e i maggiori investimenti nelle energie rinnovabili e alternative e cioè pulite.

L’obiettivo ambizioso della Commissione è quello di ridurre la dipendenza dal gas russo del 90 per cento entro la fine del 2022 ma la sua realizzazione dipende da molti fattori e la diversificazione dei paesi esportatori non è sempre coerente con la riduzione dei costi dell’energia considerando ad esempio che il gas liquido che proviene dagli Stati Uniti d’America è attualmente più caro di quello russo e che i tempi per la transizione alle energie pulite rischiano di essere molto lunghi.

Il piano della Commissione è stato discusso il 9 marzo 2022 al ministero dell’economia francese con commissari, esperti e politici su invito del ministro Bruno Le Maire e poi al Vertice informale dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea convocato da Emmanuel Macron a Versailles il 10 e 11 marzo che avrebbe dovuto essere dedicato alla riforma della governance economica ma la cui agenda è stata sconvolta dall’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio.

La Commissione si è mossa con un eccesso di prudenza per non interferire nei diritti degli Stati membri previsti dal Trattato di Lisbona e che rendono molto impervia la via della realizzazione di una vera unione dell’energia. Ciascuno Stato può determinare autonomamente le condizioni per lo sfruttamento delle proprie risorse energetiche, scegliere autonomamente le fonti di energia e definire la struttura dell’approvvigionamento creando divisioni fra gli Stati, competitività nelle relazioni con i paesi esportatori, irrilevante capacità negoziale dell’Unione europea e last but not least posizioni tendenzialmente diverse sull’inasprimento delle sanzioni alla Russia.

Ancor prima dell’invasione del 24 febbraio 2012 era stato posto da più parti e anche dal presidente del  Consiglio italiano Mario Draghi la necessità e l’urgenza di usare per le fonti di energia lo stesso metodo che è stato usato per la lotta alla pandemia e i vaccini autorizzando la Commissione a negoziare a nome di tutta l’Unione ma nulla è stato fatto dì concreto in questa direzione e la crisi ucraina dovrebbe finalmente spingere gli Stati membri verso la realizzazione dell’unione dell’energia superando i limiti del trattato e aprendo la strada ad attribuire all’Unione una competenza esclusiva quando si metterà mano alla revisione del trattato passando attraverso una cooperazione rafforzata fra un numero più limitato di Stati membri.

Al di là del piano energetico si è tuttavia aperta al Vertice di Versailles una discussione più importante sulla natura, sulla dimensione e sugli obiettivi degli strumenti finanziari creati dall’Unione europea – su proposta della Commissione – per combattere gli effetti economici e sociali devastanti della pandemia e che ora rischiano di essere ancora più drammatici nello sconvolgimento geopolitico, umano e militare provocato dall’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio.

Il dibattito è destinato ad allargarsi e sarà interessante verificare la posizione del governo italiano, che può contare su una larga maggioranza in parlamento, e le alleanze che potranno essere costruite in Europa sapendo che c’è una forte convergenza con il governo francese e quello spagnolo.

La riforma dell’Unione e la difesa europea

Mentre si avvia la procedura per rispondere alla domanda del governo ucraino per lo status di “paese candidato” si deve aprire il cantiere della riforma dell’Unione europea al di là del Trattato di Lisbona sulla base dei risultati della Conferenza sul futuro dell’Europa. 

All’interno della riforma dell’Unione europea una questione rilevante riguarda la sua autonomia strategica e il tema della difesa europea che è tornato drammaticamente di attualità dopo l’invasione dell’Ucraina, che è stato discusso a Versailles e che sarà all’ordine del giorno di un Consiglio europeo straordinario a fine maggio 2922 dopo le elezioni presidenziali in Francia.

Si otterrà un consistente beneficio politico e si rafforzerebbe il consenso dei cittadini se si sfruttassero a fondo le economie di scala derivanti dall’integrazione fra i sistemi di difesa nazionali perché la difesa è uno dei terreni simbolici insieme alla democrazia, ai diritti e alla moneta.

Nel nuovo sistema internazionale, la difesa europea deve essere concepita come strumento, un pilastro autonomo all’interno di una Alleanza atlantica rinnovata per consentire all’Unione europea di agire efficacemente per il mantenimento (peace keeping) e la costruzione (peace building) della pace ma anche per intervenire nel quadro e su mandato delle Nazioni Unite creando dei peace corps europeial fine di contribuire ad azioni di mediazione nei conflitti locali

L’Unione europea deve agire sia per attuare un controllo nella vendita degli armamenti sia per la riduzione reciproca, equilibrata e controllabile a livello internazionale delle forze militari e degli armamenti.

A breve termine e usando lo strumento della cooperazione rafforzata occorre pensare a misure comuni per reagire ad attacchi informatici e, attraverso la cooperazione strutturata permanente, affidare la gestione di crisi specifiche a un gruppo di Stati membri, procedere sulla via della standardizzazione degli armamenti, del coordinamento delle politiche industriali nazionali con regole comuni sulla vendita delle armi al di fuori dell’Unione europea.

Occorre prevedere strumenti per rendere più efficace la definizione di interessi strategici comuni come l’ampliamento delle missioni dello Stato Maggiore Europeo, istituito nel 2002, per gestire operazioni militari di lunga durata affidando all’MPCC (capacità militare di pianificazione e condotta istituita dal Consiglio l’8 giugno 2017)- oltre alle operazioni non esecutive -anche missioni esecutive nella prospettiva di un vero Quartiere generale europeo sul modello dello SHAPE fino al 2003 e poi divenuto ACO (Allied Command Operations) e un’Accademia Militare per la preparazione degli ufficiali. 

La bassa efficienza della spesa per la difesa nei paesi europei nel loro complesso dipende anche dalla frammentazione del mercato interno della difesa, finora refrattario a qualsiasi sforzo di integrazione: occorre pertanto dare impulso ad una progressiva convergenza delle industrie nazionali del settore, salvaguardando capacità tecnologiche e base occupazionale, in un’ottica di realistica razionalizzazione.

La politica di sicurezza e difesa, cuore pulsante della sovranità di un popolo, si fa tuttavia sulla base di una strategia complessiva di politica estera

Ma le decisioni strategiche in materia di politica estera, di sicurezza e di difesa in Europa, sono invece ancora saldamente nelle mani dei governi nazionali all’interno del Consiglio europeo o nella gestione delle relazioni internazionali nonostante le numerose missioni dell’UE in paesi terzi mentre i Parlamenti nazionali e il PE sono di fatto esclusi dal controllo democratico di scelte che fanno parte degli interessi essenziali dei cittadini come la pace e la sicurezza.

La politica di sicurezza e difesa non può, dunque, che essere il frutto di scelte legittimamente e democraticamente assunte con piena responsabilità di fronte ai cittadini, e richiede quindi un’integrazione politica e meccanismi decisionali che a oggi sono ben lontani anche solo dall’essere evocati.

Senza questi elementi imprescindibili, la cooperazione strutturata permanente – sottoposto al vincolo dell’unanimità fra un numero molto elevato di paesi aderenti con posizioni fortemente diversificate in tema di difesa europea – subirà le conseguenze dell’inefficacia di qualunque accordo di cooperazione intergovernativa e non potrà rappresentare l’embrione di una vera e propria cessione e condivisione di sovranità. 

O meglio: una cessione a metà, un modello ambiguo e inefficace, col rischio che la già debole capacità militare e di sicurezza interna dei 27 a livello nazionale diventi un mostro giuridico altrettanto inefficiente e incapace di agire a livello sovranazionale se non sarà sottoposto al controllo di un governo federale che risponda al Parlamento eletto democraticamente dai cittadini

Tale governo dovrà essere chiamato a rappresentare in futuro la Comunità federale nel Consiglio di sicurezza come logica conseguenza dell’attribuzione di un seggio unico dell’Unione europea nel quadro di una riforma in senso regionale delle Nazioni Unite.

Il futuro dell’Ucraina nell’Unione europea

L’Unione europea deve usare tutti  gli strumenti previsti dall’accordo di associazione con l’Ucraina entrato in vigore nel 2017 sia rafforzando gli aiuti umanitari sia prevedendo – nella speranza che si interrompa presto l’aggressione armata – un piano straordinario di ricostruzione e di peace building che aiuti l’Ucraina ad avviare dopo la guerra le riforme interne per contribuire al rispetto dei criteri di Copenaghen e dell’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea indispensabili in vista di una futura adesione. Il Trattato di Lisbona ha infatti fissato alcuni criteri che rendono particolarmente e opportunamente complicate le procedure di adesione che, per l’Ucraina che aveva già preannunciato una domanda (mai formalmente presentata) nel 2014 nel quadro dell’accordo di associazione con l’Unione europea, possono partire ora che il governo si è rivolto al Presidente del Consiglio in esercizio e cioè a Emmanuel Macron.

Quando il Consiglio riceve una domanda di adesione viene attivato un percorso interistituzionale che coinvolge i parlamenti nazionali (che vengono “informati” ma di fatto promuovono dibattiti e adottano risoluzioni), il Parlamento europeo che deve dare la sua approvazione alla maggioranza dei suoi membri, la Commissione che esprime un parere motivato (con un lavoro interno che per le passate adesioni ha richiesto almeno un anno) ed infine – last but not least – il Consiglio europeo che adotta “criteri di eleggibilità” come avvenne a suo tempo al Consiglio europeo di Copenaghen sul rispetto dei  valori dell’Unione europea.

Solo alla conclusione di questo iter preliminare, il Consiglio può all’unanimità concedere lo status di candidato che apre la strada da una parte all’avvio di negoziati formali condotti dalla Commissione sotto il controllo annuale del Consiglio e del Parlamento europeo e d’altra parte ad una serie stringente di obblighi del paese candidato chiamato a provare che si è aperta la strada a molte riforme interne di natura politica, economica, legislativa e finanziaria. L’attivazione di alcuni articoli del Trattato ed in particolare l’art. 42 che prevede una clausola di solidarietà in caso di aggressione armata che si accompagna all’art. 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione per attacchi terroristici o  catastrofi umanitarie si applica solo ai paesi membri e dunque lo status di candidato non modifica sostanzialmente il rapporto fra l’Ucraina e l’Unione europea ferma restando la decisione straordinaria di fornire aiuti finanziari per l’acquisto di armi sulla base dello European Peace Facility al di fuori del bilancio europeo. Lo status di candidato può invece ad aprire la strada a sostanziosi aiuti finanziari “pre-adesione” come avvenne per i paesi dell’Europa centrale e orientale e che potrebbero essere iscritti a partire dal 2023 sul bilancio europeo.

Helsinki Due?

Come è avvenuto nel 1950 fra paesi europei che si sono combattuti per decenni e che hanno trovato nella dimensione comunitaria la via della cooperazione e della pace per il benessere dei loro cittadini, la fine della guerra dovrà permettere la convocazione di una conferenza europea per la pace e la sicurezza sul modello degli accordi di Helsinki del 1975 e su iniziativa dell’Unione europea e dell’OSCE, una Conferenza che potrebbe contribuire al rilancio dei negoziati per la riduzione e il controllo degli armamenti le cui dimensioni in termini finanziari – dieci volte superiori alla spesa per la cooperazione allo sviluppo – sono foriere di conflitti, miserie, distruzioni e sofferenze.