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Democrazia Futura. Farfalle dietro la porta

Silvio Maestranzi

Fra i più agghiaccianti esperimenti avviati dal regime nazional socialista, Il Progetto Lebensborn (Progetto Sorgente di Vita) fu uno dei diversi programmi avviati dal gerarca nazista Heinrich Himmler per realizzare le teorie eugenetiche del Terzo Reich sulla razza ariana e portare la popolazione ariana in Germania a 120 milioni di persone entro il 1980.

Da qui prende spunto il racconto “Farfalle dietro la porta”, che il regista e sceneggiatore Silvio Maestranzi ha scritto in previsione di farne una fiction, con il quale Democrazia futura avvia la pubblicazione di opere narrative ancora inedite. Ringraziamo il maestro per aver accettato di inaugurare questa nuova iniziativa della rivista augurando ai lettori buona lettura.

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Durante una pausa caffè la segretaria mi consegna una busta spessa: è una raccomandata urgente. Sul retro un nome tedesco. La mittente è sconosciuta, ma non la città: Augsburg. Il cuore sobbalza. Vorrei ignorare i consiglieri. Mi stringo nella giacca del tailleur e guardo l’ora: prendo tempo. Sorrido ad uno che mi guarda interrogativo.

Mi alzo e cerco rifugio nel mio studio. Dalla grande vetrata le nuvole mi vengono incontro colme di nero e di minacce. C’è poca luce. Torno alla scrivania. Accendo. Il mio nome sul plico chiuso con la ceralacca ha una n in più : “Ninna”. Suona più dolce. Faccio saltare la ceralacca. C’è un biglietto:

 Il capitano Becker mi aveva incaricato di farle avere questo quaderno solo dopo la morte. La mia coscienza mi spinge a inviarlo adesso. È appena stato colpito da un grave ictus. Ilse Wunder. 3 ottobre 1995, Augsburg.

Devo appoggiarmi alla scrivania mentre giungono risate dalla sala oltre la porta. C’è sempre uno pronto con la barzelletta per soli uomini.

Citofono alla segretaria che tardo due minuti. Frugo nel cassetto più basso e le scovo, Dio le benedica! Le dita tremano e scartano nervose: aspiro a pieni polmoni. La mia lingua si accartoccia nel fumo e lo spinge nei polmoni. Forse comincio a rilassarmi. Bussano. Spengo a metà e riprendo il mio posto ostentando naturalezza. Non vedo l’ora di finire. Guardo sopra le teste e poi nelle carte per paura che gli occhi tradiscano l’ansia. Rimpiango quella mezza sigaretta storpiata e abbandonata nello studio. Bevo un sorso d’acqua, poi li fisso negli occhi e mi faccio forza:

– L’ultimo punto è il più doloroso, e non possiamo fare sconti.

– Come intende motivare?

Riesco – come sempre – a far accettare le mie scelte, nette e spesso impopolari a quei sette “figli del condizionale” che mi stanno davanti, e anche a Corsetti, che fa da segretario, giovane azzimato che tengo a briglia perché troppo ambizioso. Oggi si tratta di mandare a casa tre quadri “medi” di minor rendimento, da licenziare per cura dimagrante al nostro personale. Mentre mi brucia la bocca dello stomaco, non li ascolto più. Sono già lontana. E non ammetto difese personalizzate, le tre teste rotolano mentre firmo i licenziamenti. Altre firme? Non ce la faccio.

– A domani Corsetti, oggi non torno.

– Veramente c’era…

– Signori, vi ringrazio, la seduta è aggiornata.

Scappo via. Ho bisogno di ossigeno, magari di qualche altro sbuffo di fumo nei polmoni. Sotto, lo stomaco non molla. Licenzio l’autista: vado per conto mio. A casa? Esco dal cancello e sulla strada accelero senza capire dove voglio andare. Percorro un tratto della periferia che mi è del tutto estraneo. Ripeto a me stessa: a casa? d’istinto imbuco l’ingresso di un centro commerciale. Il parcheggio è semivuoto. Sono finalmente sola e lontana da tutto e da tutti. Ho dimenticato le sigarette sulla scrivania, quel pacchetto prezioso appena aperto con le sue 19 sigarette. Ne sento ancora il sapore dolciastro, adescatore.

Sono quasi sei mesi che ho smesso, ora ne ho bisogno. Cosa faccio? Nello specchietto il volto è quello di un’altra. Però lo sgomento che mi sta assalendo è mio. Per un passato sepolto da altri passati. Oggi col primo consiglio d’amministrazione dopo la pausa estiva, sono impreparata per quel passato che balza fuori dalla prima pagina. Un nome e una data: Stephan Becker, 1945.

L’anno della mia nascita.

Minaccioso il cielo si abbassa sotto il peso di involucri neri carichi di pioggia. Il cuore rimbalza fino nei timpani e unisce i colpi con quelli duri sul tetto metallico. L’acqua si spande lungo i finestrini e mi avvolge in una polla amniotica. E io scivolo nel passato…

È sera. Ho letto e riletto: c’è tutto, anche l’inimmaginabile. E questo mi ha fatto volare in un altro mondo, rapito e commosso. Mi ha reso felice, come può essere la felicità quando è mischiata al rimpianto.

Un alterco tra due automobilisti, alle mie spalle, mi riporta nel parcheggio. Faccio il suo numero, Luca chiede subito:

– Dove sei?

– Scusa, avevo il cellulare spento.

– Stai bene?

– Senti Luca, devo partire, mi accompagni?

– Cosa succede, mamma?

– Forse ho bisogno di parlare …

– Con me?

– Anche. Sono un po’ confusa, non posso rinviare.

– Come andiamo?

– In macchina, guideremo un po’ per uno. Ci conto?

Mio figlio mi ha aspettato per cena.

– Hai un esame vicino?

– No.

– Meno male. Ho già troppi sensi di colpa.

– Mamma, ti senti bene? Non mangi?

– Si, no. Non lo so, non ti preoccupare.

– Non è per lavoro, vero?

Gli passo il piatto con l’antipasto. Mi guarda con sospetto.

– No.

– Papà?

– Ma figurati. È una cosa chiusa, lo sai.  So che gli dò un dispiacere.

– Allora?

– È arrivato questo … sta cambiando la mia vita.

– La vita?

– Dentro … e non è finita. Spero non sia tardi.

– Non ti seguo: sei sempre tanto precisa che fai paura … ti vedo strana …

Non riesco a star ferma, non ce la faccio. Luca non mi perde di vista mentre accendo una delle sue sigarette.

– Per il momento lo strano è che fumi. Sbaglio?

– No …

– Hai paura?

– Tanta…è arrivata con questo quaderno…

– E allora?

– Questo viene dopo. Molto dopo. L’inizio di tutto è un altro. Devo cominciare da lì. In punto di morte Olga mi disse: “io non sono la tua vera mamma, ti ho adottato”.Io avevo vent’anni e capivo il senso di quelle parole, ma non la storia che c’era dietro. Olga continuò a parlare e così appresi che i miei genitori naturali, una coppia di ebrei tedeschi, erano stati deportati ad Auschwitz, dove non sopravvissero. Il loro nome era Becker … al grande dolore per la morte di Olga che si spense senza darmi la possibilità di sapere di più, seguì un forte desiderio di conoscere la verità sui miei genitori, sulla loro fine. E non solo.

– Che parenti avevi?

– Nessuno, Olga era svizzera, di Lugano.

– Papà lo conoscevi?

– Filavo con tuo padre, conosciuto all’università. La facoltà di lettere era vicina alla sua. Lui era più grande e faceva biologia. Stava sempre con quelli del collettivo. È stato un caso perché io non lo frequentavo. Dopo il funerale, quando gli chiesi se mi accompagnava ad Auschwitz, non fece una piega. Per i giovani di sinistra il pellegrinaggio negli inferni nazisti era un omaggio ai principi dell’antifascismo e alle sue vittime. In cambio avrei frequentato la sezione del partito. Ne fu felice.

La berlina guidata da Luca prende la 22 del Brennero mentre albeggia.

Io sento salire l’ansia su quella strada che mi condurrà nel cuore della Germania e oltre.

Anche allora mi accompagnava un giovane sicuro di sé … in un treno che attraversava le Alpi Dolomitiche. Rivedo tutto …

Io e Michele guardiamo fuori il paesaggio che incupisce, si fa nordico. E tra le ombre degli abeti racchiude sinistri presagi. Scivolo tra le sue braccia, cerco protezione.

È un viaggio lunghissimo, attraverso tre frontiere, coi passaporti e visti sempre in mano. Ci guardano perfino nelle tasche. In un’Europa piena di barriere.

Essere lì non mi pare vero. Le immagini dello sterminio non le associo al colore dei mattoni, agli spazi tra i blocchi, a quel cielo azzurro e tanto luminoso ritagliato sopra i tetti. C’è un odore dolciastro di fieno che un temporale ha inzuppato e tirato su. C’è un fermento nell’aria che sa di vita. Sono illusioni per negare il passato. Cerco di escludere la morte, mi aggrappo alla vita. Sono sulle tracce dei miei genitori ma non voglio trovarle: lì dentro significano morte. Non voglio arrivare davanti alla tomba di mio padre e di mia madre. Noto tra le baracche, in fondo alla striscia di fango, un alto reticolato con uno squarcio. E se fossero riusciti a fuggire? Scampati al lager e al sicuro in Israele? Forse ho una sorella o un fratello laggiù. Forse. … La voce della guida chiama improvvisa mentre resto indietro:

“Signori! Se state più vicini sentite meglio. Da questa parte … ecco qui venivano consegnati tutti gli oggetti personali … vedete là quel mucchio di valige, borse, scatole, cestini…e poi spazzole, pettini, cappelli, berretti, guanti, occhiali … in questa corsia si dovevano spogliare di tutto … vedete quella montagna di scarpe …se state più vicini mi sentite meglio …”

Entriamo nell’ultima stazione dell’orrendo calvario:

“In questo blocco ci sono le docce…la porta stagna veniva chiusa dall’esterno…lassù si vedono i tubi del gas…niente acqua, usavano il CICLON-B…che in pochi secondi produceva il suo effetto mortale … “

– Troppo pochi ne hanno impiccati a Norimberga! Troppo pochi! – Sbotta Michele e la sua protesta scatta impotente contro le volte della corsia:

– Se penso a quanti ce ne sono ancora in giro …

Mi volto e incrocio sguardi allarmati verso noi due. Artiglio il suo gomito perché taccia.

– Cosa c’è Luca, perché mi guardi?

– Papà aveva ragione.

– Certo, certo … Non occorre essere comunisti per volere giustizia.

Mio figlio annuisce convinto.

Io ne ho abbastanza. Non ce la faccio più: vorrei fuggire, fuggire, fuggire …

Michele mi indica l’edificio dove si trova l’archivio. Siamo venuti apposta e me ne stavo dimenticando. Mi asciugo gli occhi mentre seguo l’impiegata che controlla gli elenchi dei deportati.

– Non ci sono tutti, naturalmente. Di molti si sono persi il nome e qualunque traccia … Ha detto Becker?

– Stephan Becker.

– No, qui non risulta. Né Becker, né Beker, né Becher…Lei si chiama come?

– No, non è il mio nome, ma cerchiamo il signore e la signora Becker …

Ci guarda diffidente:

– Non è nemmeno un cognome ebreo.

Michele:

– Ne è sicura?

– Non saprei, mi sembra … E il nome della moglie?

– Non lo sappiamo. Se non può aiutarci, lasci stare.

La donna, dall’alto del suo metrottanta, ha una smorfia di fastidio:

– Sentite, altri lager meno affollati e più piccoli erano organizzati meglio. Qui negli uffici eravamo troppo pochi. Capisce?

Guardo l’anziana donna, i suoi capelli tirati sulla nuca, in ordine, biondi perché biondi restano finché muoiono con lei. Anche volendo non avrei la forza di prenderla per il collo. Mi prende la nausea. Ho un senso di mancamento. Michele mi accompagna fuori. Hanno acceso i lampioni e non c’è più odore di fieno. Il cielo è violaceo, i muri delle baracche e le reti di filo spinato reclamano la loro inviolabilità: nessuno è mai riuscito a fuggire.

– Quando sono arrivati i russi qualcuno era vivo. Mi conforta Michele.

Sono sorpresa dalla sua voce: per un attimo mi dà speranza.

– C’è sempre Ginevra. Non è mia l’idea. La virago ha detto provate lì, alla croce rossa. C’è un importante centro di documentazione per civili morti e dispersi in guerra.

– Sarà un’altra odissea nel dolore.

– Dobbiamo andarci. Se torniamo a Firenze ti prende l’ossessione. Ti conosco.

– E se piantassimo tutto?

Michele sa fare anche la faccia molto cattiva.

Non lontano dagli edifici dell’Onu, nella parte alta della città affacciata sul grande lago, troviamo l’ufficio. Entriamo sperando di non aver fatto un viaggio a vuoto, anche perché sembra davvero la nostra ultima possibilità. Ma al “Centro Dispersi” non troviamo tracce dei coniugi Becker: niente negli elenchi dei lager, niente tra i cittadini tedeschi dati per dispersi.

– Non ci restava che salire su un treno per l’Italia.

– Eri molto delusa? – chiede Luca.

– Forse, non triste. In fondo tutto tornava come prima della partenza. Mi sarei dovuta accontentare di una parte di verità: quella di Olga. Ricominciare da lì. Tornare all’università come se niente fosse e studiare le lingue e prendermi la laurea. C’era da decidere se restare nel grande appartamento che mi aveva lasciato e dove ero cresciuta, o venderlo e tagliare col passato.

Luca – Sarei nato in ospedale invece che in quella casa, uscito a sorpresa, come mi hai sempre detto…

Scherzando – dico – Volevi nascere lì, in casa di Olga, per questo hai anticipato.

– Volevi liberarti di me, dì la verità, all’università senza il pancione, sbaglio?

– Il pancione l’ho amato tanto, me lo tenevo stretto, mi ci aggrappavo.

– Non ti seguo. Dimmi del treno. Siete tornati a Bologna a mani vuote…

– Non è andata così.

– E come? Vai avanti, non ti fermare. Ho preso da te, non mi accontento delle mezze verità.

– Anch’io, non sono come credi, Luca.

– Adesso ci fermiamo e mi racconti tutto.

– Sei stanco?

– Per niente.

– Non ti fermare. Dammi una sigaretta, ti prego …

Nel momento in cui l’impiegato svizzero ci dice che non c’è niente da fare, mi accendo una sigaretta. Voglio tirare per le lunghe, non so bene, Michele sta salutando. L’impiegato si volta d’improvviso per farmi segno che è proibito. Nel girarsi alcuni faldoni sono scivolati sul pavimento. Lo aiutiamo a raccoglierli mentre lui impreca visibilmente innervosito. Li rimette a posto, poi cambia idea e uno lo appoggia sul bancone: “Orfani”, c’è scritto. Scioglie i tre fiocchetti che lo stringono e mette un dito sulla lettera B.

E salta fuori una scheda a nome Becker: sono di fronte al mio atto di nascita. Lui legge il nome, facendomi pesare la fortuna che la mia maleducazione non si era meritata. Gira la scheda e me la mette sotto gli occhi. È tutto scritto a macchina, a chiare lettere:

Hannele Becker, nata nella clinica di Steinhöring, il 30 marzo 1945.

 femmina di razza ariana

matricola 0276

poi affidata alla cittadina svizzera Olga Cornara (Lugano, via Belvedere ovest n.32)

di religione cattolica, che ne ha ottenuto l’adozione. 

Sono paralizzata dall’emozione. Sento la voce di Michele:

– C’è scritto ariana?

– Vuol dire non ebrea – precisa l’impiegato.

– Contenta?

– Non è così semplice. Non capisco.

– Olga ti ha detto una piccola bugia.

– Ma perché?

– Non so, forse per nasconderti qualcosa…

Guardo l’impiegato:

– Cos’è la clinica di Stein? Stein?

L’uomo si è fatto sospettoso, laconico:

– Steinhöring credo sia una piccola città della Westfalia, una volta c’erano le terme.

– Una città termale?

– Negli anni Quaranta divenne famosa per un’altra ragione: lì c’era una clinica della “Lebensborn”

– Cos’è?

– Lebensborn significa “sorgente di vita”.

Scuote la testa e non vuol aggiungere altro. Michele tira fuori la sua carta geografica e lo costringe a indicargli la cittadina tedesca. Io afferro la scheda e corro verso l’uscita. L’uomo strepita alle mie spalle. Scendo un piano. Quello strepita dietro. Sulla porta sono bloccata da un usciere in divisa da poliziotto. Insieme all’impiegato mi costringono a consegnargli il documento. Scoppio in lacrime e non sento più niente. Michele mostra il suo passaporto e spiega la mia emotività. Io fuggo in strada.

Corro alla pensione. Michele mi trova sul letto, la testa a capofitto nel cuscino, in lacrime.

– Perché mi ha mentito?

– Va bene, sarai figlia di tedeschi, lo sapevi già…non è detto che …

– Cos’è questa Lebensborn?

– Forse i tuoi erano prigionieri, scelti per qualche esperimento e poi fatti sparire. Ecco perché ad Auschwitz non risultano.

– C’è scritto ariana, Olga m’ha detto ebrei … perché?

– Cerchiamo di ragionare: forse voleva fuorviarti, non si capisce, però adesso … secondo me …

Non ascolto le sue congetture. Mi guardo allo specchio: e io chi sono?

Michele si avvicina:

– Ariana, ebrea, per me non cambia niente.

Mi bacia sul collo. Non mi va. Lo guardo incerta:

– Cosa si fa?

– Andiamo a Lebensborn.

– E se scopriamo…

– Cosa?

– Una cosa peggiore?

– Si va avanti. Non puoi mollare. Sento che ci avviciniamo alla verità. Bisogna tentare.

– Ho paura.

– Se molli non avresti pace per tutta la vita, te l’ho già detto. E poi, tu vuoi sapere.

Michele tiene duro.

– Gli devo molto, sai.

– Ti voleva bene, voleva aiutarti. Te ne vuole ancora.

– Ti prego. Lascia stare.

Il giorno dopo siamo nel cuore della Germania. Dal camion che ci ha dato un passaggio saltiamo a terra. Un’insegna ha appena annunciato che ci troviamo a Steinhöring. Il viale alberato è leggermente in salita, dietro alle cime annerite dal buio che incombe, scorgo i pinnacoli in stile goticheggiante. Sembra un edificio maestoso che incute una sensazione funesta. Voltiamo per una strada laterale, deserta: Lohengrin Strasse. Mi aggrappo al braccio di Michele mentre controlliamo il numero civico: corrisponde alla clinica. Tremo. Il passo carrabile è bloccato da un grande cancello. Una metà è socchiusa, come se fossimo attesi.

Ci inoltriamo lungo il viale sotto la luce di alcuni esangui lampioni. Le finestre del tetro edificio sono spente. A fianco del portone c’è una campanella col tirante. Vorrei trattenere Michele, ma la campanella sbatacchia assordante. Torna il silenzio e risponde un fruscio di grandi rami sopra di noi. Michele batte sulla porta alcuni colpi. Attraverso lo spioncino all’improvviso appare il volto di un vecchio irritato:

– Ist geschlossen!

– Scusi, cosa è … questo?

– Ah, italiani … – E ci punta una luce contro.

– Bitte, cos’essere questa casa?

– Casa bambini orfani, senza papà, mamma. Adesso non essere nessuno.

– E prima?

– Cosa?

– Prima, durante la guerra … Krieg …

– Una clinica.

Michele mi guarda. Non capisco. Gli tende una banconota. Ma il vecchio fa per chiudere. Michele blocca con una mano lo sportello:

– Bitte, ein Moment, bitte … Ich Student  … è per la mia tesi su Hitler, si, insomma sulla genetica … die Geburt Studien … al tempo del Terzo Reich, quando c’era ordine, quando le cose funzionavano qui nella grande Germania …

Io aggiungo con tutto il sorriso che mi viene:

– Ci aiuti, Herr … bitte …

Appare perplesso il vecchio, diffidente. Scuote il capo:

– Oggi voi giovani matti. Niente educati. In dopoguerra qui tutto cambiato.

– La prego ci faccia entrare un momento – riesco a trattenere le lacrime.

Lui mi guarda, gli sorrido implorante.

– C’è un medico, dottor Hartung, lui sapere tutta organizzazione. Ha fatto sette anni in prigione, ma non so perché … i francesi lo hanno arrestato e messo in prigione: non giusto … abita in città, ma non dite che ho detto io.

Un uomo sulla settantina, l’occhio destro spalancato dietro il monocolo, ci scruta dalla carrozzella. Sembra un rispettabile borghese di Grosz a cui manca il colletto inamidato. La pelle del volto è rosa, i capelli ancora biondi. Con i suoi chili di troppo sembra fatto di marzapane. I movimenti delle mani un po’ studiati, ma agili, quasi effeminati. Accanto ha una distinta e austera signora, di qualche anno più vecchia, la chioma raccolta in una retìna in tinta. Al collo, un nastro nero tiene un medaglione con le violette. Vogliono capire.

Lui mostra il passaporto alla signora che me lo restituisce:

– Firenze, città unica al mondo. Un gioiello del vostro rinascimento. In questo secolo gli italiani sono un’altra cosa, ma avete un genio della chirurgia ortopedica. Io l’ho visto operare: un maestro, il tocco delle sue dita è unico. E voi cosa studiate?

– Biologia e genetica. Sono convinto che studiare l’organizzazione tedesca in fatto di razze, anche se quei metodi oggi possono sembrare superati e inapplicabili … insomma sia basilare per i miei studi universitari. Oggi la genetica fa passi da gigante, ma anche le esperienze del passato non vanno dimenticate. Nei testi non se ne parla abbastanza, per questo sono venuto da lei …

– E lei, mein Fräulein?

– Lingue: lettere moderne.

– Tedesco?

– Naturale. Tedesco e francese: le lingue della Svizzera.

– Curioso, posso sapere perché?

– È che … mia madre era di Lugano. Città svizzera.

– Voi sempre neutrali. Non avete avuto la guerra.

– Lo so, siamo stati fortunati.

– Lei nata a Lugano?

Esito a rispondere. Non capisco l’insistenza. Mi sento a disagio. Fortuna che Michele parla per me:

– Dottore, durante la guerra come funzionava la vostra organizzazione?

Finalmente ci fanno sedere. Ricordo il cigolio dei vimini sotto il nostro peso. La signora prende da un cassetto una scatola di legno e la posa sul tavolino accanto al medico. Gli siede a fianco mentre la pendola batte i rintocchi dell’ora: annuncia l’inizio di qualcosa di esclusivo e solenne.

Il dottor Hartung comincia il suo racconto. Ascolto, ma so che sono pronta a tapparmi le orecchie con le cerette che ho nella borsa …

Ricordo che iniziò senza i preamboli sulla filosofia della razza ariana propugnata da filosofi come Rosemberg, eccetera. Lui era un medico ginecologo, responsabile fin dalla prima selezione. L’operazione “Lebensborn” prevedeva accoppiamenti tra giovani dei due sessi, di pura ascendenza ariana, su base volontaria. Il tutto per formare una razza superiore. I candidati, soprattutto le femmine, dovevano sottoporsi ad esami clinici, psicologici, e a valutazioni di ordine politico. I risultati venivano poi vagliati dall’Ufficio per la Razza.

Gli accoppiamenti avvenivano tra giovani selezionati in prevalenza fra SS e ragazze che volevano donare un figlio a Hitler, e avevano luogo in cliniche opportunamente dotate di tutto, perfino di confortevoli ambienti alberghieri, con sale da ballo, salottini, e talvolta da piscine sorridenti nel verde. Per lo più i militari erano in licenza e provenivano dai fronti di combattimento.

Ai neonati veniva assegnato un nome, che i genitori naturali non avrebbero mai conosciuto, e poi affidati a coniugi di provata fede nazista, per crescere sotto il controllo e col sostegno del Terzo Reich.

Alle sue parole seguono i fatti: esibisce un album fotografico e altre fotografie raccolte con un elastico, che commenta con malcelato orgoglio. Vedo graziose ragazze sorridenti attorniate da giovani ufficiali, una sala da ballo col pianoforte a coda, il giardino con una piscina, ombrelloni e sdraie con giovani in costume da bagno, croci uncinate e ritratti di Hitler, che sorveglia paterno, sparsi un po’ ovunque. E poi i battesimi: i neonati tra due SS in alta uniforme. In una foto riconosco il dottor Hartung, giovane e sorridente, nella sua inquietante divisa nera.

Quelle immagini mi ipnotizzano, non le dimenticherò mai. Io potrei essere uno di quei neonati: una figlia per Hitler. Mi tremano le dita. Si è emozionato anche il dottore che subisce un leggero mancamento. Ha la fronte sudata e il colore del volto s’è fatto paonazzo. La visita viene prontamente sospesa dalla signora. Con un’espressione di biasimo ci indica la porta d’uscita, e vedo ancora lo spavento imbarazzato della cameriera accorsa con la medicina.

Luca rompe il silenzio:

– Sembra tutto inventato.

– Quel viaggio l’ho rimosso da anni.

– Posso sapere perché?

– Lo capirai dopo, Luca. Pazienta un po’: ho deciso di non nascondere più niente, a cominciare da me stessa.

– Mi usi…

– Voglio che tu sappia com’è tua madre: nel bene e nel male.

– E questa corsa?

– Doveva cominciare anni fa, mi è mancato il coraggio. Da ieri è diverso … le parole del quaderno sono un fiume in piena, aggiungono l’inimmaginabile …

– Cercherò di seguirti. Ci fermiamo un attimo? Beviamo qualcosa?

– Non c’è tempo.

– Non ti concedi mai niente.

– Guido io se vuoi.

– Tutto nero o tutto bianco, vero?

Ma non c’è polemica nella sua voce. Nemmeno nella mia:

– Lotto contro il tempo.

– Solo per far benzina, allora.

– Grazie.

Usciti dal medico è già sera. Michele cerca un tono scherzoso:

– E se fossero vivi? Due tedeschi maturi, nostalgici, la buonanotte con heil Hitler … meglio scomparsi in qualche lager, ti pare?

– Grazie. Non capisci niente, non puoi capire. Invece noi andiamo.

– Dove?

– Nella clinica.

– Sei matta?

– Non mi dire che hai paura.

– Ci vai sola -. Sentenzia con aria di sfida.

Sul retro dell’edificio troviamo una finestra a piano terra. Michele riesce a forzarla, scavalca e mi tira dentro. Il lampione esterno è dietro ai rami, qui è ancora più buio. Ha una minuscola torcia inserita nella stilografica. In punta di piedi scrutiamo dentro le piccole camerate: vediamo i letti, i materassi piegati, il crocefisso sopra ogni porta. Entriamo in un ampio salone: c’è un pianoforte a coda coperto da un lenzuolo verde che troneggia su un soppalco … Di colpo le luci si accendono dappertutto. Il custode forse ha sentito … Ci nascondiamo nella camerata più vicina tra letti e materassi. Il vecchio cammina col bastone. Restiamo immobili. Si avvicina … no, si allontana. Gira come un’anima in pena. Cerca. Ecco, ha chiuso la finestra. Si allontana. Le luci si spengono. Di nuovo siamo nell’oscurità …

Il respiro di Michele si è fatto regolare: capisco che s’è addormentato. Lo sveglio? Non so cosa fare, ho la testa pesante. Più che la stanchezza è la tensione che si allenta, subentra un gradevole rilassamento. Penso perfino che nel tè del dottore ci fosse una dose di sedativo o di qualche maledetto allucinogeno perché sento indistinta … una musica oltre la parete, dal fondo del corridoio un pianoforte suona un valzer lento, accompagna voci allegre di una festa … Voglio toccare il braccio di Michele ma non riesco perché mi si chiudono gli occhi …  e sogno …

Io, Thea, sto giungendo davanti all’ingresso della clinica con papà e mamma Weiss, i miei genitori. E un custode gentile e premuroso prende la valigetta dalle mie mani. Indosso un leggero vestito di foggia tirolese, stretto in vita, con le mezze maniche a sbuffo e impreziosite dai pizzi, una gonna ampia e vaporosa a losanghe rosse coperta da un grembiule con fiori bianchi su fondo blu. Lo porto come un abito nuziale. Il Führer avrebbe senz’altro approvato, visto che così si vestiva Eva Braun.

Ci fanno aspettare sul terrazzo che dà nel giardino. Ai bordi della piscina due coppie sono distese al sole, un’altra si bacia tra gli alberi del piccolo parco. Tutti sembrano a loro agio mentre sento la voce calda di Zarah Leander, che canta l’amore. Mia madre mi sorride rassicurante, avrà capito che sono intimidita.

Nell’ufficio il dottor Hartung ci accoglie con molta simpatia. Malgrado la sua giovane età legge i documenti col monocolo. Mi sembra buffo, in contrasto con la nera divisa da SS.

– Benvenuta tra noi Thea.

– Grazie, signor dottore.

– Avete davvero una bella figliola.

– Farà la sua parte, siamo certi. Abbiamo dato alla patria anche un giovane soldato. È al fronte.

– Siate orgogliosi.

Mi fissa e provo imbarazzo. Non mi aspettavo un medico così giovane. Spero non voglia visitarmi proprio lui. Mentre sfoglia la pratica dice che sono stata accettata per i risultati ottimi di tutti gli esami: clinici, razziali e politici. E sono illibata. Si complimenta coi miei genitori e li ringrazia a nome del Reich.

L’indomani durante una festicciola, con tartine e champagne, mentre un pianista alterna ballabili sentimentali a marce del partito, un ufficiale decorato con la croce di ferro, mi urta casualmente:

– Scusa, come ti chiami?

Glielo dico.

– Bel nome. Cosa fai qui?

Lo guardo senza capire. M’accorgo che ha bevuto troppo. Ha qualcosa di mio padre quando tornava dalla birreria e picchiava mia madre. Il pensiero mi sconvolge e non so dove guardare. Si avvicina un ufficiale tirato a lucido, una specie di ciambellano, e ci presenta. Il tenente con la croce di ferro è in convalescenza dal fronte russo.

Stranamente, mi sento subito attratta dal giovane pallido, dall’aria inquietante e imprevedibile.

Luca:

– È l’uomo che andiamo a trovare? Quello del sogno?

– È così. Per la ragazza è amore a prima vista. Sa che è contro le regole, ma il cuore non vuole saperne. È turbata, si lascia coinvolgere, cerca di piacergli … rischia …

Usciamo sulla veranda e poi in terrazzo, dove non c’è confusione. Il tenente stringe la bottiglia scolata per metà. È malfermo sulle gambe, aggressivo:

– Perché sei qua?

Non riesco a guardarlo negli occhi:

– Hai la croce di ferro. Congratulazioni…

– Te la regalo…tieni, piccola mia.

– Hai strappato la giacca.

– Hai sentito? Perché sei qua?

Cerco di scherzare:

– Io … non posso fare il soldato!

– Davvero?

– Non al fronte.

– Senti, senti. Ma vuoi servire la patria.

– Sì. Anch’io.

– E fai un figlio per Hitler.

– Se posso.

– Se posso? Hai dei problemi?

– No, scusa, era per dire … spero andare bene …- 

Mi viene da piangere.

Giorni dopo ci chiamano per assistere alla cerimonia dei battesimi. C’è un piccolo altare ricoperto da uno stendardo rosso con la croce uncinata. Ai piedi un cuscino sul quale viene adagiato un neonato frignante. Il dottor Hartung pronuncia una formula di giuramento e di fedeltà al Führer, in nome del neonato. Un fotografo immortala l’evento. Segue una seconda cerimonia, poi i due piccoli, tenuti dalle balie, sono avvicinati alle madri. Le giovani li baciano e vengono allontanate. Una scoppia in singhiozzi. Non vedranno mai più le loro creature.

Il dottor Hartung chiede sorridendo quando potrà visitarmi.

– Credo sia prematuro – si schermisce l’ufficiale.

– Importante che sia un maschietto.

– Un vero soldatino. Sicuro.

Hartung lo fissa insospettito:

– Non ci deluda, tenente. E ricordi: lei è qui per la sua croce di ferro, mi raccomando…non faccia troppi brindisi.

Passano due nurse in divisa e ci lanciano ambigui sorrisi.

Ho finito di fare la doccia. Nella stanza entra il tenente, ubriaco. Mi copro d’istinto.

– Guarda, guarda … giusto in tempo: coricati! Marsch.

A me non resta che subire, sono impacciata, ammutolita.

– No. Non così, voltati-. E mi schiaffeggia le natiche: – niente male come fattrice, sai? – Si sbottona i pantaloni: – Il mio stallone prussiano non saprebbe fare meglio.

Non faccio in tempo a sentirmi disperata perché devo stringere i denti dal dolore.  Provo tanta vergogna.

– Non frignare. C’è sempre una prima volta.

– Scusa…

– Cosa credevi? I bambini si fanno così. Non vorrai l’amore, piccola mia … conosci l’amore? No, non esiste, per questo non ci sarà amore tra noi.

Mi sveglio col cuore in gola da un sogno penoso, da un incubo. Con uno sforzo metto a fuoco la realtà. Michele è ancora lì vicino, lo sento. Cerco di calmarmi e capisco che io ero mia madre. Mi sforzo: no, il nome io non l’ho detto e nessuno l’ha pronunciato. Resta un mistero. Eppure mi è sembrato tutto così vero. Non un sogno, qualcosa di terribilmente vero.

– Ohi, mi sono addormentato … come un fesso …

– Anch’io.

– Tutto a posto?

– Ho sognato mia madre

– Davvero? E com’era?

–  Non lo so, ero io.

-E tuo padre ero io! – esclama sarcastico.

– Non dire cazzate, ti prego.

– Ci prenderanno per ladri. Sloggiamo, dai.

L’indomani Michele non ci sta più. Non c’è nient’altro da trovare. Per lui basta così. Ha una reazione rabbiosa quando gli dico che ho telefonato al medico e che ci aspetta dopo pranzo.

Al dottor Hartung sono costretta a dire la verità sul viaggio: ho scoperto di essere nata in una Lebensborn, questo di Steinhöring, e vorrei rintracciare i miei veri genitori.

L’anziana signora mi condanna con uno sguardo gelido. Per fortuna Hartung sorride, comprensivo. Quasi compiaciuto. Quello che sotto il Terzo Reich era assolutamente proibito, ora è comprensibile e legittimo.

In breve gli racconto quanto ho appreso a Ginevra. Può bastare?

Secondo lui il nome di Hannele Becker sulla scheda della Croce Rossa dovrebbe essere sufficiente. Conosce alcuni camerati che conservano gli elenchi:

– Non prometto niente, cara signorina. Farò il possibile.

L’anziana signora mi porge una tazza col tè. Mi sembra meno diffidente, quasi gentile. Hartung sorride:

– Quando la guardo, mein Fräulein, penso che Lebensborn ha saputo dare frutti pregiati, vero Hannele?

– Hannele?

– Pardon, lei oggi si chiama…Ah, sì, dimenticavo: “Nina”.

– Immagino che tu, zia, sia d’accordo, vero?

La signora appare compiaciuta, dunque è la zia. Chissà perché avevo pensato che non ci potesse essere posto per una moglie. Con tutte le giovani di Lebensborn come poteva esserci posto per una moglie?

Arrivo di corsa alla pensione. La stanza non è chiusa a chiave ma non trovo nessuno. Sfilo via la giacca perché mi sento accaldata. Sul lavabo trovo un biglietto:

“torno a Bologna. Michele”.

Corro alla finestra come una stupida, l’apro e lì rimango inerte verso la piccola strada deserta. Sono distrutta: non sopporto l’idea di essere abbandonata. Oggi come ieri. Dai miei genitori, da Olga, adesso da lui. Resto in piedi non so quanto, sento l’aria nei capelli, dentro la camicetta nella piega dei seni c’è il sudore della corsa. Chiudo gli occhi e respiro profondamente. Qualcuno fischia là fuori. Da una veranda in costruzione un muratore mi sorride e si masturba. Guardo sbigottita e con uno strattone chiudo la tenda. Non trattengo più le lacrime. Resto lì in piedi, sola, offesa. Penso che il mio viaggio in Germania è finito. Tradita da Michele.

– Papà è sempre stato comunista. Come sopportare dei vecchi nazi?

– Ha dimostrato poca sensibilità.

– Solo condizionato dalla sua ideologia.

– Lascia stare: prima mi spinge alla ricerca, poi mi pianta fregandosene.

– Pensava che potevi cavartela.

– Il colmo è che in quel momento ero convinta di non avere paraocchi, pregiudizi del genere … invece ci sono cascata in pieno.

La tenda della finestra resta chiusa per il resto del giorno e della notte. L’indomani torno dal dottore.

– Di tua madre non siamo riusciti a sapere niente.

Adesso mi dà del tu, come se fosse un vecchio amico di famiglia. O mi ha adottato?

– E chi è?

– Si chiama Thea Weiss. Una giovane che stava coi suoi.

– Thea?

– Un bel nome. Non sono sicuro di ricordarla, ma se tu le somigli, allora era lei: timida e molto graziosa. Educata. E dire che aveva due genitori salumieri, che si erano arricchiti con la borsa nera. Molto grossolani.

– È viva? – Penso al nome di una dea, mi piace.

– Si sono perse le tracce. Invece ho buone notizie di tuo padre: si chiama Stephan Becker. È un valoroso ufficiale, distintosi sul fronte orientale, tanto da meritarsi la croce di ferro. Abita ad Augsburg e vive appartato. Non incontra neanche i suoi vecchi camerati … è diventato un po’ strano … beh, sarai contenta. Lo posso avvertire, se vuoi.

Mi sento svenire e taccio. La zia mi guarda spazientita, con aria di rimprovero:

– Il dottore si è premurato per lei, mein Fräulein. Tanto.

– Grazie di cuore. – Sorrido a entrambi.

– Ha uno strano hobby, forse è qualcosa di più, visto che la sua collezione è di valore internazionale.

– Collezione?

– Può essere fiera di lui.

Penso di avere un’aria cretina, ne sono sicura.

– Il capitano Becker colleziona farfalle. È famoso.

Li prego di non avvisarlo. Voglio fargli una sorpresa.

– È meglio senza il suo amico – precisa Hartung.

– Certo. Andrò sola. Sicuro.

Il treno è pieno di pendolari. Chi legge, chi fuma e parla a bassa voce, un tedesco fitto e non capisco niente. Ho solo i miei pensieri. Salta fuori di nuovo Michele. Sto facendo senza di lui e ne sono orgogliosa. Gli mando molti accidenti. Quel viaggio verso Augsburg sta finendo e sono meno sicura. La collezione di farfalle è lo scopo della mia visita e ho ricevuto l’appuntamento senza problemi. Come faccio? Sto per arrivare dove volevo. Continuo la commedia? Poi un pensiero folle: e se il dottore m’ha tradita. Ci teneva che il nostro incontro non andasse in fumo. Non ha detto che il ricongiungimento non sono più proibiti? Che anzi, come nel mio caso, ne vale assolutamente la pena? Hartung ha grande ammirazione per la croce di ferro. Io in fondo appartenevo a quella croce di ferro: come tutte le violenze, i feriti, le miserie, i morti su cui era stata conficcata.

Le gambe hanno continuato a camminare e mi hanno condotto lì e quello di fronte dev’essere il portone. Se non ricordo male tra i pensieri c’era anche quello assurdo che ero arrivata a casa.

Fu in quel preciso momento che decisi di salire.

L’appartamento dà un’impressione di solidità ed è tirato a lucido. Il pavimento scuro ha la cera. Mi chiude la porta alle spalle con un sorriso cordiale. Sono contenta che sia comparso subito lui. Forse il dottore non ha davvero telefonato. Lui appare tranquillo, io sento le ginocchia molli. Si muove con l’aiuto di un bastone e mi fa accomodare nel salotto:

– Così lei lavora per una rivista universitaria?

– Si, vengo per la sua famosa collezione … da Bologna …

– Ah … Bologna …

– Naturalmente se vorrà.

– Ma prego … si accomodi.

Lui siede di fronte e ci osserviamo. Noto sul volto armonioso un impercettibile turbamento. Indugia un attimo:

– Certo che voglio. Non immagina quanto ne sia felice.

Alle pareti scorgo alcune vetrine con splendidi e variopinti esemplari di farfalle. Nature crudelmente mummificate. Non so come cominciare. Temo di scrutarlo troppo, e vorrei leggergli dentro. Mi scuso per non aver chiesto l’appuntamento con un certo anticipo. Non sembra dar peso alla forma. Taccio e guardo verso le farfalle.

Io sono scesa dal treno e non so da che parte iniziare. Ho alle spalle un romanzo interrotto. Come continua? Non sono l’autrice. Qualcosa deve succedere, forse basta poco perché la pausa sta diventando lunga e insopportabile. Dalle farfalle guardo di nuovo lui che sorride come per tranquillizzarmi.

– Gradisce un caffè?

– Non saprei.

– Io credo di sì. Ci metterò pochissimo.

Si è chiuso la porta alle spalle. Sono sola. Cerco di riordinare il mio respiro. Ma è un gioco ingannevole: non riesco a distendermi. Vorrei non essere lì. Guardo di nuovo le farfalle che dalla poltrona sembrano coriandoli, macchie di colori puntiformi. Io non so niente delle farfalle e del loro mondo. Belle, delicate, misteriosissime. Farò scena muta, è lui che deve dirmi tutto. Lo voglio ancora? Mi alzo con gli occhi puntati sopra il caminetto. Sento lo sguardo paralizzato mentre mi avvicino e metto a fuoco una macchia bianca e nera. Non è una farfalla. Nella cornice d’argento c’è la fotografia di un neonato su un cuscino, tra due SS, ai piedi di un altare sovrastato dal ritratto di Hitler. Prendo in mano la cornice: è la prova del mio marchio di fabbrica. La prova che io sono un prodotto di laboratorio, di una copulazione programmata. Messa in mostra lì sopra il caminetto mi sembra un’esibizione crudele e sfacciata. È il segno di chi va ancora fiero del suo contributo dato a un dittatore paranoico e sanguinario, un fiore appena sbocciato e delicato messo tra le fauci dell’orco, un frutto di razza superiore, un’ariana extra. Altro che due polverosi e amorevoli ebrei finiti in qualche lager del Grande Reich, briciole di ossa e grumi di sangue per l’insaziabile e delirante urgenza di vittime sacrificali.

Questo mi aveva detto mamma Olga in punto di morte. Questo mi aveva fatto credere. Ora capisco perché quella pietosa e crudele bugia.

Il mio volto attonito, pietrificato nello specchio al di sopra del caminetto, col mento quasi appoggiato alla piccola cornice, sigilla una realtà senza scampo. Oggi non sogno.

Non c’è nessun risveglio.

Becker si ferma nel corridoio col caffè e indugia. Dal beccuccio della caffettiera bianca fuma un profumo amaro. L’uomo indeciso si volta verso la porta della cucina sulla quale una figura femminile gli fa cenno di proseguire.

Dal salotto gli giunge il rumore di qualcosa che s’è infranto. Ma lì nel salotto non c’è più nessuno. Posa il caffè ed entra veloce nel corridoio dell’ingresso: la porta di casa è ancora aperta, la strada vuota. Ci penserà la donna di casa a chiuderla, perché lui è di nuovo in salotto, immobile, come folgorato, sul pavimento davanti al caminetto c’è il ritratto in frantumi.

Facciamo benzina a pochi chilometri da Augsburg. Accendo una sigaretta e il benzinaio mi rimprovera col dito a bacchetta: hier Verboten. Luca gli fa segno di non esagerare e quello si arrabbia e ne dice di tutti i colori. In fondo ha ragione, però con un’aria troppo antipatica.

Finalmente accendo. Si profilano le luci della città. Dico che in quel momento ero giunta alle conclusioni peggiori. Tutto mi appariva chiaro: mio padre era un nazista, un SS. Uno che di sicuro aveva combattuto fino alla fine, un fanatico come tutti quelli che avrebbero continuato a uccidere e a farsi ammazzare perfino qualche minuto dopo la firma della capitolazione.

Così era stato per non pochi. Anche per chi mi aveva generato e abbandonata. Sacrificata ad un Vaterland divenuto un onnivoro Moloch, con inumano, assurdo fanatismo. Che aveva mollato mia madre tra le braccia di chissà chi. Forse avevo un fratello o una sorella da qualche parte: due padri, stessa madre. E nel dopoguerra, senza pagare per i suoi crimini, aveva centellinato la sua ferocia infilzando, con maniacale delicatezza, decine di povere e stupende farfalle. Miracoli della natura immolati al suo piacere.

– Capisci, Luca, perché sono scappata?

– Cos’altro potevi fare?

– Cos’altro, dimmelo – Insorgo.

– Ma niente, mamma.

– No, dimmelo. Perdonare?

– Difficile.

– E allora, cos’altro?

– Stai …  sta tranquilla.

– Facile, oggi. Per te è facile dire cos’altro potevo fare…

– Guarda che non ho detto niente.

– Ma lo pensi.

– No … ma no!

– Te lo dico io cos’altro potevo fare: potevo rischiare. Aspettarlo che tornasse col caffè e ascoltarlo. Fingere interesse per la collezione e restare in attesa. Non ho avuto la forza. L’idea d’amore che pensavo di sentire per il sangue del mio sangue, era svanita. L’idea di provare amore per mio padre è apparsa all’improvviso ridicola. E sono fuggita. Ho messo una pietra tombale sulle farfalle e il loro collezionista. Lì in quella casa c’era la morte. Io mi reclamavo fuori, nella vita …

Tornai a Firenze e corsi da Michele perché aveva ragione lui. Gli dissi che avevo trovato quello che non avrei mai voluto trovare: ero figlia di un nazista, di un SS. Mi ero trovata faccia a faccia con mio padre e non mi ero dichiarata. Un padre che se in un lager c’era stato, lo fu dalla parte dei carnefici. Ecco il bel risultato di tante peripezie nel cuore d’Europa. Piansi, mio malgrado.

Gli proposi di sposarci subito, se mi voleva ancora.

Luca:

– E papà?

– Non disse nulla. Cominciò a portarmi in sezione. Dopo un paio di mesi eravamo in municipio. Ricordo che dovetti lottare un sacco per indossare qualcosa che somigliasse a un vestito bianco.

– Ho visto le fotografie. Fatti l’uno per l’altra – sorride Luca un po’ triste.

La città comincia a venirci incontro coi sobborghi di casette ordinate, coi tetti aguzzi, verso l’imbrunire.

Le ultime parole di Luca: fatti l’uno per l’altra, non erano veritiere.

Un giorno avevo scoperto che, frequentando l’università di Milano dove aveva ottenuto un incarico, Michele mi tradiva con una studentessa. Fu la prima, poi credo un’altra. Mi sentivo umiliata e piena di rabbia. E fu ancora peggio quando mi accorsi che Luca aveva capito. Era ancora piccolo, ma con una sensibilità acuta nel leggere l’animo altrui. Con Michele un giorno nacque una discussione violenta. Rifiutavo i particolari penosi con cui cercava di minimizzare i pettegolezzi sul suo conto. Non riusciva a negare, era bravo a tergiversare. Io gli dissi che poteva cercarsi un’altra casa. Fui irremovibile. D’un tratto non lo amavo più. Mandai tutta la sua roba in un deposito: libri, vestiti, tutto quanto gli apparteneva. Cambiai le chiavi di casa. Mio figlio, al ritorno dal college inglese, avrebbe capito. Se ne sarebbe fatta una ragione, dal momento che non avevo altra scelta.

Luca rompe il silenzio:

– Perché hai chiesto che venissi con te?

– Voglio che tu mi conosca: il passato, il presente. Che non ti succeda come a me con mamma Olga … no, non ti allarmare. Devi sapere tutto quanto c’è da sapere e alla fine non avrai sorprese … Tra me e mio padre è successo qualcosa di terribile, se qualcuno ha sbagliato, sono io … Michele non c’entra.

Luca appare sorpreso, guida in silenzio. Entriamo in città. Gli lancio un’occhiata e mi prende un brivido: il suo profilo non è di Michele … un brivido misto a tenerezza … ha un naso piccolo come quello di mio padre … lo ricordo bene il volto del collezionista.

Alla reception dell’ospedale chiedo di Stephan Becker. L’impiegata con la cuffietta bianca e l’aria sospettosa mi avverte che solo i parenti più stretti a quell’ora possono entrare nel reparto di neurologia. Le mie parole dicono che sono sua figlia. La voce trema perché la donna mi guarda con un cenno poco convinto.

Nel corridoio dell’ultimo piano, una signora anziana mi viene incontro come se aspettasse me. È Frau Ilse, che mi ha inviato il quaderno. Sorride:

– Willkommen ad Augsburg, ero certa che sarebbe venuta subito.

– Lui come sta?

– Venga.

Mi precede nella sala di rianimazione, un reparto aperto dove amici e familiari possono stare vicini ai pazienti. La seguo verso uno dei letti speciali immersi in una giungla di apparecchiature, di fili e di tubicini. La donna rallenta. E io lo vedo. Vedo Stephan Becker per la seconda volta in vita mia. Rivedo mio padre dopo tanti anni. Non sembra troppo invecchiato. È alimentato artificialmente. La cannula dell’ossigeno gli allarga una narice, ma solo perché le sue sono piccole per uno della sua statura. Resto in piedi a guardarlo. Immobile. È come se non ne avessi diritto. Riesco a non piangere.

Ilse sottovoce:

– È cominciato dal braccio. Non lo sentiva più. Aveva tanto mal di testa. È andato tutto molto in fretta.

– Cosa dicono i medici?

– Adesso lui non riconosce. Bisogna aspettare.

Un’infermiera si avvicina per i controlli. Usciamo nel corridoio. Luca è sempre lì, nella saletta d’attesa. Mi ha vista. Non si muove.

Frau Ilse:

– Dopo la sua telefonata mi sono permessa di prenotare un hotel. Non sapevo di suo figlio. Ma adesso avverto io. Va bene? Io vado a casa. Sa dove trovarmi.

– Non saprei.

– Il capitano ha sempre lo stesso indirizzo.

– Ma certo, mi scusi, Frau Becker.

– Wunder. Frau Wunder, ma può chiamarmi Ilse. Non siamo sposati. La memoria della povera Thea è sempre stata troppo forte, io credo.

Ho certo l’aria confusa e un po’ sciocca.

– Sono la sua governante, da tanti anni. Quando lei fuggì dalla casa, io la vidi dalla finestra … lei attraversava la strada di corsa. Credevo che il capitano volesse chiamarla, così mi era sembrato. Lui l’aspettava.

– E come?

– Fu il dottor Hartung a informarlo.

– Dovevo immaginarlo…

– Sarebbe cambiato qualche cosa?

– No. Ha ragione.

– Il capitano la guardò e non aprì la finestra. Disse solo: “Mi ha giudicato, devo rispettarla.”  Lui la ama profondamente.

Siamo arrivate all’ascensore. Luca dalla vetrata mi sta interrogando. Anche Frau Ilse mi guarda mentre si apre la porta automatica.

Scuoto il capo:

– Grazie. Se non le dispiace io resto un po’.

Ormai è notte e il reparto sembra caduto in letargo. So benissimo che a metà del corridoio, nella ipertecnologica saletta di controllo, le infermiere vegliano davanti ai monitor di ogni singolo paziente. In ciascuno di quei letti un essere umano, più o meno cosciente, è appeso alla vita per un invisibile filo teso. Anche Becker ha il suo e non so quanto resisterà. Raggiungo Luca nel salottino:

– Ho visto mio padre. È molto grave.

– Abbiamo fatto in tempo.

– Non riconosce più.

– Soffre?

– Sai che non l’ho chiesto. Non lo so, non credo. Chi può dirlo?

– Tu sai sempre tutto. Dov’è il bianco e dove il nero.

– Luca ti prego, non adesso. Non in questo momento, ti pare?

– È che non riesco ancora a vederti … non so abituarmi all’idea che tu possa essere: umana? Fragile? Non sicura di te? Vedi, non trovo nemmeno la parola giusta. Niente … scusa davvero.

– Ti dispiace se restiamo ancora?

– Seguo la rotta.

– Ho bisogno di stargli vicino.

– Giusto.

– Se hai pazienza ti dirò qualcos’altro.

– Mi hai tirato dentro. Ho diritto di capire.

– In quel momento lo condannai. La fotografia piena di svastiche mi aveva messo il panico. Non potevo ammettere che mio padre fosse un SS. Invece era solo la prova che io ero davvero nata, che ero esistita.

– Quando l’hai capito?

– C’è voluto questo.

– Cos’è?

– Il suo quaderno di memorie. Parla del tempo di guerra: scelte, pensieri … tutto.

Lui non si era mai iscritto al partito, ma voleva combattere per la sua patria, come era nella tradizione prussiana di una famiglia di ufficiali. Andò volontario e combatté sul fronte russo. Era in fanteria e gli toccò di fare anche lavori sporchi. Aveva comandato dei plotoni contro civili sospettati di dare riparo a unità partigiane che, specie dopo Stalingrado, uccidevano molti tedeschi. A volte ha dovuto tirare il colpo di grazia. Furono eliminati anche civili, uomini, donne e bambini, per il sospetto che fossero ebrei. Non solo le SS ma anche quelli della Wehrmacht non avevano sempre onorato la divisa.

Becker era rimasto scioccato e disgustato da simili rappresaglie.

Un giorno nel condurre un attacco per liberare dei commilitoni intrappolati, fu ferito ad una gamba. Venne salvato e operato. Convalescente e insignito della “croce di ferro”, aveva accettato una licenza in Baviera, per non tornare in Ucraina. Un modo per dissociarsi da altre mattanze, per cercare di vincere il suo profondo malessere. Un ufficiale reclutatore agli ordini di Himmler gli propose di partecipare al programma di Lebensborn. Significava un onore insolito per chi non apparteneva alle SS. Becker accettò e questo mi trasse in inganno.

– E cioè?

– Fu la mia prova che era un SS. Allora, quando sono fuggita, non avevo nessun dubbio. Non cerco attenuanti, ma era logico pensarlo.

– Dimmi di lui.

– Ti ho raccontato come si erano incontrati e conosciuti.

Becker avvertì come un boomerang la violenza usata sulla ragazza. Ne fu disgustato. Continuò a ubriacarsi ma non ci furono altri rapporti. Dormivano nella stessa camera. I due si trovavano nel medesimo ingranaggio e non sapevano come uscirne. Thea aveva continue crisi di pianto convinta di non piacere. Di averlo deluso sessualmente. Lui doveva aspettare un esito che non voleva. Intuiva che la giovane aveva preso un’infatuazione, si rendeva conto che il suo era un bluff senza via d’uscita, per di più pericoloso. Temendo che le crisi di pianto fossero scoperte dal personale, disse a Thea che la trovava molto bella, ma che lui non si sentiva più di partecipare al programma, che si era pentito di aver accettato. La ragazza, malgrado la gentilezza di Becker, trovò incomprensibili quei discorsi, e fu sempre più smarrita.

Becker venne informato che il reggimento si era spostato sul fronte occidentale: raggiungerlo, a quel punto, sarebbe stato per lui il male minore, tanto più che stava terminando la convalescenza.

E un giorno accadde l’imprevedibile. Un test di gravidanza, fatto secondo il protocollo a intervalli di tempo, tolse i due partner dall’imbarazzo. Contro ogni loro aspettativa Thea risultava incinta.

Dopo una visita ginecologica il dottor Hartung si complimentò con entrambi.

Thea scoppiò in lacrime di gioia per essere riuscita a dare un figlio al Fuhrer.

Venne abbracciata dal dottore, che non dimenticò di alzare il calice inneggiando al buon sangue della razza e all’immancabile vittoria del grande Reich.

In realtà Thea piangeva di disperazione. Stava perdendo Becker, come avrebbe perso per sempre, di lì a nove mesi, il suo bambino. Lei era soltanto una fonte di vita, com’era chiamata Lebensborn. E una lapide nell’ambulatorio di Hartung, firmata da Heinrich Himmler, recitava che “Sacra ci sia ogni madre di buon sangue”.

– Evviva le tue fonti di vita

– Non sono mai stata brava in storia, ma so che nel ‘44 le sorti erano decise…

– Tuo padre e tua madre se ne rendevano conto?

– Becker sì, lo scrive. È tutto nel suo diario: il maresciallo Rommel si era suicidato … l’attentato a Hitler aveva dato un segnale preciso anche se non condiviso da tutti i tedeschi … molti ufficiali e soldati non volevano proseguire una guerra sempre più sanguinosa, soprattutto per i civili … eppure Thea stava fabbricando un bambino per donarlo al dittatore … hai ragione Luca, era una follia. Era segno che l’ideologia nazista e la sua propaganda incantavano ancora, sia le anime belle, sia quelle nere e perdute nell’abominio ….

Il furgone bianco e rosso dei salumieri Weiss giunse in anticipo, per riportarsi a casa la figlia. Il dottor Hartung consegnò loro solennemente una pergamena, quale attestato di benemerenza verso il Terzo Reich. Raccomandò loro di sorvegliare sulla ragazza con particolare cura, risparmiandole qualunque sforzo fisico o altro che potesse nuocere alla sua condizione di gestante “sacra”. Intimoriti ma orgogliosi, i due Weiss non stavano nella pelle. Da parte della madre di Thea ci fu un tentativo, bloccato sul nascere, di abbracciare il dottore. E verso Becker, che non vedeva l’ora di andarsene, sguardi di allusivo e imbarazzante compiacimento, a cui volle aggiungere i complimenti della sua sezione di partito.

Se fu penoso per Becker, il loro addio fu doloroso per Thea. Per lei avvenne nel peggior modo possibile: sotto gli occhi di tutti. La poverina faticava a non lasciarsi andare ad un pianto disperato. Inutilmente aveva cercato di appartarsi per qualche attimo con l’uomo di cui era perdutamente innamorata, che non avrebbe più rivisto. Costretta a salire sul furgone con l’animo straziato, poco la consolò sapere che nel ventre portava il frutto di quella sua passione inattesa. Anzi l’idea le procurava maggior sgomento: un figlio, suo figlio, già destinato a esserle portato via.

Finché Thea si sentì mancare e svenne, mentre il padre fermava la macchina spaventato. Il brav’uomo pensò che fosse il principio della gravidanza o il mal d’auto. Fatto sta che i due genitori si misero a litigare. Il padre voleva tornare alla clinica, la madre si vergognava di fare brutta figura e non sentiva ragione. Nel frattempo la figlia riaprì gli occhi pieni di lacrime. E allora il furgone si rimise in moto e proseguì.

Appena tornata a casa, la famiglia Weiss venne funestata da una terribile notizia: il loro Hansi, il fratellino di Thea di soli 17 anni, era caduto in combattimento sul fronte orientale. Il ricordo di quel ragazzo intrepido e mite, che allietava la casa col suo spirito ironico che tanto inorgogliva la sorella e che sovente i suoi genitori non afferravano nel verso giusto, da subito era parsa atroce e insopportabile. Anche papà e mamma Weiss piansero, ma si fecero forza e accesero una candela, in risposta a quella spietata mina sovietica. Come era inutile ormai il ritratto a colori di Adolf Hitler che sovrastava quello della sua vittima imberbe.

Thea visse male l’assurda ingiustizia. Spense la radio che continuava a vaticinare la vittoria finale. Non condivideva coi genitori più alcuna speranza. Non riusciva a trattenere il suo dissenso per quanto stava accadendo, per una guerra che andava sempre peggio, che sembrava non volere mai finire.

E l’attentato a Hitler venne vissuto in casa Weiss in modo schizofrenico. Produsse tensione e rivolta nella ragazza che annunciò di volersi tenere il bambino tutto per sé. All’enormità di quell’inaudito proposito la madre replicò con un violento ceffone. Thea si rifugiò in camera, disperata, e cominciò a rifiutare il cibo. Non scese per i pasti. Non toccò quelli che suo padre, di nascosto, metteva davanti alla porta.

Il distributore automatico rilascia con un tonfo la lattina d’aranciata. Luca l’apre con mossa energica e beve a canna. Io finisco di vuotare il caffè e getto il bicchierino nel cestello. Il piano della neurologia sembra isolato dal mondo.

– E l’ufficiale? – chiede Luca

– Mio padre?

– Sì. Cosa ne è stato?

– È una lunga incredibile storia.

– Ti ascolto …

Si annunciava un inverno molto freddo, uno dei peggiori per la popolazione civile, se non il peggiore di tutta la guerra.

Becker aveva raggiunto il proprio reggimento sul fronte occidentale. Ritrovò i suoi uomini che lo accolsero con sincero slancio cameratesco, e altri ufficiali che non avevano avuto un momento di tregua, che dal fronte russo erano stati spostati a ovest, a fronteggiare gli alleati. Forse una manovra inconcludente, un ordine da Berlino che non ammetteva discussioni. E la scelta strategica era stata vissuta dalla maggioranza dei militari con grande stanchezza. Si chiedevano quale fosse ormai il significato della “guerra totale” voluta dalla suprema guida del Reich. Cosa significasse frenare l’avanzata degli occidentali, quando da est l’armata rossa stava penetrando a fondo nel corpo della nazione, quando l’amato Vaterland veniva così sanguinosamente violato. Cosa ci si dovesse attendere dalle mirabolanti armi segrete di cui si mormorava sempre più nei corridoi della cancelleria.

Del modo in cui poter salvare la popolazione tedesca da un galoppante e inarrestabile crepuscolo degli dei, in realtà un massacro, di questo parlava Becker con gli altri ufficiali, durante le rare tregue e quando veniva distribuita la posta. Un giorno la sua compagnia ebbe il cambio e, in attesa di ripartire per un impossibile contrattacco, lasciò la prima linea e si ritirò nei ripari vicino al comando del battaglione. Per il tenente Shilling, giovane architetto, che in Russia riuscì a salvare la pelle grazie all’eroica azione di Becker, quello fu un giorno fortunato. Chi aveva ricevuto una lettera si era appartato e chino sul foglio leggeva nella speranza di un sollievo, di una parola cara.

La testa di Shilling, coi suoi capelli biondi, sussultò improvvisa davanti alla parete di fango, e la sua voce gioiosa giunse a Becker che se lo vide addosso con un balzo. Era diventato padre il suo amico Shilling. Era incontenibile la gioia per quel primo figlio. Becker si trovò tra le braccia del camerata che ridendo cercava di sollevarlo, come se il padre da festeggiare fosse lui.

Quando gli uomini nel riparo si furono addormentati e mentre giungeva da nord, filtrando nella nebbia, solo il rombo inesausto delle artiglierie, Becker pensò alla ragazza.  Ne fu sorpreso, lui per primo. Come se riguardasse un altro. Non capiva, era turbato. Un attimo dopo però lo seppe: rivederla. Non sapeva se il futuro iniziava dalla ragazza. Ma senza Thea per lui non c’era futuro. Perciò doveva rivederla. Un’idea nitida, perforante come un acuto di violino. E si addormentò pensando che doveva farlo, ad ogni costo. Ora aveva trovato un senso stare al fronte, perfino nel fango gelato di un riparo precario, insieme al suo reggimento pronto a marciare verso la disfatta.

Un controllo ginecologico ricondusse Thea alla clinica. Suo padre l’attendeva fuori, nel furgone. Thea era intimamente angosciata da un sentimento ormai radicato: tenersi il bambino. Lo sentiva muoversi dentro di sé, lo accarezzava, gli parlava. Mentre attendeva la visita ne accennò timidamente a Wally, l’anziana infermiera. Fu rimproverata aspramente per aver pensato una cosa impensabile, assolutamente proibita:

– Sei diventata matta?

– Prima volevo, ma…

– Niente capricci, ragazza. Tu hai giurato.

– Lo so, è che lo sento… mi parla…

– Ho detto, niente capricci: intesi? E adesso basta, tocca a te.

Con la visita sembrò tutto a posto. Il dottor Hartung si complimentò e le dette un nuovo appuntamento.

Durante la pausa del pranzo, Thea riuscì a introdursi di nascosto nell’ufficio dell’amministrazione dov’era custodito l’archivio. Dallo schedario dei “donatori” alla lettera B sfilò alcune schede e trovò quella di Becker. Annotò il reparto di appartenenza e i corrispondenti codici militari per il servizio postale.

Fu una Thea sorridente che uscì dalla clinica e che bussò al padre addormentato nel furgone. Disse che tutto procedeva per il meglio ed era felice. E il padre:

– Farai felice la tua famiglia. Andremo orgogliosi di te. In paese già tutti mi chiedono, vogliono sapere. So quanto il povero Hansi sarebbe stato entusiasta. Il tuo bambino lo sostituirà… non nei nostri cuori, ma al servizio del Fuhrer. Brava Thea.

La lettera arrivò nelle mani giuste. Anche il tenente Becker ebbe la posta: una busta martoriata da tratti di matita rossi e blu e da indecifrabili timbri militari.

Il pensiero della ragazza era un po’ arruffato sotto l’impulso di sentimenti appassionati, intrecciati a dubbi di ogni sorta. Non sapeva come fare col nascituro, cui non voleva   rinunciare. “… Un bambino anche tuo: ricordi? “Quello che lo sorprese ancor più fu l’appello finale: di stare attento, di non farsi uccidere come suo fratello Hansi. Perché il bambino avrebbe reclamato il padre. E concludeva:

“ti prego con tutta l’anima, Stephan, resta vivo.”

Fu la lettera che spinse Becker a chiedere una licenza di 48 ore. E a requisire l’auto.

La casa dei Weiss faceva parte di una manciata di edifici alla periferia della piccola città. C’era qualche impresa commerciale, un magazzino agricolo, la salumeria con il laboratorio e annessa l’abitazione. La sera tutto appariva deserto e buio salvo le luci dei Weiss, che dopo le dieci spegnevano anche loro. Qualche convoglio militare di passaggio sulla vicina provinciale era l’unica aggressione alla quiete del posto.

Becker giunse nel tardo pomeriggio. Trovò Thea nel laboratorio, intenta a fare l’inventario insieme al padre. La ragazza fu presa da tale emozione che lasciò cadere il registro e per poco non svenne. Becker salutò il signor Weiss con piglio militaresco per nascondere l’emozione. Il salumiere festeggiò l’ufficiale, disse di sentirsi molto lusingato per la visita. Notando i gradi di capitano, si congratulò con lui. Sopraggiunse in quello un conoscente di Weiss che doveva discutere un ordinativo per clienti di riguardo.

Nei pochi minuti in cui i due giovani restarono soli, senza orecchie e occhi indiscreti, si dissero tutto. Più delle parole parlarono gli sguardi. Lui era venuto a cercarla e i suoi occhi dicevano che l’aveva trovata. Le sussurrò:

– Dove possiamo vederci?

Thea sbirciava verso il padre che stava concludendo.

Sembrava non osare rispondere.

– C’è un albergo?

– Gasthof zur Post.

– Ti aspetto lì.

La porta della salumeria si spalancò e comparve la signora Weiss con una pila di strofinacci puliti e stirati. Nel vedere l’ufficiale non stava più nella pelle.  Aveva notato l’auto militare e aveva pensato ad un cliente insolito, il vivandiere di un generale, mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte Becker. Il quale non riuscì a sottrarsi all’abbraccio dell’invadente matrona e ai suoi effluvi verbali. Il signor Weiss nell’accompagnare alla porta il cliente gli additò di sottecchi l’ufficiale per dimostrargli che aveva buone frequentazioni.

Becker volle allontanare il minimo sospetto:

-Devo raggiungere il mio reggimento-, Rivolto ai genitori: – Spero che un giorno mi farete sapere.

– Il dottore dice che tutto va per il meglio. Mia figlia è una ragazza piena di salute.

– Nostra figlia, Inge.

– Ma certo Joseph, certo. Se permette, signor capitano, sarà un bellissimo bambino.

– Un maschio? Magari, Inge…

– Ma sicuro Joseph, lei darà al Reich un maschio, vero? piccola mia

La figlia era sulle spine. Desiderava tanto una bacchetta magica per far sparire di colpo i due genitori. Non sapeva cosa dire. Fu il capitano a interrompere i vaniloqui dei Weiss, in modo solenne:

– Si è fatto tardi. Devo tornare al reparto. Faccio gli auguri più sinceri alla signorina Thea, auguri –se posso dire- nazionalsocialisti. E mi complimento con il papà e la mamma per il loro contributo alla causa. So che hanno avuto una perdita tragica e dolorosa: le mie più sentite condoglianze. Heil Hitler.

Dopo altri interminabili convenevoli, durante i quali Becker non riuscì a rifiutare un pacco di salsicce, la visita ebbe fine. Egli vide i due Weiss nello specchietto retrovisore che salutavano col braccio alzato e Thea, poco dietro con la mano sulla fronte per ripararsi gli occhi dall’ultimo sole. Non riuscì a vedere l’espressione del volto. La conosceva già.

Nella stanza al primo piano della pensione, Becker guardò per l’ennesima volta l’orologio. Si alzò dal letto e andò alla finestra che ormai era buio e non si vedeva nessuno. Le notti si erano fatte molto fredde e nella stanza la stufa di ghisa aveva consumato la legna e si andava spegnendo. Becker si versò la grappa e vuotò d’un fiato due volte di seguito il minuscolo calice. La bottiglia era mezza vuota. Un fruscio oltre la porta lo fece trasalire. Restò immobile. Si avvicinò, ascoltò un istante, poi aprì di scatto. Nello spiraglio, la figura di Thea spaventata ed esitante.

– Hai fatto tardi.

– Ho dovuto aspettare, sarei venuta a qualunque costo.

–  Abbiamo perso metà del tempo.

– Ma sono qua – gli sorrise timida – devo aspettare fuori?

– Perdonami.

La ragazza lo sfiorò, portando con sé aria gelida, di lavanda. Becker chiuse la porta a chiave.

– Avevo paura che non venissi più.

– Ho contato i minuti da quando sei salito in macchina. Hai pensato…

– Non più. Ora non più.

– Si sta bene qui.

– Prima faceva freddo.

Becker prende la bottiglia della grappa e la vuota nel lavandino.

– Adesso non c’è più bisogno.

Bastò il primo bacio per cancellare Lebensborn e tutto quanto fuori dalle pareti della stanza.

Nina appare commossa.

Qui le memorie di Becker si fanno più incerte e allusive. I due amanti si saranno   scambiate parole piene di ardore, facili da immaginare, difficili da ripetere. Parole uscite dalle labbra di Stephan che scopriva adesso il suo amore per la ragazza, e altre parole rimaste nel cuore di Thea per mesi, fin dai giorni di Lebensborn.

Da come si svolsero i fatti in seguito si capisce che in quella notte i due giovani, superando di slancio ansie e preoccupazioni, misero d’accordo i loro cuori e giurarono, l’uno all’altro, gareggiando in folli progetti, che avrebbero tenuto il bambino. Non c’era ancora un piano, niente. C’erano i baci sul grembo cresciuto di Thea e le carezze sui bianchi seni, profumati di latte, già rassodati e gonfi, pieni di promesse. C’era l’eccitazione che sembrava non aver fine.

E verso l’alba, senza che il sonno si fosse insinuato nei loro corpi, Thea si tolse dalle braccia di Stephan per rivestirsi, con lacrime agli occhi che erano gocce di gioia.

Ai primi del 1944, nel pieno di un inverno nevoso e crudele, ci fu un violento scontro a fuoco, devastante per entrambe le forze in campo, tanto da lasciare senza fiato i due avversari. Ma i tedeschi, per mancanza di carburante non erano riusciti a contrattaccare coi panzer e gli americani avevano così conquistato un’importante testa di ponte.

Nel gelido silenzio di morte che seguì gli scontri a fuoco, Becker giunse finalmente nei pressi delle retrovie con un’autocolonna di cisterne cariche di carburante. Era maledettamente in ritardo, solo perché il carico gli era stato consegnato oltre l’ora prevista.

Lo scacco subito dalle forze tedesche mandò su tutte le furie Hitler. E da Berlino venne l’ordine di un’azione punitiva esemplare. Se ne dovevano incaricare le SS.

I neri figuri con le icone della morte incise sull’uniforme, puntarono le Maschinenpistole contro sette ufficiali del battaglione: li disarmarono e li arrestarono. Un fienile poco distante fu improvvisato tribunale, in un sommario processo per tradimento.

Becker riconobbe fra i condannati l’amico Shilling. Lo vide passare insieme agli altri. Cercò di non abbandonarlo. Ma gli fu impedito di entrare. Da una finestra frantumata vide la chioma bionda del giovane padre, immobile mentre ascoltava la sentenza a morte.

Dietro il fienile, contro il muro di una concimaia i sette traditori furono abbattuti con alcune raffiche. Seguì un colpo di grazia. E il bambino di Shilling in quell’istante fu reso orfano.

Quel giorno Becker, inorridito da tanta cieca follia, decise di rompere il suo giuramento al supremo capo della Wehrmacht. Amava il suo popolo e avrebbe lottato per impedire che altri fiumi di sangue tedesco fossero sacrificati inutilmente.

I salumieri Weiss avevano caricato fin dove possibile il furgone con ogni genere alimentare: oltre ai loro appetitosi e nutrienti insaccati, avevano provveduto allo zucchero, alla farina, al burro in vaschette speciali per una migliore conservazione; non mancava il latte condensato, il cioccolato fondente della migliore qualità, il pane nero in cassetta scambiato col magazziniere della Flack, una batteria contraerea poco distante. E Herr Weiss volle assicurarsi una cassetta di bottiglie di grappa: sei di vinaccia e sei di prugna. Per un’adeguata riserva di birra non aveva ancora trovato la soluzione adatta, ma ci stava pensando.

Thea, col progredire della gravidanza, recuperava sorprendenti energie.

Mentalmente passava e ripassava il piano deciso con Becker, ma non trovava nessun punto debole. Sbrigava le faccende di casa e teneva i conti della salumeria canticchiando, e in quei tragici giorni lei sembrava felice. Il suo buon umore non era sfuggito alla madre, e nemmeno al signor Weiss, che ne trassero lieti auspici.

In realtà Thea era riuscita fino a quel momento a nascondere il suo vero cruccio: come liberarsi al momento giusto dei genitori. Essi infatti non avevano fatto mistero di volersi allontanare da casa, puntando verso la Selva Nera e la Svizzera, subito dopo il parto. Naturalmente con la gloriosa donatrice e tutto il restante ben di Dio.

Una mattina presto papà e mamma Weiss partirono col furgoncino per andare a prendere mezzo maiale da un contadino. Dovevano attraversare un territorio boscoso e alcune zone abitate dove era possibile incappare nella gendarmeria. C’erano multe salatissime e perfino la galera per chi macellava senza permesso. Presero strade secondarie e poco controllate. Sarebbero tornati a sera.

Thea sapeva dove tenevano i soldi e li prese dai vasi di farmacia allineati sopra la credenza. Poi lasciò cadere i vasi mandandoli in pezzi. Aprì i cassetti e rovesciò in terra il contenuto.  Lo stesso fece in altre stanze. Ruppe da fuori il vetro di una finestra e l’aprì lasciandola spalancata. Rientrò in casa, si mise in testa un fazzoletto marrone, indossò un cappotto dello stesso colore, guardò bene l’ora, poi uscì, prese la bicicletta e filò verso il paese cercando di non dare nell’occhio. Dopo cinque minuti esatti appoggiò la bicicletta al muro posteriore della chiesa, quello che dava sul cimitero.  Tolse la sporta di vimini dal manubrio, vide che nel viottolo non c’era anima viva ed entrò alla spicciolata nella canonica.

Durante le indagini che la polizia iniziò quella stessa sera dopo la denuncia dei Weiss, il parroco confermò il racconto di Thea che gli aveva portato delle salsicce. I Weiss stessi, avendo qualcosa da nascondere dettero della loro assenza una versione diversa. Così gli inquirenti finirono per sospettare alcuni prigionieri russi, impiegati con scarsa sorveglianza, in lavori agricoli pesanti. E anche altri, tra i quali alcuni mongoli, intenti alla sostituzione di numerose traversine di legno sulla linea ferroviaria a ridosso della stazione.

I prigionieri furono caricati su un autocarro della Wehrmacht e portati via. I Weiss non recuperarono il denaro perché nessuno lo trovò e se ne fecero una ragione togliendo non visti il maiale dal furgone e lavorandolo per tutta la notte. E la stessa Thea in quella circostanza dette una mano con insolita allegria e operosità.

Nina apre la porta che dà sulla piattaforma della scala di sicurezza e accende la sigaretta. Aspira alcune volte a pieni polmoni, presa da un brivido di freddo. Lo stomaco le brucia già per conto suo. Un’ultima boccata per tenersi il sapore dentro. Un amico ritrovato, ormai difficile da tradire. A malincuore schiaccia la sigaretta contro il pavimento metallico e rientra.

– Dimostrò un coraggio impensabile – commenta Luca ammirato

– Amava. Imparò a lottare.

– E tuo padre?

– Non era da meno. Furono giorni di confusione, di sbandamento, non per loro due. Anzi seppero approfittarne. Le memorie a questo punto sono meno dettagliate, quasi reticenti. Sembra che Becker si sia spostato al di fuori della sua zona, dribblando la polizia militare che abbatteva i disertori sul posto. Si unì ad altri tedeschi per abbreviare la guerra col sabotaggio dei carburanti.

– E Thea?

– Ci fu un altro incontro

– Per fuggire?

– Lei aveva i soldi, lui l’auto che era riuscito a farsi assegnare … No, non per fuggire, non in quel momento. Lui disse che era meglio se partoriva a Lebensborn, per muoversi subito dopo.

– Rischiavano tutto.

– Si sono amati rischiando in ogni istante. Io mai, né con mio padre né con tuo padre.

-Vuoi sentirti in colpa?

– A Michele non ho concesso appelli. L’ho cacciato di casa. Ma questa è un’altra storia.

Becker entrò in contatto con elementi della resistenza appena giunse la notizia che il maresciallo Model, battuto nella Ruhr, si era suicidato. Era stato il suo eroico comandante in capo, Becker lo stimava molto. Becker e gli altri sapevano che occorreva neutralizzare le SS, soprattutto le forze corazzate, confluite nella zona per tentare un disperato contrattacco. E sapevano che senza carburante i panzer sono morti.

Thea era tornata nella clinica con la scusa di un controllo. I suoi genitori erano rimasti a casa per sorvegliare le scorte di viveri. In realtà Thea voleva corrompere Wally. L’anziana infermiera era da tempo preoccupata per la propria sorte.  Di fronte alla borsa piena di marchi la sua fede nazionalsocialista vacillò. Prima disse di no che non poteva, poi disse che in un caso così speciale forse poteva chiudere un occhio, infine li chiuse tutti e due: insomma, avrebbe aiutato Thea a tenersi il bambino, secondo un piano concordato.

Rimasto ancora intatto, il viadotto ferroviario era l’unica via di comunicazione per il carburante necessario ai Tigre. Becker riuscì a sapere l’orario del convoglio, che per evitare gli attacchi dal cielo sarebbe transitato di notte. Senza farsi prendere dagli inevitabili scrupoli per le vittime tra il personale viaggiante, negli ultimi tempi formato da SS, gli uomini della resistenza entrarono in azione.

Andarono a piazzare decine di cariche esplosive sui piloni del viadotto.

In quello stesso momento Thea entrava in sala parto con doglie molto violente. Fino a quel momento era stata assistita da Wally che riferì al medico un imprevisto. Hartung controllò e cominciò a sudare freddo. Il quadro clinico si presentava inaspettatamente complicato. Il feto aveva assunto una posizione meno favorevole. Si era mosso e si presentava dalla parte dei piedi. Per evitare ulteriori complicazioni, soprattutto per il nascituro, Hartung decise il taglio cesareo. La povera Thea era arrivata al limite di sopportazione e fu necessario affrettare l’intervento dell’anestesista.

La bambina venne estratta in buone condizioni e apparve subito molto vivace.

Thea l’amò subito infinitamente, mentre Hartung ebbe un moto di disappunto perché quella creatura non sarebbe mai stata un soldato di Hitler.

Al primo calar delle tenebre, a duecento chilometri, il viadotto saltava in aria insieme al lungo convoglio, facendo esplodere le tonnellate di carburante, in un immane rogo, alto nella notte.

Thea fece in tempo ad accordarsi con Wally su come prendersi la bambina al momento opportuno, prima che i Weiss piombassero nella clinica per riportare a casa la figlia. E così Becker, tramite l’infermiera, poté mettersi in contatto con Thea.

Le truppe alleate avevano passato il Reno e la loro avanzata sul fronte occidentale pareva inarrestabile. Era giunto il momento di mettere in salvo Thea e sottrarre la bambina al destino di Lebensborn, ormai imprevedibile, ma sicuramente infausto.

I Weiss dal canto loro avevano deciso di abbandonare la casa, forse perché la fanatica adesione al nazismo li esponeva a possibili rappresaglie o piuttosto per paura che tutto il loro tesoro fosse confiscato dalle truppe nemiche. Così decisero di cercare rifugio da un fratello della moglie, che aveva la fattoria in una località remota nella Selva Nera.

Luca sembra incredulo: – E lui come trovò Thea?

Nina: – All’inizio furono fortunati. Non era tutto definito nei dettagli.

– E i pericoli?

– Avevano coraggio, passione. Si giocavano tutto. Lui fissò l’appuntamento.

Si accordarono con l’infermiera, su cui erano sicuri perché Wally avrebbe preso il resto del denaro solo al momento in cui faceva uscire la bambina.

Per non farsi coinvolgere dai genitori, durante la notte Thea si allontanò con la bicicletta. Prese la strada per la cittadina di G. a pochi chilometri da Steinhöring. Lì, alla stazione ferroviaria, avrebbe incontrato il suo uomo, e insieme sarebbero andati a Lebensborn. Lei, Becker e la bambina, finalmente insieme con la guerra agli sgoccioli. Mentre pedalava nel buio della notte, rischiando di venire travolta da mezzi militari allo sbando, Thea sentiva che il peggio era alle spalle, che una nuova vita stava iniziando. Per questo, malgrado la fatica e il freddo, le speranze affioravano sulle labbra socchiuse da un sorriso.

Il mattino di quel primo maggio venne salutato da un sole radioso. Il cielo era nitido e luminoso. I tigli allungavano i loro rami già carichi sul viale che conduceva alla stazione. Becker fermò l’auto militare un centinaio di metri prima, per non dare nell’occhio e parcheggiò dietro un autocarro abbandonato e privo di ruote.

All’interno della stazione la confusione era alimentata dall’incertezza e dal panico. L’altoparlante annunciava treni per poi smentirli pochi minuti dopo. Tutti volevano partire nella speranza di raggiungere qualcuno o qualche posto dove sentirsi sicuri. Ma erano speranze vane perché il Reich era ormai nella morsa finale: da occidente era sopraffatto dall’avanzata degli anglo-francesi, da oriente veniva artigliato dall’armata rossa e dalla sua sete di vendetta.

Restava forse il sud, ma dove?  All’improvviso gli altoparlanti tacquero. Come d’incanto salì l’onda delle sirene. Ne nacque un parapiglia perché tutti correvano verso un riparo che non c’era.

Becker, che non si era mosso dal primo marciapiede, vide Thea sbucare sul terzo, nella speranza di trovarlo lì. Becker alzò le braccia, lei finalmente lo scorse, capì che doveva raggiungerlo verso l’uscita. Pochi binari li separavano. Il cielo si riempì di sibili. Thea cominciò a correre verso il sottopassaggio ma le bombe arrivarono prima. Un paio di esplosioni distrussero la pensilina, seminando la morte.

Quando Becker riuscì a raggiungerla, strinse tra le braccia un corpo straziato, con un ultimo soffio di vita.

Nina ha gli occhi lucidi:

– Le ultime parole di mia madre furono per me, perché fossi strappata a Lebensborn…

– E Becker?

– Uscì illeso da quell’ultimo bombardamento sulla Germania

– La guerra non era finita?

– Da qualche parte si firmava la resa incondizionata, ma non tutti lo sapevano e c’erano gli irriducibili.

La campagna era in tutto il suo incantato splendore primaverile, nel pieno rispetto del solenne mutare delle stagioni, lontana dagli orrori degli uomini. Il verde degli abeti gareggiava con quello cangiante dei prati dove l’erba incolta era già alta.

Da una parte giunse un uomo solo, con l’animo colmo di tristezza e di speranza. Da un’altra erano appostati uomini armati fino ai denti, col teschio lucente sopra la fronte.

Becker fu intercettato sulla strada di campagna verso Steinhöring. Non riuscì a dare spiegazioni. Sembrò un disertore e le SS decisero di fucilarlo sul posto. L’angelo del cielo aveva le ali di uno Spitfire che sorvolò all’improvviso e mitragliò a bassa quota sull’ingiustizia che si stava compiendo. Il caccia seminò morte lungo duecento metri prima di rialzarsi e scomparire nel cielo. Becker, salvo ma sanguinante ad una gamba, riuscì a trascinarsi verso il bosco: non giunse mai alla clinica.

Nella cittadina entrarono per prime le truppe francesi senza conflitti a fuoco. Presero possesso della clinica che esibiva le insegne del nazismo. Vi trovarono un nido d’infanzia con una dozzina di bambini accuditi da un’unica infermiera: Wally. Fu lei che li aveva tenuti in vita dopo che medici e personale erano spariti, che non aveva avuto il coraggio di abbandonarli. O forse aspettava i soldi di Thea.

La croce rossa si occupò dei piccoli:

– Tra questi c’ero io, Hannele. Ne ebbi conferma a Ginevra.

– E Becker? – Chiede Luca.

– Fu soccorso da un vecchio veterinario, al quale disse del caccia inglese. Fu curato, fornito di abiti civili. Rimase nascosto finché le armi non tacquero del tutto … lui mi vide solo anni dopo, quando lo incontrai qui a casa sua.

– E non ti ha cercata?

– Ha rispettato la mia volontà, in silenzio.

– Lo hai frainteso. Succede.

–  L’ho capito solo adesso.

-Ma non potevi – afferma Luca assolutorio.

– Non è vero. Ho giudicato troppo in fretta. Ero piena di pregiudizi e paura. Niente scusanti. Quella fotografia assurda, così gelosamente custodita, perfino le farfalle mi avevano messo fuori strada: un nazista raffinato, non era il primo … lui non si dette mai a Hitler. Lo seppi troppo tardi.

Dalla vetrata un’infermiera ci fa dei cenni.

– Non possiamo restare.

– Un momento, Luca.

Attraverso in punta di piedi il corridoio, entro nell’anticamera della morte. Le macchine lo tengono in vita. So che non me lo daranno vivo. Sul dorso della mano, pulsa la vena gonfia di flebo. È il suo cuore che batte. La tocco con le labbra: è tiepida. Chiudo gli occhi. Sento lì la sua vita: ma non posso chiedergli perdono. Posso solo condividere quell’attimo di vita.

Qualcuno mi conduce fuori.

Penso alla Wunder e riaccendo il cellulare. Spunta un messaggio. Richiamo la segretaria. C’è una riunione importante l’indomani. Ha ragione, è davvero importante, ma non potrò esserci:

– Dica a Corsetti che lo delego, basta che segua il protocollo, e che siano tutti tranquilli.

Spiego a Luca:

– Non sono abituati senza di me.

– Certe cose non accadono da sole.

– Vuoi dire?

– Ma niente, a volte condizioniamo senza volerlo. È un discorso che non so nemmeno io, poco più di sensazioni …

Il cellulare non dà tregua, perché non l’ho spento? È Corsetti. Si scusa per l’ora: crede di non aver capito. Dico che invece ha capito benissimo. È così. Non posso fare sempre tutto. Che impari a condividere certe responsabilità. Cerco di essere persuasiva, gentile. Lui ringrazia per la fiducia con la voce impostata. Chiudo. La sua ambizione è premiata, e a me non importa niente. Largo ai giovani. Sono sollevata. Qualcosa mi ha irritato, lo sento. Ma non ho tempo di riflettere. Ho vicino mio figlio.

– Per chi ha scritto il diario? – Chiede Luca.

– Le memorie – preciso pignola.

– Per te?

– Ha cominciato a scrivere il giorno in cui l’ho trovato e sono fuggita. Come avrai capito c’è tutto quello che devo sapere. È una lunga lettera a sua figlia. Credo l’abbia fatto soprattutto per Thea: una grande storia d’amore.

Il crematorio che sta portandosi via le spoglie di mio padre mi riporta al primo viaggio in Germania e su fino ad Auschwitz. Mi chiedo se non fosse stata una profezia. Adesso, tanti anni dopo, davvero si consuma il rito inceneritore.

Appoggio il quaderno ai suoi piedi, prima che il forno risucchi la salma, mentre le fiamme bluastre sbuffano ai lati i loro mille gradi dell’apocalisse.

Il caso è chiuso. La verità saldamente custodita nel cuore. Dopo che l’apertura del quaderno l’aveva colmato di pene d’amore.

Mi lascio alle spalle il cimitero senza le ceneri che mi vengono negate e prendo la via del ritorno. Confusa e allo stesso tempo rasserenata. Si è consumato il rito della catarsi. Interamente? Non so darmi risposta. Ho decantato i sensi di colpa verso un padre ritrovato quando già l’avevo perduto. La consapevolezza è più forte del rimpianto, così posso forse uscire dalla disperazione. Sono una donna abbastanza adulta per privarmi della dignità rimastami.

L’auto mi riporta verso l’Italia, verso un altro uomo importante. Chiedo a Luca il numero. Io l’ho dimenticato, volutamente. Luca capisce, forse non aspettava altro, e si ferma alla prima stazione di servizio. Michele mi ha fatto del male e io l’ho messo alla porta. L’ho giudicato senza appello, come Becker e le sue farfalle. Il mio senso di colpa è insopportabile. Michele saprà la verità, è il minimo che devo a mio padre. Allora, fuggendo a quel modo da Augsburg, mi ero giustificata che l’SS aveva solo cambiato il pelo. Con elegante mimetismo. Ero corsa tra le sue braccia per dimenticare il mostro che mi aveva generato.

Preferisco il telefono del parcheggio. Vedo la cabina. Una donna tiene per mano una bimbetta irrequieta, mentre lei parla, e parla. Aspetto sempre più nervosa, come se lui in quei minuti mi sfuggisse per sempre. Il suo numero l’ho segnato per la prima volta. È in tempo? Lo stomaco mi fa male. Ho la sigaretta, ma non da accendere. Finalmente:

– Sono io…

– Nina! – È davvero sincero.

– Sono in Germania. Torno domani. Volevo…

– Si?

– Disturbo? – Sono confusa.

– No, perché?

– Hai gente?

– È Fulvia, ha portato la sua roba.

Non fiato. Ho la gola secca. Lui è generoso:

– Come stai?

– Lavoro.

– Sei diventata un pezzo grosso.

– Esagerano. – Sorrido per minimizzare, cancellarmi.

– Hai fatto bene a chiamare. L’avrei fatto io.

– Ah, sì, davvero?

– Per il divorzio avevi ragione. È la scelta migliore.

Basta per svenire? Certo che no:

– Ne abbiamo già parlato.

– … Bene … fissiamo un appuntamento?

Abbiamo superato il Brennero e guido la macchina verso sud, stanca e rilassata. Spero di arrivare a casa prima di notte. Ho bisogno della mia tana. Nel paese del sole ho il sole negli occhi. A tratti mi accieca, ma non quanto la paura della verità. A pensarci non fui vittima di un pregiudizio ideologico. Fu la mia incapacità a farmi fuggire. La paura fu più forte dell’amore. Avevo escluso che i tradimenti di Michele dipendessero da me. Avevo escluso l’incapacità ad essere una buona compagna. Avevo giudicato senza appelli. Non ricordo esattamente le ultime parole nella cabina. So che Michele l’ho perso per sempre.

Dò un’occhiata a Luca che s’è addormentato: è quanto resta della mia famiglia.  Non ho capito come mi giudica. Ma non importa, ora no. Lo amo tanto e rischierò la vita per lui, se occorre. Non so più chi l’ha scritto: non c’è vero amore senza rischio. E penso a mia madre e al suo coraggio.

Sotto una pioggia battente, il furgone dei Weiss percorre la strada verso la frontiera svizzera. Al volante Becker, al suo fianco Thea. In mezzo, un cestello a mo’ di culla con Hannele.

All’improvviso si profila un posto di blocco. I due si danno un’occhiata muta e disperata. Devono rischiare il tutto per tutto. Thea prende la neonata e la stringe a sé. Becker, in prossimità delle SS che intimano l’alt, finge di rallentare, poi dà tutto gas e sfonda i cavalletti. Quando i militari fanno fuoco il furgone è ormai lontano e fila verso un futuro migliore, con i suoi fuggitivi illesi e anelanti alla libertà. Come in un sogno.

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