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Democrazia futura. Europa, se ci sei batti un colpo… ma fallo subito

Pubblichiamo di seguito il contributo di Pier Virgilio Dastoli, Presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo (CIME), alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica4.0e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.

Il piano della Commissione Europea

Un fiume di denaro dovrebbe nascere da Bruxelles nei prossimi mesi e scorrere per almeno tre anni in tutti i paesi membri distribuendosi sette rami, in parte sotto forma di prestiti a tasso agevolato, in parte sotto forma di sovvenzioni dirette e in parte attraverso programmi europei la cui destinazione nazionale non è determinata in partenza.

La quota più consistente del denaro sarà distribuita nel quadro di quello che è ormai noto come NEXT GENERATION EU (NGEU) dotato di 750 miliardi di EURO che sarà finanziato nel quadro del piano per la ripresa (EUROPEAN RECOVERY PLAN) che non è un fondo – come è stato scritto più volte – ma il quadro proposto dalla Commissione per finanziare sia il NGEU che gli altri programmi europei e che è legato al bilancio pluriennale 2021-2027.

Per finanziare i necessari investimenti la Commissione ha proposto – ed i governi hanno accettato – di emettere obbligazioni sui mercati finanziari internazionali per conto dell’Unione europea con una scadenza che varierà da 3 a 30 anni, legando il rimborso al bilancio pluriennale europeo creando così debito pubblico europeo. Affinché i sottoscrittori delle obbligazioni sappiano che il rimborso è garantito la Commissione ha proposto di aumentare il suo margine di manovra e cioè la differenza fra il massimale delle risorse proprie nel bilancio a lungo termine 2021-2027 (vale a dire l’importo massimo dei fondi che l’Unione può chiedere agli Stati membri per finanziare le proprie spese) e le spese effettive. Per evitare tuttavia di dover ricorrere alla scadenza delle obbligazioni ai contributi degli Stati membri riaprendo l’antico dibattito fra contributori netti (e cioè i paesi che ritengono di versare all’Unione più di quanti benefici derivino loro dalla loro appartenenza) e beneficiari, la Commissione ha annunciato che intende proporre di sostituire – gradualmente seppure non totalmente – il sistema delle quote nazionali legate al Prodotto Interno Lordo con vere risorse percepite direttamente dall’Unione per tassare i giganti del web (WEB TAX) o colpire alle frontiere europee i prodotti ad alto contenuto di carbonio (BORDER CARBON ADJUSTMENT) o armonizzare le imposte sulle società introducendo una base imponibile minima per combattere i paradisi fiscali europei o modificare il sistema di scambio di emissione  al fine di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra o penalizzare i prodotti a forte contenuto di plastica.

Una complicata corsa a ostacoli

Al fine di raggiungere questi risultati e rendere sostenibile il nuovo debito pubblico europeo, l’Unione europea deve essere capace di affrontare una complicata corsa ad ostacoli che, per chi conosce l’atletica, vuol dire nello stesso tempo avere la capacità di percorrere la distanza nel minor tempo possibile e possedere un ottimo senso del ritmo.

Gli ostacoli durante la corsa riguardano l’approvazione definitiva entro la fine di quest’anno del NGEU, dell’aumento del massimale delle risorse proprie e del bilancio pluriennale 2021-2027 che richiede nei primi due casi l’accordo dei governi e dei parlamenti nazionali e nel terzo caso l’accordo del PE e la decisione definitiva del Consiglio. Gli ostacoli non finiscono qui perché il pacchetto delle nuove risorse proprie che la Commissione (su proposta di Paolo Gentiloni) intende sottoporre al Consiglio ponendo come scadenza il 2024 dovrà passare attraverso la missione impossibile di un accordo internazionale per la web tax e il border carbon adjustment e, in sua mancanza, di una decisione autonoma dell’Unione europea adottata all’unanimità dal Consiglio e ratificata da tutti i parlamenti nazionali con una procedura che riguarda anche le imposte sulle società e sulla plastica e il sistema delle quote di emissione con la sola eccezione del border carbon adjustment che corrisponde di fatto ad un dazio e dunque ad una competenza esclusiva dell’Unione.

Ai blocchi di partenza di questa corsa ad ostacoli e se volgiamo lo sguardo indietro all’inizio della pandemia e, ancora più indietro, alla crisi finanziaria internazionale scoppiata nel 2007-2008, dovremmo concludere che l’Unione europea ha battuto un colpo e che lo ha fatto con una velocità inattesa.

Il fiume di denaro che sgorgherà dalla sorgente di Bruxelles e che arriverà nei paesi membri a partire dalla prossima primavera se non incontrerà nella sua corsa ostacoli insormontabili non avrà risolto i problemi dell’Unione perché servirà solo a riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia aiutando gli Stati membri nella ripresa e nella resilienza, sostenendo l’avvio della transizione ambientale e lo sviluppo dell’economia digitale, rafforzando la ricerca per prepararsi a crisi future.

Il nuovo cantiere per rilanciare il progetto europeo

Non si può attendere la fine dell’emergenza per aprire il dibattito sul futuro dell’Unione europea e porre le basi per un nuovo progetto europeo anche attraverso un cantiere per la revisione del Trattato di Lisbona sottoscritto tredici anni fa.

Al centro del cantiere ci deve essere il Parlamento europeo ma il cantiere deve essere aperto alla partecipazione della società civile perché l’ingresso deve essere per tutti e non solo per gli “addetti ai lavori” istituzionali.

Il Parlamento europeo ha considerato che la Conferenza sul futuro dell’Europa – una vaga idea lanciata da Macron nel marzo 2019 – potesse essere uno spazio per affermare la sua leadership e tentare di riaprire il cantiere dell’Unione europea chiedendo una riforma dei trattati a più di dieci anni dall’entrata in vigore di quello di Lisbona nel dicembre 2009.

Apparentemente bloccata dalla pandemia, la Conferenza non è partita perché sono molto distanti le posizioni fra il Parlamento europeo e i governi non solo sul principio della revisione dei trattati (che è condiviso per ora solo dal governo austriaco che vorrebbe ridare agli Stati delle competenze attribuite all’Unione) ma sulla governance (e cioè su chi deve presiederla), sui suoi tempi, sulle modalità del coinvolgimento della società civile e sul destino delle sue proposte.

Alla Conferenza Ursula von der Leyen ha dedicato trenta parole in quindici pagine del suo discorso sullo “stato dell’Unione” dicendo che una delle sue missioni – “nobili e urgenti” – sarà la questione delle competenze in materia sanitaria. Non una parola sulla Conferenza è stata invece spesa in altre parti del discorso sul futuro dell’Unione che pur richiederebbero una riforma che potremmo chiamare costituzionale.

Possiamo immaginare che il solido pragmatismo tedesco abbia portato lentamente la Presidente della Commissione europea a riflettere sui rischi che una Conferenza promossa sulla base di un più che minimo comun denominatore fra Parlamento e governi possa diventare rapidamente uno spazio all’interno del quale scaricare tutte le questioni del “potere costituito” (e cioè delle decisioni che dovrebbero essere prese dalle istituzioni sulla base dei trattati e delle procedure attuali) lasciando da parte il “potere costituente” (e cioè tutto quel che deve essere fatto al di là dei trattati).

Le materie – “nobili e urgenti” – da sottoporre al potere costituente non mancano e sono state messe in evidenza in questi mesi di pandemia: la capacità fiscale dell’Unione europea e le risorse proprie, la governance dell’UEM per risolvere quella che Ciampi chiamava la sua zoppia, la paralisi nella politica estera e della sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa per la prevalenza assoluta del metodo intergovernativo, l’integrazione differenziata e cioè il tema dell’Europa a due velocità, l’inadeguata ripartizione delle competenze e – last but not least –  il tema della incompleta democrazia europea.

Non servono elencazioni autocelebrative

Speriamo che il Parlamento europeo comprenda rapidamente il tempo perso nella ricerca di un minimo comun denominatore con il Consiglio e proponga alla Commissione una via alternativa alla Conferenza sul futuro dell’Europa, infragilita anch’essa dalle conseguenze del COVID-19, che passi attraverso l’incontro fra la democrazia rappresentativa e quella partecipativa affinché questa legislatura diventi finalmente costituente per costruire una “unione vitale in un mondo fragile”.

L’Unione europea, le sue cittadine e i suoi cittadini insieme alle istituzioni che li rappresentano ai vari livelli non hanno bisogno di una elencazione autocelebrativa di tutti i provvedimenti finanziari proposti, adottati o in una buona parte ancora sub judice (essendo i giudici di ultima istanza i parlamenti nazionali e, in minima parte, il Parlamento europeo) legati alla post-pandemia.

Quest’elenco può essere scaricato facilmente dai siti della Commissione, del Consiglio e del Parlamento europeo e, seppure con molte confusioni e imprecisioni, è stato più volte pubblicato dai media e dalla stampa mentre l’opinione pubblica si è in parte familiarizzata con gli acronimi nati dalla fervida immaginazione europea: Sure, MES, NGEU, REACT EU, INVEST EU, RESCUE, MFF…

Non intendiamo certo sottovalutare gli effetti economici di queste misure ma suggeriamo di lanciare piuttosto un “monito agli Europei” sullo stato dell’Unione oggi, in un mondo scosso da problemi immensi di fronte ai quali le organizzazioni internazionali e i loro leader si sono mostrati fino ad ora incapaci di proporre e adottare soluzioni a lungo termine.

Le une e gli altri sono rimasti sordi al grido di tutti coloro che chiedono giustizia, da Lesbo a Minsk, da Hong Kong a Santiago del Cile, da Beirut a Varsavia e in molte città degli Stati Uniti al monito Black Lives Matter, da Sofia ad Algeri, in Sudan e in Thailandia per non parlare della mobilitazione dei giovani richiamati da Greta Thunberg nelle rete internazionale Friday for future.

Questa mobilitazione fu anticipata nel settembre 2015 dalle Nazioni Unite con l’Agenda 2030 per i diciassette obiettivi dello sviluppo sostenibile e sintetizzata nella promessa no-one left behind.

Mancano dieci anni al 2030 ma la maggioranza di quegli obiettivi è ben lontana dalla loro realizzazione.

Il ruolo futuro dell’Unione europea nel contesto internazionale. Agenda digitale e Piano di azione per la democrazia

E l’Unione europea?

La politica estera e di sicurezza dell’Unione europea dovrebbe essere fondata sul metodo delle decisioni a maggioranza e su due principi irrinunciabili: il ripudio della guerra e dunque di soluzioni militari per dirimere le controversie internazionali insieme al rispetto dei diritti fondamentali e delle convenzioni che li hanno resi vincolanti.  

Al suo interno, il Pilastro Sociale di Göteborg è ancora al livello di una dichiarazione solenne, l’obiettivo del completamento dell’Unione economica e monetaria con l’eliminazione della sua zoppia (come la chiamava Carlo Azeglio Ciampi) è stato accantonato da tempo mentre proseguono interminabili negoziati sull’unione bancaria, la dimensione delle realtà territoriali (aree interne e città) è ignorata, la dipendenza energetica e tecnologica è crescente e il divario generazionale si è fatto più profondo.

L’agenda digitale è di là da venire anche se una svolta potrebbe venire dal “piano di azione per la democrazia” e dal pacchetto legislativo “Digital Service Act” per riscrivere le regole europee sulle piattaforme online in preparazione nei servizi della Commissione europea.

Serve con urgenza un atto di coraggio prima culturale e poi politico ma questo atto potrà essere compiuto dalle istituzioni solo se esse sentiranno che hanno il sostegno della maggioranza delle cittadine e dei cittadini europei.

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